23 luglio, 2022

Scrittori su Nuovi Approdi. Salvatore Sutera.

 

(immagine dal sito XXI secolo)

Il pallone

di Salvatore Sutera (*)


Una striscia di terra, in cui solo il fango e la neve ormai indurita lasciavano indovinare il tracciato di quella che sino a pochi giorni prima era una stata una via di comunicazione, divideva un esiguo gruppo di soldati russi da ciò che rimaneva di una decina di povere case bombardate qualche giorno prima. Tra quei ruderi un giovane soldato ucraino montava la guardia al nulla.

Il pallone era lì, sul ciglio di un cratere causato dal proiettile di un carro armato. Tutt’intorno lamiere contorte, vetri esplosi in una miriade di frammenti simili alle tessere di un mosaico improvvisamente disfattosi, una bombola del gas, delle pentole, stoviglie, dei libri, alcuni giocattoli che non avrebbero mai più rallegrato il volto di tanti bambini. Un materasso pencolava dal primo piano di una casa sventrata, trattenuto appena dalla rete del letto che sembrava non volesse lasciarlo andar via. Sparse ovunque delle foto che ricordavano la storia di intere famiglie, accartocciate, bruciate, carte morte come i soggetti in esse rappresentati. Solo il pallone era sano, senza un graffio, luccicante di grasso. Sembrava non avesse mai ricevuto un calcio in vita sua.

Il soldato ucraino era a pochi passi da quella sfera illuminata dalla luce della luna. Dal suo rifugio continuava ad osservarla, attento però a qualsiasi movimento provenisse dal fronte avversario. I suoi superiori lo avevano lasciato di guardia alle rovine di quel villaggio come se avesse dovuto difendere il tesoro di Stato.

Fino a poche ore prima era rimasto in compagnia della sua solitudine, poi erano giunti quei russi che si erano posizionati dietro il vicino boschetto. Non avanzavano, si limitavano ad sorvegliare la zona. Temevano che tra quelle case fossero appostati i soldati ucraini e così attendevano ordini che sembravano non arrivare.

Dopo aver dato un ultimo sguardo in giro, il militare tornò a osservare il pallone.

Misurò ad occhio la distanza: solo una decina di metri lo separavano dalla sfera. Nessuno in giro, almeno così sembrava. Tornò a sedersi dietro un muro sfregiato e appoggiò per terra il fucile tra le gambe incrociate; stiracchiò le braccia allungandole verso l’alto, poi si alzò nuovamente. Come era stancante quella mancanza di azione!

Fece qualche passo e toccò timidamente il pallone con la punta del piede; la lucidissima sfera fece un mezzo giro in avanti, poi, con una tecnica affinata da anni, la fece salire sul collo del piede e cominciò a palleggiare. Nonostante gli scarponi militari il suo controllo era perfetto; il pallone sembrava danzare ora sul piede destro ora sul sinistro, poi sulle cosce, la testa, gli omeri. Fino a poche settimane prima del suo arruolamento era stato un calciatore professionista, militante nella prima serie, acclamato dalla folla come un novello gladiatore, amato dalle donne, idolo di tanti ragazzini. 

Quando correva veloce come il vento verso il portiere avversario sembrava che una forza inarrestabile lo spingesse, facendogli inventare dribbling, tunnel, cambi di passo che confondevano i difensori; poi, trovato un varco nella difesa avversaria, calciava con una straordinaria potenza verso la porta. 

 Quanti goal aveva segnato in quell’ultimo campionato interrotto dall’invasione russa! Per due stagioni consecutive era stato il capo cannoniere e sicuramente anche quell’anno sarebbe stato incoronato con quel titolo, ma le cose erano andate diversamente!

Molti suoi compagni di squadra erano stati uccisi, e assieme a loro tanti tifosi, arruolatisi volontari per difendere il proprio Paese, giacevano adesso insepolti tra il fango e le pietre, con gli occhi sbarrati a guardare un’ultima volta il cielo color piombo dal quale planavano lentamente fiocchi di candida neve, o con le mani strette attorno a quella terra che avevano deciso di difendere fino alla morte.

Il soldato continuava a palleggiare con stile, elegante come una scultura greca, simile ad un eroe mitologico, lontano, con la mente, dal fetore di morte che ammorbava l’aria. Il pallone sembrava incollato ai suoi piedi, e la luna, sempre più spendente contro il cielo freddo della sera, sembrava emanare la stessa luce di  quei potenti fari che  illuminavano il campo di calcio durante gli incontri in notturna.

Ad un tratto il rapido battere di ali di un uccello lo distrasse e la palla cadde per terra, rotolando poi lungo il leggero declivio che scendeva verso la strada che costeggiava il boschetto. Pericoloso scendere per riprenderla, il nemico era nascosto a breve distanza, dietro quegli alberi, e con quella luce sarebbe stato un bersaglio fin troppo facile. Si rassegnò. In fondo - si disse - anche per pochi minuti aveva goduto della normale quotidianità della sua vita di un tempo. Fece spallucce e stava tornando verso il suo rifugio quando sentì un leggero rumore dietro di lui. Si girò improvvisamente temendo di avere il nemico alle spalle, alzò il fucile pronto a far fuoco quando, con sorpresa, si rese conto che il pallone era tornato da lui. E come poteva essere? 

Sospettoso volse lo sguardo tutt’attorno: nessuno. Si udiva soltanto il respiro del vento freddo che agitava i rami dei vicini alberi e penetrava fin dentro le ossa. Ad un tratto, a circa trenta metri di distanza, alla base della leggera china lungo la quale era scivolato il pallone, scorse una figura in controluce. Un soldato, un nemico! Immediatamente si appiattì a terra dietro alcune travi di legno, pronto a far fuoco. Accidenti, pensò, quell’imprudenza avrebbe potuto costargli cara! Rimase in silenzio con l’uomo inquadrato nel mirino del fucile quando udì la voce del militare russo che gli gridava: “Ti ho riconosciuto, campione! Palleggia ancora, ti prego…era uno spettacolo bellissimo!”.

Quel soldato doveva avere la sua stessa età, almeno a giudicare dalla voce chiara e acuta; sicuramente lo aveva visto giocare tante volte, aveva esultato con lui per un goal o si era morso le dita per una rete mancata per un soffio.

La lama tagliente del vento continuava a incunearsi tra le case di quel villaggio, un luogo senza vita dove anche il tempo, morti gli uomini,  sembrava non aver motivo di continuare a scorrere. Morto anche lui.

Lontano si udiva l’abbaiare di un cane.  Niente sembrava esistere al di fuori di quei due giovani soldati nemici e un pallone, in una notte in cui il confine tra la vita e la morte, tra un colpo di tacco e uno di fucile era sottilissimo.

Ebbene, se quella doveva essere la sua ultima ora, pensò il calciatore, sarebbe morto senza rimpianti, stagliandosi contro quell’enorme luna dalla luce abbacinante e col pallone ai piedi.

Posò il fucile, si alzò e si apprestò a compiere il suo numero davanti ad un soldato nemico. Nemico? Quella breve striscia di terra che divideva due uomini legati dall’amore per il calcio, dalla voglia di tornare a vivere, nonostante tutto, accorciava ogni distanza, eliminava i sentimenti di odio, annullava ogni credo politico.

Aveva deciso: il campione avrebbe ritrovato la sua anima sfoderando il suo repertorio da funambolo, l’uomo avrebbe riacquistato la sua libertà; lo avrebbe fatto per se stesso e per quell’unico spettatore.

Accarezzò il pallone e lo mise in una posizione comoda. Dopo il primo tocco, la sfera cominciò a volteggiare senza peso, leggera come una farfalla, morbida come una carezza, attaccata ai piedi come se una forza invisibile ve la tenesse incollata.  Era uno spettacolo vedere quel giovane in divisa palleggiare in quel teatro di morte, lasciarsi rapire dai suoi movimenti fluidi e perfetti, dalle sue pose plastiche.

“Tira, campione!” lo incitò dopo qualche minuto il russo, e il soldato ucraino, come obbedendo ad un ordine del suo allenatore, sparò una bordata che mandò il pallone altissimo, svettando verso il cielo a cercare l’abbraccio della luna. Sembrava che la sua corsa non dovesse più arrestarsi. Il pallone, quasi sfidando le leggi di gravità, continuò a salire rubando la luce alle stelle, una luce di speranza da donare ad una stupida umanità che non aveva ancora dimenticato di discendere da Caino e Abele.

“Bravo!” gridò il soldato russo.

“Grazie!” rispose semplicemente il soldato ucraino, poi tornò al suo rifugio.

Adesso tutto era silenzio. Anche la voce del vento si era spenta per ascoltare il battito di due cuori sotto due diverse uniformi.

Da una piccola costruzione poco distante, con un binocolo il comandante di quel drappello aveva osservato tutta  la scena.  “Che schifo le guerre!” sospirò. 

Sputò per terra e accese una sigaretta.


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(*) Note sull'autore


Salvatore Sutera è nato a Palermo. Laureato in Filosofia e diplomato in canto al Conservatorio "Duni" di Matera, didatta di tecnica vocale, da sempre coltiva l’amore per la musica lirica.   Per la casa editrice Leima ha pubblicato "Vento di Scirocco" sua opera prima, raccolta di otto racconti, giunta alla seconda edizione, e il romanzo "L’avventura di due garibaldini per caso" secondo classificato al Premio Nazionale Isola 2018 - Pino Fortini. Entrambi, oltre che su territorio nazionale, sono stati presentati anche a Ginevra.

Per la casa editrice Azzali, di Parma, ha pubblicato il volume "Anche un basso può volare…alto" e "Ho brillato in un cielo di stelle" dedicati alla figura del celebre basso-baritono siciliano Simone Alaimo.

L’ultima sua fatica letteraria è "Una calda scia di sangue" edita da Leima nell’agosto del 2021. Su "Nuovi Approdi" ha pubblicato il racconto "Lo sciopero d'i' gnuri". 

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/scrittori-su-nuovi-approdi-salvatore.html

Contatti: e.mail totisutera@libero.it

  



 

 

11 luglio, 2022

"Omofobo? No, però..."

                     


di  Massimo Pullara (*)


Capita sempre più spesso di leggere, in riferimento allo svolgimento dei cortei in occasione del Gay Pride, richieste di spiegazioni "giuridiche e normative" (o altre "scuse") per contestare atteggiamenti e costumi ritenuti contrari al buon gusto e alla decenza.

"Scuse", appunto...che nascondono, a mio personale giudizio e timore, ben altro!

E allora provo a dare un umile contributo.

Al di là del fatto che ritengo aberrante porre la questione...a livello giuridico, nel corso degli ultimi anni le interpretazioni sembrano essere univoche: il riferimento normativo è l'Art. 21 della Costituzione (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione....")

Dopo di che, qualcuno si spinge oltre e fa riferimento al concetto della "violazione delle norme del buon costume": come è noto il "buon costume" è un principio strettamente legato al contesto temporale, ai tempi e ai costumi della società. L'assenza del limite di oscenità e di buon costume deve essere sempre conforme al senso di umanità e ai diritti inalienabili, indisponibili e imprescrittibili di cui ogni essere umano è titolare. 

E lo dice la Costituzione! Basta leggerla!!!!

Sarebbe sufficiente questo per chiudere ogni discussione.

Aggiungo invece che i Gay Pride non sono contrari al buon costume ma manifestazioni autorizzate e molto spesso patrocinate da Comuni e Regioni, e a ciò si aggiunge che in alcune città vengono effettuati, come è noto, ogni anno.

Appare dunque ovvio, ed evidente, che la contestazione è priva di fondamento, anche perché significherebbe affermare che ogni Sindaco, o altro soggetto, che autorizzi sarebbe compiacente nel favorire manifestazioni contrarie al buon costume. E così non è!
Ripeto: porrei l'accento, piuttosto, sul perchè vengono poste simili questioni.

Un modo ritenuto "elegante" per nascondere in realtà una fobia, sperando di non esserne tacciati?

E, in ultimo, poniamoci l'unica, vera domanda possibile: perchè oggi c'è ancora la necessità di organizzare manifestazioni per ribadire e rivendicare il rispetto di diritti inalienabili?

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(*) Giornalista professionista. Docente di giornalismo. Conduttore TGS.

Socio PRUA https://www.associazioneprua.it/socio-massimo-pullara/



10 luglio, 2022

Palermo e la memoria: una lacuna da colmare.

Un caffè col Gattopardo

di Luigi Sanlorenzo (*)


Nel 2023 ricorreranno  sessantacinque anni dalla pubblicazione postuma della prima edizione de "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, una delle opere letterarie del’900 più tradotte nel mondo e fonte di ispirazione dell’omonimo capolavoro cinematografico di Luchino Visconti.

Il libraio palermitano Salvatore Fausto Flaccovio inviò a Vittorini il 27 marzo 1957 il dattiloscritto del Gattopardo accompagnandolo con un suo commento molto positivo “... c’ è nel romanzo, almeno così ritengo, qualcosa di più: un senso cosmico smarrente dell’oblio e della pace, quasi una stanchezza di vivere, un distacco dalla lotta e dalle sue infatuazioni, un bisogno di assolute certezze che né gli eventi né i sentimenti possono dare ...”.

Tuttavia la pubblicazione dell’opera fu respinta nel 1956 da Elio Vittorini, consulente prima per Mondadori e, nel 1957,  per Einaudi, con una lettera dal seguente tenore

 

“Egregio Tomasi, il Suo Gattopardo l’ho letto davvero con interesse e attenzione. Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto vecchiotto, da fine Ottocento, il Suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica. Tuttavia, devo dirLe la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti. Voglio dire che seguendo passo passo il filo della storia di Don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare… il racconto di un’epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell’epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del Principe alle modificazioni politiche e sociali di quell’epoca. Il linguaggio, più che le scene e le situazioni, mi pare riveli meglio, qua e là, il prevalente interesse saggistico-sociologico del romanzo. Queste, in definitiva, sono le mie impressioni di lettore e gliele comunico pensando che, in qualche modo, potrebbero anche interessarLe”.

L’autore di "Uomini e no" e di "Conversazione in Sicilia" ripeté il giudizio di condanna de "Il Gattopardo innumerevoli volte"  non volle mai cambiare parere sul libro di Tomasi di Lampedusa, mentre invece cambiò idea, pentendosi, su "Il Dottor Zivago" di Boris Pasternak e su "Il Tamburo di latta" di Günter Grass, da lui entrambi respinti, intorno a quegli  anni (1958-1959).

Bizze letterarie ? Faziosità politica ? O forse uno degli effetti del clima della guerra fredda che coinvolgeva anche gli intellettuali più noti nello scontro per l’egemonia culturale. Una sorta di maccartismo al contrario !

Venuto per caso a conoscenza del manoscritto,  Giorgio Bassani invece si adoperò molto per convincere l’editore Giangiacomo Feltrinelli a pubblicarlo nella collana “Biblioteca di letteratura”, che lo scrittore ferrarese dirigeva. 


E questo perché Bassani, che si apprestava ad indagare l’aristocratica psicologia dei Finzi-Contini, coglieva  nel libro dello sconosciuto autore siciliano argomenti e temi esistenziali che già avevano improntato le sue storie ferraresi. 


Si riconosceva nella scrittura mai enfatica e dal registro ironico di Tomasi di Lampedusa, nella delusione e nel pessimismo di chi non crede alla favola del Risorgimento incarnata nell’avidità, nella rozzezza e nella vanità dei tanti Calogero Sedàra sparsi nello Stivale, moralmente e politicamente poveri, non in grado di mettere l’Italia al passo con l’Europa moderna. Pessimismo non nostalgico e nemmeno sterile perché ci fa percepire che la realtà storica è assai complessa e non sempre coincide col miglioramento della società.


Il Gattopardo, primo best seller italiano del ‘900,   vinse il premio Strega nel '59,  battendo "La casa della vita" di Mario Praz, "Una vita violenta" di Pier Paolo Pasolini e ritrovandosi al centro di uno dei più accesi casi letterari "politici" del Novecento italiano, accusato, tra l’altro, con miopia di essere un romanzo di ''destra". Venne poi la consacrazione assoluta con l’uscita dell’omonimo film di Luchino Visconti, girato nel 1963 a Palermo e a Ciminna,  vincitore della Palma d'Oro come miglior film al 16° Festival di Cannes e selezionato tra i 100 film italiani da salvare..

Il romanzo,  su cui sono state scritte migliaia di pagine di critica, fu steso dall’autore sedendo ad un tavolino all’interno del Bar Mazzara, tra Piazzale Ungheria e via Generale Magliocco. Lo storico locale  ha chiuso i battenti nel 2014 come pure l’adiacente Ristorante Charleston. 

Il distinto signore intento a riempire rigorosamente a mano  i quinterni di carta protocollo divenne  una figura familiare per i palermitani che frequentavano la zona e  molti dei quali ne conoscevano l’estrazione aristocratica e il carattere schivo e riservato “ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone” ( I racconti, 5ª ediz., Milano 1993, p. 53.)

Al termine della giornata rientrava nell’abitazione di Palazzo Butera dove si era trasferito dopo la totale distruzione nel 1943 della residenza palermitana della famiglia nella strada che oggi ne porta il nome, a fianco dell’attuale Palazzo Branciforte, attuale sede della Fondazione Sicilia.

Nel grande appartamento affacciato sul mare di Palermo lo attendeva Alexandra Wolff  Stomersee, l’aristocratica psicoanalista lettone sposata nel 1932 a Riga.  Nel 1953 Tomasi di Lampedusa aveva iniziato a frequentare un gruppo di giovani intellettuali, dei quali facevano parte Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Tomsi  Mazarino. Con quest'ultimo instaurò un buon rapporto affettivo, tanto da adottarlo qualche anno dopo. Da quel momento in poi l'illustre musicologo fu Gioacchino Lanza Tomasi.

Stroncato da un male incurabile, curiosamente Giuseppe Tomasi di Lampedusa morì lontano da casa come il suo antenato protagonista de Il Gattopardo, il 23 luglio 1957 a Roma nella casa della cognata in via San Martino della Battaglia n. 2, dove era andato per sottoporsi a particolari cure mediche che si rivelarono inefficaci. La salma fu inumata il 28 luglio nella tomba di famiglia al Cimitero dei Cappuccini di Palermo dove nel 1982 lo raggiunse la moglie.

Nell’anno in cui Palermo è stata Capitale italiana della Cultura, a sessant’anni dalla pubblicazione de Il Gattopardo,  nonostante le sollecitazione di chi scrive riportate nel corso di alcune interviste rilasciate a TRM e a Live Sicilia, a quanto pare non  apparve opportuno ricordare un grande interprete  del passaggio d’epoca del proprio tempo,  come lo era stato il protagonista del romanzo alle soglie dell’Unità d’Italia.

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Nella città che sovente ha coltivato una memoria selettiva e, spesso a senso unico, sarebbe ora il caso di colmare quella grave lacuna e, unitamente ad ogni iniziativa che l’Università degli Studi  o altre istituzioni amministrative e  culturali vorranno promuovere, potrebbe essere considerata la realizzazione di una scultura dinamica a grandezza naturale dell' autore, intento a scrivere il romanzo ad uno dei tavolini del Bar Mazzara, altro luogo legato alla memoria dei palermitani. L’istallazione potrebbe valorizzare ulteriormente l'isola pedonale di via Generale Magliocco.  

Con modalità analoghe in altre parti del mondo sono ricordati Sciascia a Racalmuto, Andersen in Central Park a N.Y, Wilde a Galway, Joyce a Trieste, Pessoa a Lisbona e lo stesso Tomasi di Lampedusa a Santa Margherita Belice (TP).

 Sarebbe insomma come prendere un caffè con il Gattopardo !

Tutto così non finirebbe col passare del tempo in “un mucchietto di polvere livida”. Sarebbe invece una grande soddisfazione per i palermitani di ieri e di oggi, un ricordo duraturo per quelli di domani, una gradita sorpresa per le migliaia di turisti richiamati in città anche dalla fama quel grande romanzo e un grande tributo di gratitudine per un autore immortale di cui Carlo Bo nel 1959 scrisse:

“La verità Tomasi l’ha studiata per conto suo e l’ha studiata in loco, soltanto frapponendo fra il dominio della natura e l’indagine interpretativa lo schermo della lontananza, adoperando la distanza come prima immagine del tempo. Solo così, grazie a questo stratagemma, la sua Sicilia del 1860-1880 assomiglia come una goccia d’acqua alla Sicilia d’oggi e meglio ancora il mondo che ci descrive corrisponde con le sue ansie, i suoi tormenti, con le se ombre chiuse e inviolabili al mondo in cui viviamo noi: ciò significa che il primo obiettivo d’ogni romanzo, la storia dell’uomo, è stato rispettato e affrontato con serietà, permettete come una necessità e non come un divertimento. Forse è per questa ragione che sin dalla prima lettura ci è sembrato che il romanzo dell’isolato e dell’irregolare Tomasi si mettesse da una parte, seppellendo senza volerlo troppa letteratura sperimentale fatta per compito e non per ordine interiore di libertà e di sincerità.”

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Nota a margine.

L'Assemblea dei soci di P.R.U.A https://www.associazioneprua.it/organi-associativi/ ha  deliberato circa l'iniziativa nel settembre scorso ed avviato già da tempo ogni utile interlocuzione con i soggetti istituzionali e della Cultura per realizzare l'istallazione attiva "Un caffè col Gattopardo" e nei giorni scorsi tutti si sono dichiarati disponibili a collaborare secondo le proprie competenze. Sembra possibile che il 65° anniversario della pubblicazione del romanzo possa essere finalmente decisivo.


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(*) Giornalista e saggista. Presidente Associazione PRUA

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/

29 maggio, 2022

Progettare il futuro dei giovani di Palermo

 

Seminario internazionale CEDEFOP, Unione Europea,
Stoccarda,  2005 (archivio dell'autore)

Dalle chiacchiere degli incompetenti alla capacità di costruire futuro

di Luigi Sanlorenzo (*)

Tra i pascoli più verdi a disposizione della pletora di aspiranti presenti nelle liste a sostegno dei candidati a Primo Cittadino di Palermo, il più appetibile sembra essere quello del "futuro dei giovani" su cui discettano personaggi di ogni genere ed estrazione sociale, alcuni dei quali,  anche se non più giovani, quel futuro amerebbero trovarlo, intanto,  sedendo sugli scranni del Consiglio Comunale o sugli strapuntini delle Circoscrizioni.

D'altronde, nelle stesse squadre di alcuni dei candidati a sindaco della città, sono presenti esponenti del mondo dell'educazione, ma spesso sono guidati da esperienze personali limitate o da spinte corporative piuttosto che da un'adeguata preparazione sui temi cruciali dello sviluppo di bambini, ragazzi, giovani adulti. Da qui l'effetto fotocopia di molti slogan e di alcuni dei programmi offerti a piene mani al corpo elettorale, sempre più deluso e disamorato e che, stando alle previsioni, rischia di attestarsi sotto la soglia di decenza di un'adeguata partecipazione al voto amministrativo.

Il tema dello costruzione del futuro dei giovani a Palermo appare ancora una volta demagogico e soprattutto trattato in modo assolutamente poco professionale da politici o figuranti tali che sovente non sanno di ciò che parlano e che proprio per tale ragione farebbero meglio a tacere. 

Un affastellarsi di proposte, speso velleitarie ed ideologiche che “lasciano il tempo che trovano” e non incidono in alcun modo sui veri processi di trasformazione. Ovviamente tutte condite dalle consuete invocazioni a “legalità”, “antimafia” “uso dei bei confiscati" usate come virgole e punti esclamativi, ricorrenti ogni dieci parole, come la ben nota interiezione frequente nel dialetto palermitano.

Il tempo dei giovani in una città normale inizia dalla scuola pubblica e dalla centralità che ad essa va data quale irrinunciabile priorità istituzionale, organizzativa e finanziaria.

A Palermo si comincia a fare esperienza di scuola in locali sovente fatiscenti dopo pochi mesi dalla consegna dei lavori, freddi, disadorni, in cui risuonano mugugni e lamentele del personale addetto, a partire dagli insegnanti e sino al cosiddetto personale tecnico amministrativo, alle prese con problemi quotidiani di agibilità degli edifici, di sicurezza degli stessi, di preoccupazione innanzitutto per il proprio futuro, di rapporti con famiglie dai comportamenti collocabili in un’ampia gamma che va dalla mafiosità arrogante che vanifica ogni intervento sugli alunni nonostante a generosa disponibilità di familiari a dipingere infissi e a sostituire rubinetti,tubi e altri materiali, a proprie spese e spesso operando direttamente sotto lo sguardo indifferente di chi dovrebbe farlo.

Com’è noto,  il Comune ha in carico le scuole materne, elementari e medie e la ex Provincia gli istituti superiori, una distinzione che l'istituzione dell'Area metropolitana dovrà presto superare. Entrambi gli Enti si occupano, quando possono e vogliono, delle emergenze strutturali, ma non entrano mai nella progettualità, lasciando tale carico ai Consigli d’Istituto, in cui non intervengono mai ad alcun titolo.

La prima proposta a tale riguardo è dunque la ri- progettazione dei rapporti istituzionali tra scuola e Amministrazione Comunale, da rivedere nella logica dell’articolazione territoriale delle Municipalità, nel pieno rispetto delle caratteristiche identitarie delle stesse, al fine di fare percepire già dalla più giovane età sia la dimensione locale che quella più complessiva della Città, fuori da ogni antica e nuova marginalità

La progettazione dei curricula (da anni prevista dall’Autonomia Scolastica) dovrà quindi tenere conto di tali elementi e trovare piena rispondenza nella priorità che l’Ente dà a tale settore operando coerenti e prioritarie scelte di bilancio. 

Il Comune, nell’articolazione specifica della Municipalità, è dunque il vero ed unico committente delle politiche scolastiche e deve trovare presso dirigenti, insegnanti e personale tecnico della scuola interlocutori attenti, interfacciando gli stessi con professionalità adeguate sul piano tecnico operativo, pedagogico e di sostegno alle situazioni difficili, nonché su quello dell’assistenza tecnica per presentare progetti su fondi UE e ora del PNRR.

Nel centro storico di Palermo e in alcune delle periferie più antiche scompaiono ogni anno  mestieri e capacità creative secolari che altrove fanno la fortuna di interi Paesi europei , diventando landmark di alcune regioni specifiche. Il problema non è nuovo ma oggi appare più grave anche a motivo dell'effetto "demotivante" del cosiddetto reddito di cittadinanza.

Prima del termine delle attività scolastiche andranno sviluppati veri e propri tavoli tecnici Scuola/Comune/Municipalità atti a predisporre politiche educative finanziabili con fondi comunitari, piani operativi e iniziative formative extracurriculari dell’anno successivo, ponendo al centro obiettivi educativi coerenti con gli specifici bisogni dei territori in questione.

Analoga sinergia va stabilita con in merito alla Scuola Superiore  perché la cesura attuale in termini di interventi tecnici e di contenuti formativi venga colmata in nome di quella continuità educativa che è essenziale nel processo di sviluppo delle singole individualità. Ad oggi, per esempio, l’attività di orientamento è sporadica se non assente e si limita a far conoscere agli adolescenti l’esistenza di questo o di quell’Istituto (gli "open day" promossi da Dirigenti Scolastici, più interessati a non contrarre l'utenza che ad altro)  senza tener conto delle vocazioni delle persone e delle caratteristiche dei territori. 

Non va trascurato lo straordinario apporto che tale sinergia può e deve trovare nello associazionismo giovanile di ogni genere, quella “marcia in più “ e quell’apertura verso la società ed il volontariato (grandissima ricchezza in regioni quali il Veneto e la Lombardia) a cui la scuola attualmente non educa, pur con lodevoli ma poco significative e individuali eccezioni.

L’ulteriore passaggio è la piena applicazione di quanto previsto dall’alternanza tra scuola e formazione professionale (figlia della ben note “passerelle” che in Germania funzionano bene e da noi sono poco note e praticate) che consenta al giovane di sperimentare, con ogni attenzione alla trasparenza e alla sicurezza,  già nella fase della scuola superiore periodi di apprendistato a fianco di quelli scolastici, scoprendo magari vocazioni e inclinazioni verso mestieri utili, richiesti e redditizi a breve. Si veda al riguardo la straordinaria esperienza, ormai trentennale, del Comune di Brescia in piena sintonia con l’Ufficio Scolastico e le Associazioni di Categoria.

Su tutto ciò finora il Comune si è ben guardato di assumere una regia piena e consapevole, sconoscendo in molti casi buone pratiche e modelli virtuosi che in altre parti del Paese e del mondo fanno della scuola l’anticamera della vita e ne costituiscono la prima e più ricca fase di educazione alla cittadinanza attiva, nell’età più ricettiva della persona.

Se di cesura si è detto circa la continuità tra scuola media e scuola superiore è di abisso culturale ed organizzativo che si deve parlare in ordine al successivo passaggio all’esperienza universitaria.

Nella nostra Città tale scelta è per la maggior parte dei giovani all’insegna dell’assoluta casualità, o, per alcuni corsi a numero chiuso, di cospicui e non sempre limpidi investimenti familiari volti ad “assicurare” la successione di studi professionali o di imprese. 

Da ciò abbandoni, mortalità studentesca, ritardi che diventano incolmabili e sfociano nella ben nota dimensione di parcheggio vissuta dai giovani palermitani e spesso protratta per disperazione in forme di ulteriore approfondimento “culturale” (lauree magistrali o master universitari estremamente teorici, in genere non necessari alla maggior parte degli studenti e magari un po’ di più a generare cattedre per i docenti).

Non a caso,  nell’Unione Europea la maggior parte dei giovani ( non orientati alla Ricerca) conclude gli studi con la laurea triennale e poi frequenta un master (spesso esterno all’Ateneo e in cui sono docenti part time manager e specialisti) in cui effettivamente si professionalizzano per proporsi al mercato del lavoro, spesso autorevolmente presente con propri esponenti negli Organismi accademici, con ottimi risultati d corrispondenza tra i contenuti dei corsi di laurea e le effettive necessità del mercato.

Chi scrive ne ha verificato personalmente nell'arco di quindici anni,  i benefici risultati nel Regno Unito, in Germania e in Norvegia durante le visite studio organizzate dall’Unione Europea https://www.cedefop.europa.eu/it per esperti, formatori ed addetti alle politiche occupazionali giovanili e avendo fatto parte a lungo del Comitato d’indirizzo dell’Ateneo di Palermo, istituito durante la prima riforma dell’Università avviata dopo il Processo di Bologna e il lancio delle lauree triennali; il confronto tra Accademia, Organizzazioni produttive, Ordini professionali e Organizzazioni Sindacali diede luogo a sinergie e all’individuazione di corsi laurea rispondenti alla realtà , troppo frettolosamente interrotte dalle successive riforme “nuove” e “nuovissime”.

Risulta chiaro che attraversando processi virtuosi di cui l’Ente Locale sia promotore e regista attento e consapevole nonché soggetto convocatore delle altre parti in questione, i giovani che ne faranno esperienza acquisteranno due specifiche consapevolezza: l’essere una risorsa strategica per il territorio in cui sono nati e la responsabilità di prepararsi con profitto (riconosciuto e premiato) ad integrarvisi perché portatori di competenze realmente utili per lo sviluppo locale.

È questa l’unica strada per ridurre gli sbandamenti, gli abbandoni, il senso di frustrazione e di disorientamento che connotano la maggior parte dei laureati palermitani, incubo da cui i più abbienti sfuggono andando a perfezionarsi altrove mentre gli altri, i molti altri, avviliscono le proprie qualità in lavori sottopagati e in nero, giungendo alla fatidica soglia dei quarantanni, svuotati di ogni energia e privi di ogni esperienza curriculare adeguata ad un corretto inserimento occupazionale. 

E ciò in un mercato del lavoro che li considera ormai troppo anziani per investire su di essi e troppo giovani per un pensionamento che sarà loro consentito non prima di altri trenta anni.

Dalla breve e succinta analisi del fenomeno dell’emergenza giovanile e della conseguente disoccupazione (che per la Sicilia e Palermo è un dato strutturale, non dipendente dalla crisi attuale) appare evidente che tutto ciò accade perché competenze istituzionali che dovrebbero incontrarsi e completarsi, di fatto si ignorano se non addirittura, si ostacolano reciprocamente.

Ne emerge una tripartizione dell’universo giovanile palermitano: una minima parte si salva - avendo le risorse o, in alternativa,  il coraggio di andare incontro al futuro pur senza mezzi - andando via prima che sia troppo tardi, una parte  si rassegna e – fenomeno in crescita tra le giovani donne -rinunzia alla ricerca del lavoro, 

una parte mediana - la più cospicua -  vegeta in attesa di interventi miracolistici, in passato alimentati da una classe politica responsabile davanti a Dio e agli uomini (e prima o poi ai giudici) di aver distrutto il carattere e il futuro di più generazioni di giovani palermitani, oggi aggrediti da un potente analfabetismo di ritorno e in situazione di fortissimo ritardo culturale, linguistico nonchè di consapevolezza sociale rispetto ai coetanei delle altre regioni d’Europa.

Appare opportuno dunque - prima di evocare fantomatici Assessorati, rutilanti Informagiovani (peraltro passati di moda da oltre trent'anni) o nuove Agenzie di qualsivoglia natura, molto appetiti da ambienti vicini a tutti le forze politiche - che si abbia il coraggio far funzionare le istituzioni locali che hanno il dovere di garantire il diritto allo studio, alla formazione e all’avvio al lavoro, come costituzionalmente previsto. 

Si investa piuttosto in processi di internazionalizzatone nel corso della formazione dei giovani, in scambi interculturali, in esperienze durature e pregnanti in culture e società da cui abbiamo molto da imparare e tanto da proporre, utilizzando le cospicue e mai considerate risorse di quell’Europa che da Palermo abbiamo sempre e solo percepito come una “mucca da mungere” e non tanto di una straordinaria opportunità di crescita e di confronto, smettendo, una volta per tutte di sentirci il “sale della terra”. 

Sotto tale profilo, pur essendo tra i Paesi fondatori dell’Unione, abbiamo molto da imparare da quelli che più recentemente vi sono entrati ed i cui esponenti che si occupano di giovani troviamo costantemente presenti, con una perfetta padronanza della lingua inglese, nelle migliaia di laboratori da Lisbona a Oslo e da Madrid a Tallin, in cui da anni si sta costruendo il futuro di giovani generazioni che non sapranno mai cosa significhino le drammatiche parole “precariato” e “stabilizzazione”.

Una considerazione conclusiva riguarda la mobilità inter-regionale o inter-nazionale, da sempre praticata senza disdoro dai rampolli della media e alta borghesia lanciati verso ruoli di prestigio,  ma che  va coltivata con intelligenza e pragmatismo anche nei confronti degli soggetti economicamente più deboli, tenuto conto di un tasso di disoccupazione giovanile di oltre il 40% https://www.ansa.it/europa/notizie/la_tua_europa/notizie/2022/04/29/sicilia-campania-e-calabria-tra-peggiori-10-in-ue-per-disoccupazione_086e09e4-93dd-4e9e-b828-236c61fca3cb.html 

Un dato drammatico che nessun miracolo potrà mai cambiare portando a Palermo, la piena occupazione - che peraltro non ha  avuto neanche durante il boom economico degli anni '60 - e ciò anche se già domani la Sicilia dovesse diventare una destinazione appetibile per giganteschi investimenti produttivi che non siano call center o altre fantasiose e avventuristiche offerte di eterno precariato. E non esiste alcun soggetto politico che di ciò non sia perfettamente consapevole, oltre ogni fascinosa soluzione "gridata" su fac simile e manifesti elettorali. 

Si tratta allora di aver il coraggio di guadare in faccia alla realtà, di comunicarla senza ambiguità ai cittadini  e di  operare su due fronti in reciproca sinergia.

In primo luogo, educare alla mondialità sin dai primi anni di scuola rendendo familiare il concetto di cittadinanza europea come opportunità che nel mondo soltanto pochi possiedono e presidiando quelle aree di apprendimento più funzionali a ciò quali la storia, la geografia, almeno una lingua diversa dall'italiano e di esperienze di scambi e gemellaggi effettivamente mutilateraterali. Studiare, dunque,  per restare ma anche per andare altrove con dignità, professionalità e con una rete di protezione sociale da estendere in Italia e in Europa, come segue.

Si tratta di mettere a punto, nel frattempo,  politiche metropolitane di sostegno economico/logistico per i primi anni di lavoro fuori dalla Sicilia, concordando con le Città europee d'immigrazione mappe di dislocazione, agevolazioni per l'alloggio, accesso ai programmi di sostegno, in caso di licenziamento,   simili al rigoroso ma efficace  "Hardtz IV" in Germania https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/italmondo/vivere-in-germania-hartz-vier-sussidi-aiuti-statali-100.html ,  il confronto tra competenze manuali, tecniche o culturali richieste ed offerte, forme di scambio quali ad esempio vaucher turistici destinati a cittadini residenti di città europee con un alto livello di lavoratori palermitani, a partire da una certa data. Noi questo abbiamo e questo possiamo scambiare, almeno nel medio termine.

Nè è il caso di illudere i giovani adulti di oggi con prospettive, già in declino dopo la fase acuta della pandemia, di co-working e south-working (che peraltro hanno riguardato lavoratori già assunti) ancora lontane per cultura lavoristica del Paese  e per dotazioni infrastrutturali logistiche ed informatiche che vedremo completate soltanto nel volgere del prossimo decennio. 

In una regione che fatica a superare l'insularità, a scegliere il collegamento stabile con il continente e ad implementare l'alta velocità, appare difficile che tali proposte possano essere considerate come risposte immediate all'emergenza in atto.




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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/

25 maggio, 2022

Il fenomeno della " post verità" quale esito dell'ignoranza e del sospetto


Foto tratta dall'archivio dell'autore

La Fiducia: spinta vitale del cambiamento

di Luigi Sanlorenzo (*)


Fiducia. Politici, manager, imprenditori e persone comuni ne parlano spesso come di un’indispensabile condizione, un capitale intangibile necessario per il funzionamento della società civile, del mercato, di un’impresa, di una bocciofila. Insomma: è una parola molto usata, forse abusata. 

Ma di che cosa stiamo parlando davvero, quando trattiamo di fiducia? Volendo cercare nella letteratura le possibili risposte, ci si imbatte in una bibliografia imponente ed in analisi sviluppate con prospettive ed in ambiti di ricerca i più diversi (politico, sociologico, aziendale, psicologico).

Nella raccolta "Trust: Making and Breaking Cooperative Relations", Diego Gambetta, all’interno del saggio "Can We Trust Trust", elabora una delle definizioni fondamentali della fiducia, ovvero: «L’atteggiamento verso un’altra persona basato sulla convinzione che questa non farebbe nulla contro di noi anche se ne avesse la possibilità e ne potesse trarre un vantaggio personale». 

Molti dei saggi contenuti nel libro di Gambetta tendono poi a dimostrare che la fiducia dipende anzitutto dalla capacità di scoprire o formulare interessi comuni e, in secondo luogo, dall’esistenza di relazioni di cooperazione, invece che esserne una precondizione. Detto diversamente, non è da una preesistente e miracolosa fiducia che nascono relazioni cooperative ed obiettivi comuni fra persone ma, appunto, avendo obiettivi comuni e cooperando per realizzarli, un poco alla volta, si genera fiducia.

La fiducia è il collante che tiene unita, o in mancanza, scompone tragicamente,  la comunità umana sin dai primordi. 

Già nelle prime esperienze di convivenza sociale fu necessario vincere la diffidenza e la paura verso l’altro, spesso nemico nella disputa per le prede o per i territori di caccia, percependo la necessità di affrontare il rischio,  in vista dei vantaggi che il passaggio da un’individualità selvaggia ad una dimensione aggregativa avrebbe potuto comportare.

A differenza della fede che trascende la realtà e confida in concetti astratti, non richiedendo riscontri   probanti degli assunti che proclama in quanto rivelati e non negoziabili, la fiducia è un processo molto complesso per quanti la ricercano e soggetta a tanti pericoli per coloro che devono concederla.

Esiste una fiducia biologica, basata in larga misura sulla dipendenza per il nutrimento, che fonda  il legame tra  la femmina di ogni specie animale e i propri piccoli,  sin dalla nascita. Il fenomeno a lungo studiato dall’etologo  Konrad Lorenz ed esposto nell’opera nota come "L’anello di Re Salomone" pubblicata nel 1949 è ricompreso nella più ampia definizione di imprinting ed è ormai scientificamente accertato e universalmente accettato. 

Come successivamente sperimentato ed approfondito dagli psicologi del comportamento e dagli antropologi, esso consiste nel seguire istintivamente e sino al raggiungimento dell’autonomia il soggetto che il nuovo nato vede per primo e che gli assicura il nutrimento, la protezione e l’interazione con l’ambiente. Non si tratta di un sentimento ma di un istinto necessario alla sopravvivenza.

Di tutt’altra natura sono la fiducia sociale e l’ancora più complessa fiducia politica in cui entrano in gioco anche elementi di piena consapevolezza. Diamo fiducia perché ci aspettiamo qualcosa di buono da qualcun altro, ma non ne siamo certi, tuttavia le cose che sappiamo, il carico cognitivo e quelle che sentiamo, il carico emotivo,  sono qualcosa di più di una mera speranza, quindi solo dopo aver fatto una sintetica ricognizione dei costi e dei benefici futuri e abbandonando le esitazioni,  ci inoltriamo nel rapporto fiduciario.

Il clima di profonda insicurezza generato dalla pandemia e dagli effetti economici e sociali che esso sta comportando, è una condizione ideale per esaminare il tema, individuarne i rischi, contenerne gli effetti che, anche sul piano politico ed istituzionale,  possono essere devastanti.

Oggi la fiducia è considerata la risorsa più preziosa in ogni campo a motivo del fatto che nelle società evolute la delega a qualcuno che operi a tutela degli  interessi collettivi è in larga misura volontaria, discrezionale e soggetta a oscillazioni di ogni genere. 

Anche nelle organizzazioni più gerarchiche o autoritarie, il tasso di realizzazione dei risultati è funzione del livello di fiducia che intercorre tra il vertice e la base e viceversa, non potendo essere in alcun modo assoggettata al  controllo l’intera gamma delle variabili del comportamento umano.

La sociologia  suole distinguere all'interno di questo sentimento morale che permea l'ordine sociale almeno tre tipi di fiducia: la fiducia sistemica o istituzionale, ossia quella che gli attori sociali ripongono verso l'organizzazione naturale e sociale nel suo insieme,  la fiducia personale o interpersonale, quella che gli attori rivolgono agli altri attori sociali, l’ autoreferenza o fiducia in sé stessi.

La fiducia sistemica è stata analizzata dai fondatori della sociologia Max Weber ed Emile Durkheim anche se non in maniera nitida come dai successivi scienziati sociali.  

Come nota Antonio Mutti nell’opera "Capitale sociale e sviluppo - La fiducia come risorsa" Il Mulino, Bologna, 1997  «Si tratta (...) di una presenza confusa con quella di legittimità, consenso, cooperazione, solidarietà. Il concetto di fiducia interseca indubbiamente tutte queste dimensioni, ma non si confonde con esse; ha diritto, perciò, a uno statuto specifico, come ben traspare dalle brevi ma dense note di Georg Simmel l'unico grande classico del pensiero sociale che ha trattato la fiducia come categoria specifica d'analisi».

 E ancor prima dei padri fondatori della sociologia, l'idea che i soggetti stipulino un contratto sociale tra di loro era a fondamento delle teorie contrattualistiche del giusnaturalismo.

La fiducia interpersonale, sempre secondo Antonio Mutti, viene, allora, prioritariamente definita come «l'aspettativa che Alter non manipolerà la comunicazione o, più specificamente, che fornirà una rappresentazione autentica, non parziale né mendace, del proprio comportamento di ruolo e della propria identità. 

L'aspettativa di Ego concerne cioè la sincerità e credibilità di Alter, intese come trasparenza e astensione dalla menzogna, dalla frode e dall'inganno».

L’ autostima o fiducia in  se stessi, infine, deriva da elementi cognitivi ovvero dal bagaglio di conoscenze di una persona, la conoscenza di sé e di situazioni che vengono vissute dal soggetto; elementi effettivi che vanno ad influenzare la nostra sensibilità nel provare e ricevere sentimenti, che possono essere stabili, chiari e liberanti; elementi sociali che condizionano l'appartenenza a qualche gruppo e la possibilità di avere un'influenza sul medesimo e di ricevere approvazione o meno dai componenti.

Si tratta di concetti abbastanza noti, se non addirittura basici nella formazione universitaria e manageriale, rispetto ai quali tuttavia, lo sviluppo degli studi compiuti dalle neuroscienze sta aprendo nuovi e più interessanti orizzonti che il mondo della comunicazione segue con grande attenzione, pur nell’eterogenesi dei fini che sconfina nella disinformazione attraverso i social e  nell’ormai dilagante fenomeno della produzione di fake news.

Nel saggio "Not so different after all: across-discipline view of trust" pubblicato in "Academy of management Review" Vol. 23,  1998, gli accademici  Denise M. Rousseau (Carnegie Mellon) Sim Sitkin (Duke) Ronald S. Burt (Chicago)  e Colin Farrell Camerer (Pasadena) descrivono  le differenti forme di fiducia secondo quattro tipologie.

La fiducia basata sul deterrente (Deterrence-based trust): un agente crede che l’altro si comporterà in maniera affidabile perché le sanzioni che riceverebbe nel caso in cui tradisse la fiducia sono più costose di eventuali benefici opportunistici. 

La questione che rimane aperta riguardo a questo tipo di fiducia è il rapporto con il controllo:alcuni sostengono infatti che la fiducia basata sul deterrente non possa chiamarsi propriamente fiducia, anche se favorisce la cooperazione. Altri fattori, ad esempio, la coercizione, possono infatti incentivare un comportamento cooperativo, ma spesso più che forme di fiducia sono forme di controllo. In realtà, il rapporto tra fiducia e controllo è molto complesso.

La fiducia basata sul calcolo (calculus-based trust): si fonda su una scelta razionale, tipica degli scambi economici. Il trustor ha la percezione che il trustee intenda compiere un’azione vantaggiosa per lui.

Questa percezione deriva sia dalla fiducia basata sul deterrente, ma anche e soprattutto dalle informazioni sulle intenzioni e sulla competenza dell’altro, ottenute tramite reputazione, ossia fidandosi dei racconti di altri sul trustee o tramite certificazione. Pare che all’interno di questo tipo di fiducia, gli autori non contemplino l’esperienza diretta, tipica invece della terza forma. Le parti si fidano, ma dietro verifica. 

Il concetto di verifica non è purtroppo approfondito: da un lato, è sicuramente precedente alla decisione di fidarsi, nel senso che per fidarsi sono necessarie alcune condizioni:informazioni sull’affidabilità del trustee dall’altro, potrebbe anche essere con verifica “postdecisione” ossia controllo dell’operato del trustee una volta che il compito gli sia già stato affidato.

La fiducia relazionale (relational trust): deriva dalle interazioni ripetute. La reputazione è costruita dall’esperienza diretta. 

Non solo, secondo gli autori, in questo caso interviene anche l’emozione, poiché le interazioni frequenti e a lungo termine formano un attaccamento basato sulla preoccupazione e la cura interpersonale. Essa può anche superare eventuali violazioni, a differenza della fiducia basata sul calcolo, che ne sarebbe invece penalizzata fino all’interruzione di ogni relazione. 

La forma più elevata di questa fiducia, che loro chiamano “affettiva”, è la fiducia basata sull’identità, definizione mutuata dal prestigioso studio di consulenza manageriale statunitense Cameron MacAllister Group, di Orinda, California.

La fiducia basata sull’istituzione (institution-based trust) è la fiducia basata sull’esistenza di sistemi legali per proteggere dall’assunzione di rischio insita nella decisione fiduciaria. Così come per la deterrence-based trust, il problema sollevato è: si tratta di una forma di fiducia o di una forma di controllo?

Per tutti coloro che hanno studiato il tema,  resta comunque impregiudicato il concetto che la fiducia poggi su tre dimensioni declinabili e integrabili con pari intensità: il comportamento (behaviour ) la competenza (competence)  la  benevolenza in senso lato  (goodwill) testimoniate concretamente  dal profilo di  coloro che aspirano ad ottenerla. 

Un’ utile e sintetica metodologia ad excludendum, secondo l'espressione coniata negli anni settanta dal giurista e politico Leopoldo Elia,   da tenere a mente quando sarà il momento di scegliere da chi e come si vuole essere governati, ma valida frattanto per valutare chi già oggi esercita il potere, sia esso legislativo, esecutivo o giudiziario.

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Nei prossimi giorni tutti i cittadini italiani saranno chiamati a  votare per cinque referendum abrogativi https://dait.interno.gov.it/elezioni/speciale-referendum in merito alla propria fiducia o meno nei confronti dell'attuale assetto della Magistratura, recentemente modificato in piccola parte dalla cosiddetta "Riforma Cartabia"  e oltre nove milioni di essi dovranno pronunciarsi anche in merito al governo di centinaia di comunità locali di molteplici dimensioni.

Si tratta di due cospicui investimenti fiduciari che attengono all'essenza della convivenza civile, alla capacità delle Istituzioni di dare risposte ai bisogni sociali, alla certezza di essere giudicati con garanzie di terzietà e di ogni possibile rapidità, bisogni che non riguardano soltanto la comunità nazionale ma che sono avvertiti anche come asset di civiltà cui l'Unione ascrive la massima importanza per il processo di progressiva convergenza di tutti i Paesi membri.

Buon governo delle comunità e garanzie del sistema giudiziario sono anche elementi strategici che operano nell'inevitabile competizione tra i territori per stimolare la natalità, per  attrarre nuova popolazione contribuente  ed investimenti produttivi sia domestici che internazionali.

E' necessario, allora, depurare da qualsiasi connotato ideologico il voto del 12 giugno, sia referendario che amministrativo, sottraendolo alla propaganda di chi vuol fare l'ennesima "bandierina" da piazzare in vista di future elezioni politiche, quelle sì, a pieno diritto, luogo di schieramento e confronto anche aspro tra differenti visioni del mondo, della soluzione dei problemi nazionali, della consapevole appartenenza all'Unione Europea.

Ricondurre sui giusti binari le prossime competizioni elettorali rappresenta l'unico percorso per ridurre l'astensionismo ormai allarmante delle nostre comunità che, come insegna la Storia, finisce con la consegna del potere a minoranze culturali  talmente rumorose da diventare maggioranze politiche, legittime certamente ma che allontanano ulteriormente i cittadini dalla partecipazione alle scelte di fondo.

Insomma,  la Fiducia è una complessa necessità. Per vivere. Una necessaria scommessa con tante dimensioni. Ed imparare a darla è quasi più importante che riuscire ad ottenerla, comprendendo quanto essa sia indispensabile per vivere e lavorare alla costruzione del Bene Comune.


Lezione Magistrale di Salvatore Natoli, già professore ordinario di Filosofia teoretica 
Università degli Studi di Milano-Bicocca, 2017



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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA.

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/