Dal film "The Road", 2009, di John Hillcoat. (fatamorgana web)
Oltre ogni analisi, l'epica dell'Umanità profuga
di Luigi Sanlorenzo (*)
Quanto tutto sarà finito, la narrazione sull'Ucraina lascerà la cronaca di questi giorni per passare alla storia. Si scriveranno saggi di grande complessità e le vicende umane individuali e collettive diventeranno romanzi che amplificheranno la conoscenza molto limitata che si ha in Europa e nel mondo di una regione che fino a ieri appariva lontana come larga parte del mondo slavo.
Eppure i sentimenti e le atmosfere che oggi i media trasmettono senza interruzione hanno già avuto un interprete in Serhiy Viktorovych Zhadan, considerato il massimo esponente della poesia e della letteratura ucraina contemporanea.
Serhiy Zhadan è nato nel 1974 a Starobilsk, nella provincia di Luhansk in Ucraina. Si è laureato presso l' Università pedagogica nazionale di Charkiv nel 1996 con una tesi sul
lavoro di Myjhail Semenkoe
degli scrittori futuristi ucraini degli anni '20. Ha poi trascorso tre anni
come ricercatore in filologia e ha insegnato letteratura ucraina e mondiale e
mondiale dal 2000 al 2004. Da allora ha lavorato come scrittore freelance.
Ha iniziato a
scrivere nel 1990 rivoluzionando la poesia ucraina: i suoi versi erano meno
sentimentali, facendo rivivere lo stile degli scrittori d'avanguardia ucraini
degli anni '20 come Semenko o Johanssen. Inoltre hanno attinto alla sua terra
natale: i paesaggi industriali dell'Ucraina orientale. Voroshilovgrad (il
nome sovietico di Luhansk), in italiano intitolato "La
strada del Donbas", racconta la storia di un giovane di nome Herman che
ha lasciato la sua città natale Starobilsk (nella regione di Luhansk) ma che
deve tornare nella sua terra natale per proteggere ciò che gli appartiene
Sulla base del romanzo, il regista Yaroslav Lodygin ha
tratto il film "The Wild Fields" 2018, vincitore di numerosi premi.
Zhadan è uno
scrittore ucraino di fama internazionale, con dodici libri di poesia e sette romanzi e
vincitore di più di una dozzina di premi letterari. Nel marzo 2008, la
traduzione russa del suo romanzo "Anarchy in the UKR" è entrata nella rosa dei candidati
del National Bestseller Prize.
È stato anche un concorrente per il
"Libro dell'anno" alla Mostra internazionale del libro di Mosca del
2008. Nel 2009 ha vinto il Premio letterario Joseph Conrad-Korzeniowski. Nel
2012 Gunshot and Knife ha vinto il rating ucraino di "Libro
dell'anno" per la narrativa. Il suo romanzo del 2010 Voroshylovhrad gli è
valso il Premio Jan Michalski per la letteratura in Svizzera, il premio
"Libro del decennio" della BBC ucraina e il Premio Brücke Berlin. Le
sue poesie selezionate Dynamo Kharkiv hanno vinto il "Libro
dell'anno" ucraino. (2014) Il suo libro Mesopotamia ha vinto il
premio letterario Angelus nel 2015, il premio del presidente dell'Ucraina
"Libro ucraino dell'anno" nel 2016.
Zhadan ha
tradotto poesie dal tedesco, inglese, bielorusso e russo, da poeti come Paul Celan e Charles Bukowski. Le sue opere sono state tradotte in tedesco,
inglese, estone, francese, italiano, svedese, norvegese, polacco, serbo,
croato, lituano, lettone, bielorusso, russo, ungherese, armeno e ceco.
Il coinvolgimento attivo di Zhadan nell'indipendenza ucraina è iniziato da studente ed è continuato durante le varie crisi politiche in Ucraina. Nel 1992 è stato uno degli organizzatori del gruppo letterario neo-futurista di Kharkiv "The Red Thistle".
Ha partecipato alle manifestazioni della Rivoluzione arancione del 2004 contro la corruzione e l'intimidazione degli elettori al ballottaggio presidenziale, con funzioni da responsabile di un campo tenda a Kharkiv. Le proteste hanno portato a una revoca ordinata dalla Corte suprema ucraina. Ha ripetutamente espresso simpatia per gli anarchici e in molte delle sue opere ricorrono concetti di "sinistra".
Nel 2013 è stato membro del consiglio di coordinamento di Euromaidan Kharkiv, nell'ambito delle proteste a livello nazionale e dei violenti scontri con la polizia. I 5 giorni della rivoluzione di Maidan hanno portato alle dimissioni del presidente sostenuto dalla Russia Yanukovich. Nel 2014 Zhadan è stato aggredito all'esterno dell'edificio amministrativo a Kharkiv e nello stesso anno ha effettuato numerose visite in prima linea nella regione del Donbass orientale coinvolta nel conflitto armato con i sepratisti russi. Nel febbraio 2017 ha co-fondato la Serhiy Zhadan Charitable Foundation per fornire aiuti umanitari alle città sulla linea del fronte.
Su di lui la critica ha scritto: "La prosa di Zhadan è così poetica, i suoi versi liberi così prosaici. È difficile assegnare un genere al suo lavoro: memorie, diari di viaggio, meditazione tempestiva o inopportuna - o una miscela di tutti questi, incentrati sui temi della mia generazione e della nostra epoca " (Rostislav Melnikov e Yuriy Tsaplin della New Literary Review )
"Non è possibile riassumere le improvvisazioni speziate, calde, dolci e viziose di Serhiy Zhadan: questo è jazz verbale. Quando lo leggi, temi per la letteraura russa contemporanea: di quelli che ora scrivono in lingua russa, non c'è nessuno tra loro che sia così infernalmente libero" (Kirill Ankudinov, su Vzglyad.ru)
La trilogia del Donbass costituita da opere autonome sul
piano narrativo ma legate da un unico filo tematica si è sviluppata nel periodo
che va dal 2010 con “La strada del Donbass” al 2014 con “Mesopotamia” al più recente, “il
Convitto” del 2017 che con visionaria lucidità racconta una vicenda che
potrebbe essere una delle tante che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi in
queste ore.
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Un viaggio agli inferi.
Potente atto conclusivo di un viaggio nelle pieghe più
profonde dell’Ucraina orientale, "Il convitto" ambientato nel 2015, dispiega davanti ai nostri occhi
una guerra che, fino a ieri l’Europa aveva già dimenticato.
Paša, un giovane insegnante di inglese, vuole
riportare a casa il nipote tredicenne che vive in un convitto. Il fronte si
avvicina e la scuola in cui la sorella ha lasciato il ragazzo non è più sicura.
Attraversare la città richiede un’intera giornata e il ritorno diviene
un’odissea rabbiosa scandita dai posti di blocco e dai fuochi gialli che
lampeggiano all’orizzonte.
Le mitragliatrici rantolano, le mine esplodono.
Truppe paramilitari, cani randagi che appaiono come fantasmi tra le macerie,
un’umanità apatica che brancola disorientata in un paesaggio urbano
apocalittico, dove ogni gesto di malinconica fratellanza e il senso di
responsabilità si stagliano con luminosità commovente.
Paša e il nipote si muovono in uno scenario apocalittico e non
si può, non si deve, dimenticare che questo non è soltanto un romanzo. La
migrazione in altre regioni dell’Ucraina o all’estero per fuggire da granate e
soprusi è reale.
Paša non è un eroe classico, forse non lo è proprio e alcuni suoi tratti sono simili a "L'uomo senza qualità" il capolavoro incompiuto di Robert Musil che ha segnato una generazione o a Leopold Boom dell' Ulisse di Joyce che si fa padre di un figlio non proprio, come allo Zeno Cosini di Svevo a cui rinvia la narrazione introspettiva e in prima persona.
Paša decide
di andare a prendere il nipote perché sa che la sorella non affronterà mai
il viaggio per raggiungere quel figlio che soffre di epilessia e che è
stato dimenticato in quel convitto.
Il protagonista è mosso dall’amore e dal senso di
responsabilità e da quello di colpa: doveva riportare a casa il ragazzo prima.
Spostarsi non è mai stato così difficile e improvvisamente ci si ritrova scaraventati in un labirinto kafkiano: la stazione è invasa da persone, i
militari per strada fermano le persone, il viaggio in taxi assomiglia di più a
una rocambolesca fuga. Diffficilmente Paša con il suo vecchio
cellulare (per comunicare con la sorella e il papà anziano) possa riuscire
nell’ impresa.
Le tre giornate di Paša, non conoscono riposo e
possono essere riassunte in termini di una lunga corsa che, nella seconda parte
del testo, si trasforma definitivamente in una fuga disperata per tornare al
calore del focolare, all’ “odore di lenzuola appena lavate” (p.306).
Nel
momento in cui Paša esce di casa non sa esattamente cosa lo aspetti, la sua
riluttanza nei confronti dei telegiornali, che tende sempre ad ammutolire, lo
coglie impreparato di fronte a ciò che incontra fuori dalla sicurezza
dell’abitacolo. Ben preso si accorge, però, del fatto che l’atmosfera ha
qualcosa di strano e questa sensazione viene enfatizzata dall’assenza del canto
degli uccelli. Il recupero del nipote si trasforma ben presto in un percorso
attraverso truppe e posti di blocco. Eppure, in tre giorni l’intero svolgimento de "Il convitto" è tutto qui, Paša raggiungerà il nipote.
Il carattere interessante del romanzo non si ferma al
fatto che viene raccontata, con uno stile sensazionale, una guerra ancora oggi
attuale, ma il modo in cui questa narrazione si dispiega. Il punto di vista è
infatti quello di un civile, la cui unica volontà è quella di riportare a casa
il nipote, non c’è nessun atto eroico da parte di Paša. Risiede proprio in
questo punto di vista la chiave vincente del romanzo, di fronte alla guerra non
ci sono privilegiati, le sensazioni sono due, da una parte la paura e
dall’altra la voglia di continuare a vivere.
Un romanzo di guerra e di formazione al tempo stesso, come
ricorda la postfazione della traduttrice Giovanna Brogi,ordinario di Slavistica nell'Università di Milano, perché sia Paša che il nipote, subiranno importanti
trasformazioni.
Il protagonista insegnante, che non combatte a causa di una
malformazione alla mano, sta cercando – almeno all’inizio – di tenersi fuori
dalla questione guerra il più possibile. Dunque non un eroe
tradizionale, anzi. Vuole a tutti i costi rimanere neutrale e il contrasto con
chi invece prende una posizione è stridente, fastidioso e persino doloroso.
L’insegnante di educazione fisica, conosciuto al convitto, avrà un ruolo
cruciale. Ma anche il giornalista Peter, che lo abbandona in mezzo ai soldati,
lo spingerà a riflettere sulle azioni e sull’identità stessa di questo campione di mediocrità.
Ma il
riscatto arriva per tutti anche se doloroso. Le macerie, i morti, il freddo, la
fame tutto contribuisce alla crescita dei nostri due protagonisti.
Toccante la
scena in cui il ragazzino porta lo zio nei pressi di un dirupo: lì sotto c’è il
corpo di un uomo e ogni mattina alla stessa ora il suo telefono squilla. La
famiglia probabilmente continua a chiamarlo rispettando un’abitudine, ignara
delle sorti di quella vittima. Il nipote smette di essere un ragazzino e Paša
comincia a smettere di essere un vigliacco.
Quando Paša
torna indietro nel tempo a quando era un adolescente, ci commuoviamo
leggendo del suo trauma: cambiare per andare a studiare in città significava
cambiare la visione del mondo. Ed è forse proprio da lì che nasce
l’incomunicabilità con gli altri.
" Il Convitto" è un percorso del corpo e dell'anima. Un'anabasi nella mente e nel cuore di una famiglia, un viaggio nella lotta di indipendenza di alcune regioni dell’Ucraina, uno spaccato impietoso delle mille epifanie della violenza.
Paša viene interrogato, spostato da una
scena all’altra. Ma quando arriva al Convitto tutto si fa tragicamente
più chiaro. Là in mezzo a quei ragazzini rifugiati, Paša trova la forza e il
sentimento che sono mancati fino a quel punto. In mezzo ai malati, quando prega
per essere lui il destinato alla morte Paša riesce a riscattarsi
"Il tempo si è fermato, non è rimasto nulla, non c’è pietà
per nessuno. Non riuscirò mai ad andarmene da qui, nessuno ne uscirà vivo,
resteremo tutti qui, soccomberemo tutti a quest’acqua mortifera" Paša ripensa a
tutto quello che ha visto in questi due giorni, gli occhi sopraffatti dalla
stanchezza e i volti sconvolti dalla rabbia, le voci secche e rauche, i corpi
ondeggianti per l’insonnia, il freddo e l’umidità, a un tratto gli viene il
vomito: per il freddo patito, per la fame lancinante, per quel vecchio che sta
di morte come se si decomponesse proprio qui, sotto la pioggia scrosciante.
Molte sono le analogie con il capolavoro "La Strada" (The Road) di Cormac McCarthy del 2006, premio Pulitzer per la narrativa 2007 dove, in uno scenario inquietante, un uomo e un bambino - padre e figlio senza nome - spingono un carrello pieno del poco che è rimasto, lungo una strada americana che sembra uscita da un incubo.
La fine del viaggio è invisibile. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un'apocalisse nucleare che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni. Non c'è storia e non c'è futuro. Mentre i due cercano invano più calore spostandosi verso sud, il padre racconta la propria vita al figlio.
Ricorda la moglie (che decise di suicidarsi piuttosto che cadere vittima degli orrori successivi all'olocausto nucleare) e la nascita del bambino, avvenuta proprio durante la guerra. Tutti i loro averi sono nel carrello, il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare qualcosa da mangiare. Visitano la casa d'infanzia del padre ed esplorano un supermarket abbandonato in cui il figlio beve per la prima volta un lattina di cola.
Quando incrociano una carovana di predoni l'uomo è costretto a ucciderne uno che aveva attentato alla vita del bambino. Dopo molte tribolazioni arrivano al mare; ma esso è ormai una distesa d'acqua grigia, senza neppure l'odore salmastro e la temperatura non è affatto più mite. Raccolgono qualche oggetto da una nave abbandonata e continuano il viaggio verso sud, verso una salvezza possibile.
Nel libro di McCormack il padre si spegne tra le braccia del figlio, a causa di una gravissima bronchite. Ora di fronte al ragazzino sembra aprirsi un futuro di speranza, dal momento che, guidato dalla sua forza interiore, egli si annette a nuove comunità di sopravvissuti, nelle quali un rinnovato senso di civiltà e di convivenza pacifica sembra farsi debolmente strada.
Allo stesso modo, "Il Convitto" di Serhij Žadan è un romanzo in cui trovare
una rappresentazione, profondamente lirica e narrativa al tempo stesso, della
vita ai tempi di una guerra che distrugge ogni aspetto del quotidiano. Ciò che
però non si spezza è la speranza di ritornare un giorno, a quella condizione di
sicurezza priva del terrore dei posti di blocco, alla fine dell’inverno e al
germoglio di una vita “nuova”.
Emozioni profonde e sentimenti potenti che nessuna analisi politologica sarà mai capace di cogliere e, ancor meno, di rappresentare e di trasformare in memoria collettiva.
Dal film "Donbass" del regista ucraino Sergei Loznitsa, 2018
La posizione geografica e la successione delle date sono le
coordinate essenziali per comprendere la storia e l'identità di ogni territorio
e decifrarne le dinamiche interne ed internazionali.
Nascosta per oltre un secolo dietro la Cortina di
Ferro e parte integrante dell'URSS dal 1922, di quel Paese, grande quanto la
Francia, gli europei e gli italiani in particolare non si sono mai interessati
in modo particolare.
Giusto qualche ricordo scolastico della vicina Crimea,
teatro della guerra del 1853 contro la Russia in cui il saggio Cavour
volle far partecipare, accanto alla Francia e all'impero ottomano il
piccolo Regno di Sardegna per ottenere poi un posto al tavolo della pace e corroborare
le alleanze necessarie a completare l'Unità d'Italia. Un capolavoro di
strategia non sempre ricordato e che ispirò tragicamente Mussolini quando pensò
che, attaccando proditoriamente la Francia nel 1940, con uno scarso
numero di caduti si sarebbe guadagnato il posto accanto alla Germania che
trionfava nella Guerra Lampo.
Sappiamo tutti come sia finita.
Qualche altro ricordo risale al periodo tra il 1941 e il
1944 quando l'Ucraina fu occupata dalle forze dell'Asse nell'ambito della
Campagna di Russia e oltre trentamila ucraini si arruolarono nelle Waffen-SS in
funzione antibolscevica, rendendosi complici di eccidi nei confronti della
popolazione civile ebrea e comunista perpetrati dalle unità speciali Einsatzgruppen le
cui vicende sono state raccontate nel romanzo "Le benevole" (Les
bienviellantes) dello scrittore franco americano Jonathan Littel, pubblicato
nel 2006, la cui lettura consiglio.
Forse qualcosa si ricorderà dei cavalieri cosacchi, la cui
epica fu celebrato da Gogol, originari di quella regione e della tragica
adesione al nazismo. Alcuni corpi furono ridislocati insieme alle famiglie in
Carnia e nell'alto Friuli dove vennero impiegati contro le formazioni
partigiane italiane e jugoslave.
Infine, la tragedia della centrale nucleare di Cernobyl'
che nel 1986 mise in allarme tutta l'Europa; recenti film e serie di successo
su diverse reti televisive ne hanno perpetuato il ricordo.
E ci fermiamo lì, poichè di quel mondo, parte essenziale
della storia europea, poco o nulla si insegna nelle scuole o nelle
università, tranne ovviamente che nei corsi di studio dedicati alla lingua e
alla letteratura russa.
Per larga parte degli italiani e, spiace dirlo, anche
dei politici, l' Ucraina - e figuriamoci il Donbass - potrebbero essere
indifferentemente collocate in Indocina o nelle regioni che separano la Russia
dall' India, teatro del "Grande Gioco" termine coniato da Rudyard
Kipling, che è ancora in atto e per il quale si veda il saggio di Peter
Hopkirk nel 2010 che ho citato in più occasioni https://www.lospessore.com/11/03/2021/dalla-montagna-incantata-ai-deserti-dellarabia-felix-breve-saggio-sul-grande-gioco/
___________________
La storia dell'Ucraina è millenaria, luoghi come Kiev ed
Odessa sono stati la culla della storia russa e della religione ortodossa prima, (durante) e dopo la Rivoluzione di Ottobre.
Qui possono tornare utili alcune considerazioni in merito
alle dinamiche di un'area geografica di cui chi scrive ha sempre sostenuto la
necessità di considerarla parte irrinunciabile dell'identità europea https://www.linkiesta.it/2021/03/russia-putin-europa-biden/.
La prima considerazione attiene alla perenne
"sindrome da accerchiamento" che ha connotato la storia russa. Un
disagio profondo che portò prima alla spasmodica necessità di disporre di uno
sbocco nel bacino del Mediterraneo tradizionalmente dominato dalla marina
britannica, successivamente alla necessità di difendersi dall'espansione
musulmana che minacciava non solo i territori oltre i monti Urali ma la stessa
profonda identità religiosa ortodossa, infine l'espansione dell'Alleanza
atlantica, sempre protesa ad avvicinare il territorio sovietico alla
gittata dei propri missili, nonostante i forti movimenti di protesta che negli
'70 e '80 del novecento fiorirono, talvolta in modo spontaneo e talvolta
finanziati da Mosca, in Francia e in Italia. Un elemento che oggi
si ripresenta con drammatica attualità.
La seconda considerazione riguarda il tema delle
risorse energetiche, con particolare riferimento al gas naturale, poichè la
Russia ha le più grandi riserve mondiali di gas naturale e fornisce
l'Europa (e l'Italia) da oltre 50 anni. Un prezioso capitale energetico
che spesso salvò i sovietici dalla fame, accedendo agli scambi gas contro
frumento, nelle frequenti annate di produzione interna insufficiente.
La terza considerazione riguarda il tema dei diritti umani
e civili e della trasparenza (glanost) che hanno costituito
l'invalicabile diaframma tra la sensibilità europa al riguardo e rispetto al
quale va ricordato che la società russa è passata, senza la necessaria
transizione borghese, dall'assolutismo zarista a quello sovietico di cui oggi
la Russia di Vladimir Putin ha ereditato gli aspetti peggiori, elemento tanto
più grave perchè accompagnato in modo schizofrenico al selvaggio sviluppo del
dominio del mercato.
Anche in questo caso, una transizione mancata che, nella
corruzione generale e nella palese ostilità alla gradualità delle riforme
(perestrojka) invocata da Gorbacev, ha trasferito i beni e le risorse
strategiche industriali e militari ad un ristretto gruppo di oligarchi che
hanno preso il posto che fu dei boiardi, prima, e dei gerontocrati sovietici
successivamente.
La combinazione dei tre fattori, e di altri di non minore
importanza, hanno contribuito ad ingigantire il vero problema della società
russa: la divaricazione tra popolo e potere che, in Occidente, trova
composizione soltanto attraverso l'esercizio della democrazia e la
tripartizione dei poteri.
Sulla rivista francese "Il Grand Continent"
diventata un punto di riferimento del dibattito strategico, politico e
intellettuale e dal 2021 integralmente scritta in italiano, Carolina de
Stefano ha così notato nel settembre scorso:
"La Russia di Vladimir Putin è entrata in una fase
brezneviana. Nel contesto delle ultime elezioni legislative, dove il nuovo
successo di Russia Unita nasconde la costante perdita di popolarità del partito
del Presidente, si pone la questione della natura tecnocratica e autoritaria
del regime e del suo futuro a lungo termine. La Russia così com'è potrebbe
sopravvivere al suo attuale leader (......) Un maggiore controllo sulle
regioni, un miglioramento delle prestazioni statali, un controllo quasi
paranoico dei cittadini possono rafforzare il regime nel medio termine, e
questo anche al di là e oltre Putin."
"Il problema di fondo - conclude de Stefano -
però rimane: un regime autoritario, per quanto governato da tecnocrati più o
meno efficienti e memori del crollo dell’URSS, non ha maniera di colmare le
inefficienze di un sistema che reprime l’attività privata e la libertà di
espressione, e rischia di generare malcontento e quindi repressioni ulteriori,
fino ad un limite valicato il quale il regime cesserà di funzionare."
Un esempio concreto mostra che perfino la trasformazione
digitale guidata dall’alto, e alla russa, funziona sulla carta, ma non nella
realtà. La città di Innopolis, nella repubblica del Tatarstan, è stata creata
nel 2015 come un polo futuristico di produzione di nuove tecnologie.
Riconosciuta ‘zona economica speciale’, dotata dei primi taxi automatici senza
autista, uno dei suoi obiettivi ufficiali è quello di attrarre le più
promettenti industrie tecnologiche nazionali ‘e da tutto il mondo’.
Il paradosso, però, raccontato dal giornalista Leonid
Ragozin in un bellissimo reportage, è che la popolazione di giovani
studiosi e brillanti chiamata a lavorare lì (e che spesso è già stata
all’estero) è politicamente più vicina all’opposizione che non a Putin, tanto
che queste città ‘ideali’ possono in realtà trasformarsi in poli di protesta
attiva contro il regime. Gli abitanti di Innopolis hanno poi patito da subito
il controllo e i limiti imposti dal governo sui progetti che vogliono
sviluppare, con il risultato che, nonostante i mezzi messi a disposizione,
molti se non sono già andati.
Cinzia Rizzi ha scritto domenica scorsa su Euronews:
"Fiori e lumini sono stati deposti questa domenica
al memoriale in piazza Indipendenza (o Maidan), a Kiev, per commemorare le
oltre 100 vittime delle proteste di massa pro europee del 18-20 febbraio 2014.
Presente anche Petro Poroshenko, considerato uno dei maggiori sostenitori della
rivoluzione, che in quell'anno divenne presidente dopo la destituzione del
filorusso, Viktor Janukovyč.
"Gli ucraini sono orgogliosi di aver voltato le
spalle al Cremlino otto anni fa, nonostante abbiano dovuto pagare un costo
elevato, sia a livello di vite umane che psicologico, dovendo convivere
quotidianamente con i timori di un'invasione russa."
"Dobbiamo ricordare che hanno dato la loro vita per
l'Ucraina e per il nostro futuro europeo - dice un uomo originario di Donetsk,
oggi residente a Kiev -. Dobbiamo rispettarli e amarli". "Non c'è
nulla che facciamo invano in questo mondo, ma è un peccato non essere ancora
riusciti a realizzare nulla" dichiara un altro ucraino.
Le province del Donbass
E' comprensibile, allora, che gli ucraini delle due
province di Donetsk e Luhansk, auto-proclamatesi repubbliche del
Donbass e che Putin ha riconosciuto, guardino a Mosca per non restare
minoranza nel generale sentimento a favore dell' Europa, dal momento che si
tratta di un territorio ad alto tasso russofono, ma anche e
soprattutto di un ricco bacino carbonifero. Questo è
il Donbass, bacino del Donec, dal nome dell'omonimo fiume, importante affluente del "placido Don", che lo
attraversa. E' dunque una zona dell'Ucraina orientale al confine con la Russia,
che si estende in tre oblast' (regioni), tra cui quello di Doketsk,
la città principale.
Nel Donbass oltre 770mila ucraini hanno il passaporto
russo, su una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, e secondo
Mosca negli ultimi giorni altri 950mila residenti hanno fatto la stessa
richiesta. Con la 'madre Russia' c'è un legame antico, rafforzato da
una chiesa ortodossa locale che si è staccata da quella ucraina per
legarsi a Mosca. Questo legame si nutre anche dell'insofferenza della popolazione
verso lo Stato centrale. Perché le condizioni generali di vita,
dall'uscita dell'Ucraina dall'Urss, nel 1991, sono peggiorate progressivamente.
E allo stesso tempo, sono cresciute le pulsioni secessioniste.
Copertosi le spalle dopo il recente incontro con
Xi-Jinping, l'aspirazione di Putin di unire il Donbass alla Crimea
già annessa nel 2014 è forse qualcosa in più della pretesa di interporre uno
stato cuscinetto tra Nato e Russia; essa nasconde invece un antico disegno
egemonico che non esiterà a svilupparsi sino alle estreme conseguenze.
Ed è inevitabile che il ricordo vada a quel fatidico marzo
del 1938 quando Adolf Hitler rivendicò i diritti dei abitanti del
Territorio dei Sudeti, popolazione di lingua e cultura tedesca, in danno della
Cecoslovacchia che, poco più di un anno dopo sarebbe stata il primo
territorio ad essere invaso dalla Wehrmacht, nonostante gli accordi di
Monaco e il duro avvertimento di Winston Churchill sulla loro inutilità.
In passato ho scritto che le grandi guerre del '900 hanno
avuto come pretesto la difesa di piccoli popoli di confine dall'identità mista
e combattuta; sorte come "guerre di teatro" hanno coinvolto presto interi continenti.
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Il XXI secolo si è aperto con una strage che non
dimenticheremo mai e di cui abbiamo pagato il prezzo con il fenomeno del
fondamentalismo islamico e delle relative conseguenza sullo scenario mondiale e
ora venti di guerra sono tornati a soffiare entro i confini del Vecchio
Continente.
Mentre gli Stati Uniti si muovono con molta prudenza,
minacciando esclusivamente sanzioni alla Russia, l'Unione Europea sarà divisa e
inerte come lo fu la Società delle Nazioni che avrebbe dovuto porre fine ai
conflitti su larga scala? Sarà la Turchia di Recep Tayyp Erdogan la prossima
tensione che ci aspetta ?
Non possiamo saperlo, ma fino a quando saranno
tollerati, per mera convenienza strategica o economica, tiranni ed
autocrati pur in doppio petto e dall'eloquio forbito, l' Umanità non potrà mai
sentirsi al sicuro.
Filmato della propaganda fascista sull'annessione tedesca dei Sudeti
Istituto Luce, 1938
Mentre questo articolo viene chiuso, i mezzi blindati russi stanno attraversando il confine nei pressi di Donetsk, invadendo di fatto l'Ucraina. Accadde a Budapest nell'anno in cui nacqui e nel 1968 a Praga. Non avrei mai immaginato che ne sarei stato testimone ancora una volta nella vita. Allora, almeno per chi ci credeva - ed erano ancora in molti - andavano a difendere i residui valori di un'ideologia che voleva cambiare, a proprio modo, il mondo; ora mi chiedo cosa ci sia nel cuore di quei soldati, se non la paura del tiranno che li guida.
Sono le ore 4.30 del 22 febbraio del 2022, un giorno in cui milioni di scout di ogni paese libero del Pianeta - compresa l'Ucraina dove il Movimento ha mosso i primi passi solo dal 1999 - festeggiano la data di nascita del proprio fondatore, Robert Baden Powell, nel cui nome si sentono uniti a tutti gli altri ragazzi del mondo nel comune impegno di lasciare il mondo migliore di come l'hanno trovato. In queste ore in cui i popoli sono con il fiato sospeso per il destino della pace in Europa, sento forte il bisogno di essere accanto a loro, rinnovando anch'io la promessa di continuare a fare la mia parte in un mondo che diventa sempre più difficile e pericoloso per tutti e dove la speranza nel futuro e il diritto alla felicità ancora una volta sembrano schiacciati dai cingoli di nuovi carri armati.
Nell' Italia che si
nutre di fake news, che strizza l'occhio ai negazionisti e che, a stento,
ha memoria degli eventi di appena dieci fa, ricordare, come ogni anno dalla scomparsa avvenuta il 19 febbraio 2016, il pensiero multiforme di Umberto Eco non è soltanto dovuto alla dimensione del
suo ingegno ma necessario per arginare la pericolosa tendenza di un Paese che vive un eterno presente, dimentica e spesso ignora il passato, preferisce non pensare al futuro.
Lucida profezia di
questa pericolosa deriva è stata la quinta fatica letteraria del Maestro che
tanto ci manca e nella quale il gioco della memoria momentaneamente svanita,
poi riconquistata e, infine, irrimediabilmente perduta, diventa lo sfondo
delle vicende narrate nel romanzo "La misteriosa fiamma della regina
Loana" Bompiani, giugno 2004, apologo di un Paese proteso sul baratro
dell'amnesia collettiva.
Ricordo ancora che lo lessi, ancora fresco di stampa, durante una vacanza a Cefalù nel luglio di quell'anno su una terrazza che, nelle rare pausa dell'avida lettura, concedeva la veduta straordinaria del golfo e del Duomo normanno, voluto da Ruggero II d'Altavilla, primo re di Sicilia, dopo essere scampato ad una tempesta e approdato sulle spiagge dell'allora poco noto borgo di pescatori. Lo scenario che avevo davanti proiettava nel presente l'ombra di una storia che al medievalista autore di "Baudolino" sarebbe piaciuta.
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Caratteristica
dell'opera è la cospicua riproduzione di illustrazioni tratte dai periodici e
dai fumetti del tempo, di testi integrali di canzonette popolari e del regime,
di cui oggi a stento si ricorda forse qualche parola. Un elemento, questo, che
riconduce all'interesse da sempre portato dal più grande intellettuale italiano
del XX secolo nei confronti della cultura visuale e più in generale popolare di
cui ho scritto su https://www.lospessore.com/17/02/2020/umberto-eco-la-sicilia-e-la-vertigine-del-complotto/
Protagonista delle
vicende narrate è il libraio antiquario Giambattista Bodoni, omaggio al
corregionale di origini saluzzesi, incisore, tipografo e stampatore
italiano del XVIII secolo vissuto a Parma e noto per i caratteri da
lui creati: i Bodoni, appunto, caratterizzati da un alto contrasto
tra le linee spesse e quelle sottili. È il classico esempio di carattere con
grazie moderno. Il Bodoni è stato usato da varie multinazionali come
parte della loro marca o per definire la loro identità societaria, come
nel caso di IBM. In suo onore dal 19 aprile 2021 la Gazzetta di
Parma utilizza il carattere Bodoni per i propri titoli.
Il romanzo si apre
con "L’incidente" la prima delle tre parti di cui esso si compone, in cui
il protagonista-narratore racconta a ritroso la sua storia, che inizia quando,
tre mesi prima, nell’aprile del 1991, dopo un periodo di coma, egli si
risveglia privo di memoria.
Non ha coscienza di chi
sia e, in ospedale, Gratarolo, il medico che lo visita, constata che il
paziente ha perso la memoria autobiografica, relativa ai suoi dati e ricordi
personali, ma conserva la memoria semantica, che riguarda le conoscenze e le
informazioni acquisite per via culturale. Difatti, le prime parole che Yambo,
com'è soprannominato da familiari ed amici, pronuncia sono citazioni di
opere letterarie, di cui è un grande lettore e intenditore – di mestiere fa il
libraio antiquario, – e che costituiscono i suoi « soli fanali nella nebbia »,
gli unici punti di riferimento in grado di farlo orientare in un mondo percepito
come estraneo e ostile.
Affinché possa
recuperare la sua identità perduta, la moglie Paola, psicologa, consiglia
all’eroe smemorato (classe 1931) di recarsi a Solara, il paesino, situato tra
Langhe e Monferrato, in cui sorge la vecchia casa familiare di campagna, dove,
avendo trascorso alcuni anni della sua infanzia e adolescenza, Yambo può
consacrarsi ad una totale immersione nel suo passato. Infatti, vi ritrova,
perché conservati dal nonno, i manuali e i quaderni scolastici, i fumetti, i
racconti e i romanzi che ha letto da piccolo e che riescono a far riattivare in
lui il ricordo di fatti risalenti a quel periodo.
Consultando questi ed
altri documenti dell’epoca con lo scopo di fare luce su se stesso, il
protagonista è portato a interrogarsi sulla formazione che il sistema educativo
fascista impartiva ai giovani. Più precisamente, si rende conto che la loro
educazione rifletteva l’ideale militarista del regime.
Come spiega Emilio
Gentile nel libro "La via italiana al totalitarismo" tale educazione,
dispensata mediante il ricorso ad una propaganda e ad una retorica, tanto
altisonanti quanto povere di contenuti, li istruiva, in effetti, a essere come
dei veri soldati al servizio del bene della Patria. Inquadrati in
organizzazioni di tipo paramilitare, come la Gioventù Italiana del Littorio,
sin dalla più tenera età, i ragazzi venivano educati, sia per mezzo dell’insegnamento
scolastico che tramite la pratica sportiva e le esercitazioni pubbliche, ad una
ferrea disciplina e alla cieca osservanza della dottrina fascista, che li
preparavano a diventare i paladini del Duce pronti a combattere e a morire per
l’Italia.
Tuttavia, a mano a mano
che esamina il materiale di quegli anni, Yambo nota che, parallelamente a
questa formazione rigida e monolitica, il fascismo permetteva alla gioventù
littoria di dedicarsi a svaghi e divertimenti non proprio in linea con il
rigore dell’ortodossia. Infatti, scopre, per esempio, che esso tollerava la
diffusione di canzoni, film e libri stranieri, soprattutto francesi, inglesi e
americani, che però, a causa del nazionalismo imperante, subivano, in molti
casi, un processo di italianizzazione forzata, che riguardava anche altri
ambiti della società.
Come sarà illustrato
meglio in seguito, dietro l’immagine di un’istruzione statale piuttosto
omogenea, Yambo osserva, al contrario, l’esistenza di forme di cultura
“popolare” varie e diversificate nei contenuti, che circolavano accanto a e, a
volte, in contrasto con le forme e i temi della cultura “ufficiale”, diretta
espressione dell’ideologia dominante. Dal punto di vista politico e culturale,
quest’ultima era caratterizzata, da un lato, dal mito della guerra
rivoluzionaria, dalla venerazione del dio-duce-Stato, dal rifiuto della
modernità capitalistica, ecc.; dall’altro, dal mantenimento dell’ordine sociale
e morale, dal riconoscimento del cattolicesimo come sola religione ammessa, dal
culto della tradizione di Roma antica, ecc.
In quest’ottica, la
ricostruzione, fatta dal narratore, del sistema educativo e ideologico
fascista, nel quale egli ravvisa tali aspetti apparentemente contraddittori,
costituisce – secondo il nostro punto di vista – una tappa fondamentale del
processo di riappropriazione della sua identità. Infatti, – come vedremo – è
soprattutto nel rapporto conflittuale tra il rifiuto di una realtà, intesa come
oppressiva e insensata, e il rifugio in un mondo idealizzato, considerato come
dimensione autentica e rassicurante, che consiste la caratteristica principale
della personalità e della vita di Yambo. Questi, attraverso il recupero del suo
passato più doloroso, vissuto proprio durante gli anni del fascismo e della
Seconda Guerra mondiale, tenterà di ricostruire sia l’una che l’altra.
Ma la sua ricerca lo
porterà a confrontarsi con due eventi che, verificatisi esattamente in quel
periodo, lo hanno segnato profondamente: la “notte del Vallone” e l’amore non
corrisposto per Lila. Una volta analizzati, capirà, infine, che sono state le
conseguenze drammatiche, sul piano affettivo ed esistenziale, di questi due
episodi che lo hanno fatto allontanare dalla realtà e lo hanno spinto verso il
mondo più confortante e soddisfacente dei libri, in modo particolare di quelli
antichi.
Alla luce di tutto ciò,
la figura del soldato svolge un ruolo importante nella vicenda di Yambo, perché
uno degli eroi della sua amata letteratura popolare, Flash Gordon, diventerà il
soldato protagonista sia della sua personale “guerra di liberazione”
dall’oppressione della propaganda fascista, che gli permetterà di formarsi una
vera coscienza civile, che della sua onirica battaglia amorosa, che gli
consentirà di provare a riconciliarsi con se stesso e con la realtà, attraverso
il ricongiungimento ideale con la ragazza amata in gioventù.
Nella seconda parte del
romanzo, intitolata significativamente "Una memoria di carta" il
protagonista – come si è già accennato – si dà alla ricostruzione di se stesso,
a cominciare dalle testimonianze scritte della sua fanciullezza che rinviene
nel solaio della casa. Lanciandosi, quindi, in quella che, parafrasando
Proust, potremmo chiamare la recherche de la mémorie perdue,
progressivamente riesce a dissotterrare, aprendo vecchi armadi e cassoni, il
suo cospicuo tesoro di carta.
La consultazione di
questo patrimonio, fatto di giornalini, albi di fumetti, riviste, libri ed
altro ancora, favorisce la rievocazione di nomi e fatti che hanno per lui il
sapore dell’infanzia. Al termine di questa prima ricognizione, però, Yambo
inizia a rendersi conto, con un po’ di amarezza, che i ricordi riattivati non
riguardano il suo vissuto personale, ma è come se «riaffiorassero frasi,
sequenze di parole, scritte su un racconto letto una volta. Flatus vocis »
Successivamente,
scartabellando una nutrita raccolta di romanzi polizieschi e d’avventura, che
gli parlano di storie di ladri, criminali o ribelli, come Fantômas, Rocambole,
Lupin, Ciuffettino , ecc., Yambo manifesta la sua perplessità circa la liceità
di queste letture, i cui contenuti anticonformisti lo colpiscono, perché
contrastano apertamente con l’idea che si sta facendo di sé, cioè di un
ragazzino rispettoso della morale cattolica e dell’istruzione fascista.
Da questo punto di
vista, il capitolo sette - "Otto giorni in una soffitta" - si rivela molto
importante. Infatti, in esso il protagonista comincia a maturare l’idea secondo
la quale la sua formazione giovanile non si sia realizzata solo su manuali
scolastici, inneggianti al culto dell’eroismo e della grandezza patria, o su
libri ispirati da buoni sentimenti religiosi e morali, ma anche e soprattutto
su romanzi, racconti, fumetti e giornalini, che gli narravano di geni del male,
pirati, delinquenti, assassini e che erano, in prevalenza, di origine francese,
inglese e americana.
Tuttavia, dopo le prime
tre settimane di scavo nelle pieghe più recondite della sua memoria difettosa,
Yambo constata che il metodo adottato, consistente nella consultazione casuale
dei documenti che di volta in volta trovava, non gli ha permesso di delineare
un quadro preciso e cronologico delle letture che aveva fatto nel corso di
quegli anni. Per di più, sottolinea nuovamente che i ricordi, lungi dal
richiamare alla mente autentiche esperienze private, «erano ancora una volta
parole che richiamavano altre parole » e che si riferivano sempre a fatti
dell’immaginario collettivo.
Pertanto, decide di
procedere nella sua inchiesta seguendo un andamento temporale e riprende il
lavoro partendo dagli anni Trenta e Quaranta, quelli della scuola elementare e
media. Selezionati gli scatoloni contenenti i giornali, le riviste, i manifesti
e i libri di quel periodo, si sistema comodamente nello studio del nonno dove,
messo in funzione il vecchio grammofono, «col metodo di uno storico,
controllando le testimonianze per confronto reciproco », si dedica all’analisi
del materiale raccolto, lasciandosi trasportare dalle melodie dell’epoca.
Gettandosi a
capofitto in questa impresa appassionante, che lo tiene impegnato per giornate
intere, Yambo riesce a ricostruire il clima culturale e l’ideologia
politico-sociale allora dominanti. E, nel fare ciò, si accorge di alcuni
aspetti, a prima vista, contraddittori, riguardanti l’educazione militarista
fascista, che lo lasciano un po’ perplesso. Essi consistevano nel fatto che,
sui manuali scolastici, la gioventù littoria, da un lato veniva a conoscenza di
edificanti storie di eroismo e di entusiasmanti vittorie militari, dall’altro
apprendeva insegnamenti religiosi che raccomandavano la pace, la fratellanza e
l’amore.
Infatti, a tal
proposito, Yambo si sofferma a riflettere su alcune pagine di un sussidiario in
cui, per spiegare ai bambini delle elementari le lettere e i fonemi
dell’alfabeto, si faceva largo uso di esempi, come Balilla, Benito, Eja
Eja Alalà! (celeberrimo grido di guerra dannunziano), gagliardetto,
battaglia, mitraglia, e in cui figuravano anche preghiere all’Angelo Custode.
Come se non bastasse,
in un altro libro nota che c’erano pagine in cui, per esaltare le qualità di
cui un giovane milite fascista doveva essere dotato, erano riportate «solo
storie di azioni gloriose della prima guerra mondiale, con immagini che
mostravano i nostri fanti sul Carso nudi e muscolosi come gladiatori romani »,
mentre «in altre pagine apparivano, per conciliare il Balilla con l’Angelo,
racconti sulla notte di Natale, pieni di dolcezza e bontà» .
Contemporaneamente,
il protagonista riscontra ambiguità simili anche nelle canzoni (inni del
regime, canti di guerra o pezzi di musica leggera) che ascolta come sottofondo
alle letture. Da una parte, i canti fascisti, come “Giovinezza” e
l’inno del Balilla, facevano riferimento a prodi legionari e a intrepide
camicie nere pronte a morire per il Duce, ad azioni ardite e a battaglie
leggendarie, così come la canzone del “Camerata Richard” il leale e
valoroso militare nazista, suonava come un omaggio all’alleanza con la
Germania. Dall’altra, brani dai toni molto meno eroici, come per esempio la
canzone “Lili Marleen” la quale raccontava di un soldato tedesco, triste e
malinconico, che sognava di ritornare dalla sua amata. "Brani di questo tipo –
commenta il narratore – non potevano certo essere considerati dei validi esempi
di fierezza militare."
E se, nonostante le
disfatte subite in Cirenaica e ad Addis Abeba, si continuavano a mandare in
onda canzoni, quali “La saga di Giarabub” e “Adesso viene il bello” che,
rispettivamente, esaltavano la strenua resistenza delle truppe italiane,
assediate dagli inglesi nell’omonima oasi in Libia, e inneggiavano alla
vittoria imminente contro l’Inghilterra, era evidente che la sconfitta fosse imminente.
Come deduce giustamente
il protagonista, i mezzi di comunicazione utilizzati dal fascismo a fini
propagandistici, pur di minimizzare le sconfitte del proprio esercito e la
superiorità dei nemici, cercavano di diffondere tra la popolazione italiana uno
spavaldo ottimismo circa le sorti della guerra, sfruttando una retorica che si
avvaleva delle forme e dei temi più disparati.
Questi andavano
dall’esaltazione della razza italica, forte e coraggiosa – contrapposta a
quella anglosassone, pavida e vile, – all’elogio delle donne italiane, «dal
seno grosso e dalle curve morbide, splendide macchine per far figli opposte
alle ossute e anoressiche miss inglesi, e alla donna-crisi di plutocratica
memoria »; dalla magnificazione del profilo virile di Mussolini, che, sulla
copertina della rivista Tempo, brandendo alta la spada, invitava alla
guerra, alla derisione caricaturale di cui erano oggetto i capi delle nazioni
nemiche, Re Giorgetto d’Inghilterra, il ministro Ciurcillone,
«Rusveltaccio e il terribile Stalino, l’orco rosso del Cremlino» .
Leggendo i giornali e i
libri scolastici di quegli anni, ascoltando i canti guerreschi e i brani di
musica popolare, Yambo si rende conto che la propaganda bellica, che era parte
integrante di una precisa strategia ideologica del regime, serviva a distogliere
l’attenzione degli italiani dai problemi che realmente attanagliavano il
paese.
Infatti, rileva che,
per raggiungere questo scopo, il fascismo impiegava vari mezzi e strategie:
innanzitutto, la manipolazione delle informazioni, con la quale faceva credere
all’opinione pubblica che la guerra andava a gonfie vele, quando invece le
truppe italiane subivano sconfitte su più fronti; in seguito, la retorica
dell’eroismo, legata alla celebrazione del coraggio e del sacrificio per la
patria, che aveva come effetto di far accrescere il nazionalismo e la
percezione della grandezza dell’Italia; e, infine, la diffusione di storie,
immagini e canzoni autocelebrative o spensierate, il cui obiettivo era di
narcotizzare le coscienze, soffocandole in un’apparente atmosfera di gaia e
rasserenante tranquillità. Distrazioni di massa, diremmo oggi.
Alla fine di questa
indagine, Yambo ha l’impressione che, a causa dei messaggi propagandistici
politici e culturali, era come se, all’epoca, il regime e la nazione facessero
parte di due mondi diversi e in contrasto tra loro, come se «la vita scorresse
su due binari, da un lato i bollettini di guerra, dall’altro la continua
lezione di ottimismo e gaiezza diffusa a piene mani dalle nostre orchestre» . A
questo punto, si chiede perplesso e disincantato:
“ Quante anime aveva il regime? Infuriava sotto
il sole africano la battaglia di El Alamein, e la radio intonava voglio vivere
così col sole in fronte e felice canto, beatamente. Entravamo in guerra con gli
Stati Uniti, i nostri giornali celebravano il bombardamento giapponese di Pearl
Harbor, e andava in onda sotto il cielo delle Hawaii, se in una notte
scenderai, il paradiso sognerai (ma forse il pubblico della radio non sapeva
che Pearl Harbor era nelle Hawaii e che le Hawaii erano territorio americano).
[...]
E io, io, come vivevo questa Italia schizofrenica? Credevo nella vittoria,
amavo il Duce, volevo morire per lui? Credevo nelle frasi storiche del Capo che
il maestro ci dettava: è l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo
difende, noi tireremo diritto, se avanzo seguitemi se indietreggio uccidetemi ?
"
Qualche giorno dopo,
leggendo un suo compito in classe, che aveva per tema la difesa «della nuova
eroica civiltà che l’Italia sta(va) creando », rincara la dose delle domande:
"Ci credevo davvero o
ripetevo frasi fatte? Che cosa dicevano i miei genitori vedendomi portare
a casa, con un ottimo voto, quei testi? Forse dovevano crederci anche loro,
perché frasi simili avevano assorbito anche prima del fascismo. Per quel che la
gente ne sa, non erano nati e cresciuti in un clima nazionalista in cui si
inneggiava al primo conflitto mondiale come a un lavacro purificatore, non
dicevano i futuristi che la guerra era la sola igiene del mondo ?"
Che tipo di influenza
ha avuto nel giovane Yambo questa pervasiva e demagogica ideologia, che
permeava la cultura dell’« Italia schizofrenica » a cavallo degli anni Trenta
e Quaranta? Si vedeva anche lui come un soldato fascista pronto a battersi
per la causa suprema o, piuttosto, si riconosceva nei suoi amati eroi dei
romanzi d’avventura?
A giudicare dalle
risposte, il narratore si mostra confuso e, soprattutto, frustrato perché
constata, con un leggero rammarico, che la sua ricerca gli sta restituendo
un’identità ambigua e dei ricordi più generazionali che personali:
“ Mi sentivo più
confuso di quando ero arrivato. Almeno prima non ricordavo nulla, zero
assoluto. Ora non ricordavo ancora, ma avevo appreso troppo. Chi ero stato?
Insieme, lo Yambo della scuola e della pubblica educazione, che si svolgeva per
architetture littorie, cartoline di propaganda, manifesti murali, canzoni,
quello di Salgari e Verne, del capitano Satana, delle efferatezze del Giornale
Illustrato dei Viaggi e delle Avventure, dei delitti di Rocambole, del Paris
Mysterieux di Fantomas, delle nebbie di Sherlock Holmes, o ancora, quello di
Ciuffettino, e del bicchiere infrangibile ?"
Ciononostante, leggendo
qualche altro quaderno di scuola, viene a conoscenza di due temi, i cui
contenuti, radicalmente diversi rispetto a quelli degli anni precedenti, gli
fanno pensare che, ad un certo momento, qualcosa avesse fatto crollare la sua
fede da balilla e avesse fatto nascere in lui una diversa visione della realtà,
più disincantata e pessimista.
Il protagonista ritiene
che questo fatto misterioso, che lo ha cambiato profondamente, debba
riguardarlo direttamente e che, se è stato così importante, dovrebbe trovare
una sua traccia in qualche parte dell’abitazione. Vestendo i panni di Sherlock
Holmes e facendo prova di capacità abduttive degne del suo eroe, riesce a
indovinare, osservando attentamente la casa dall’esterno , la presenza di
un locale in una zona appartata dell’edificio. Dopo un’attenta verifica,
eseguita questa volta dall’interno, scopre che si tratta di una stanza murata
che, un tempo, ospitava la Cappella di famiglia – la quale, in seguito, era
stata chiusa dal nonno – e che era servita come nascondiglio a quattro ragazzi,
ricercati dalle Brigate Nere.
La scoperta della
Cappella, se non gli consente di fare luce definitivamente sul suo passato, gli
rivela l’esistenza di un universo tutto suo: grazie al ritrovamento di altri
fumetti, quaderni e riviste dell’epoca, egli capisce che quello dev’essere stato
il suo rifugio segreto, dove si ritirava come in un mondo di fantasia.
Ed è proprio in questo
luogo che l’adolescente Yambo, leggendo le storie surreali e stravaganti di
eroi, come Romano il Legionario, Topolino, Pippo, Flash Gordon, Mandrake, ecc.,
si formava ancora di più al gusto del fantastico, dell’avventuroso e del
meraviglioso. Ma, allo stesso tempo, – precisa il narratore – in questo suo
mondo, al confine tra realtà e immaginazione, così diverso da quello reale,
così lontano dalla retorica del soldato fascista, nel personaggio di Flash
Gordon vedeva «la prima immagine di un eroe [...] di una qualche guerra di
liberazione combattuta in un Altrove Assoluto [...] » e veniva iniziato «a una
diversa visione del Bene e del Male» . Ecco il suo commento:
“Alcuni misteri della
mia schizofrenia infantile iniziavano a chiarirsi. Leggevo i libri
scolastici e i fumetti, ed era sui fumetti che probabilmente mi costruivo
faticosamente una coscienza civile. Per questo, certamente, avevo conservato
questi cocci della mia storia diroccata, anche dopo la guerra, quando mi erano
capitati tra le mani (forse portati dalle truppe americane) pagine di giornali
di laggiù, con le strisce colorate domenicali che mi facevano conoscere altri
eroi, come Li’l Abner e Dick Tracy . "
Successivamente, Yambo
ha una rivelazione che, a tutta prima, sembra potergli permettere di aggiungere
un altro tassello alla comprensione del mistero che ancora avvolge la sua
gioventù. Sfogliando gli albi della raccolta "Le avventure di
Cino e Franco" gli capita sotto gli occhi il fumetto,
intitolato "La misteriosa fiamma della regina Loana" che dà
appunto il titolo al romanzo e che gli fornisce una spiegazione sul perché la
sua quête sia stata scandita dal susseguirsi di quell’espressione.
Eccitato da quel
rinvenimento, che pensa possa essere la chiave di tutta la vicenda, legge il
fumetto rimanendo, però, molto deluso dalla storia insignificante della regina
Loana, il cui unico particolare rilevante gli sembra essere il potere, esercitato
grazie ad una misteriosa fiamma che custodisce, di rendere immortale chiunque
lei voglia. Infatti, precisa subito il narratore:
Sull’onda delle
emozioni causate proprio dal continuo riprodursi di queste misteriose fiamme,
intuisce così che si sta avvicinando alla soluzione dell’enigma.
Consultando altro
materiale nascosto segretamente nella Cappella, trova finalmente qualcosa di molto
intimo che parla di lui in prima persona. Si tratta, per l’appunto, di alcune
poesie adolescenziali scritte, le une per «rievocare alcuni momenti di
esaltazione e di certezza », riguardanti un non precisato episodio della lotta
partigiana che lo ha visto protagonista, le altre per celebrare il suo amore
per una coetanea, di cui si era platonicamente innamorato a sedici anni e di
cui lo aveva colpito soprattutto il volto angelico.
Telefonando all’ amico
Gianni, viene a conoscenza della sua storia d’amore non ricambiato – perché mai
confessato e solo idealmente coltivato – per Lila Saba, della quale apprende
solamente ora (ma, prima dell’incidente, ancora non lo sapeva) che,
trasferitasi poco dopo in Brasile con la famiglia, vi era morta dopo due anni.
La notizia lo getta
nuovamente nella delusione, dal momento che gli fa apparire come vano e
insensato lo sforzo rievocativo. Tuttavia, con un colpo di scena degno dei suoi
prediletti libri d’azione, il casuale ritrovamento, durante l’ultima e
disperata perlustrazione del solaio, del preziosissimo in-folio del 1623 –
acquistato dal nonno, antiquario, e contenente l’opera omnia di Shakespeare –
gli procura un tale stato di febbrile eccitazione da subire un secondo
incidente che lo fa di nuovo cadere in coma. Ecco il suo ironico commento a
riguardo: «Anche in condizioni di salute normali, era una trouvaille da
infarto. [...] È sicuramente il grande colpo della mia vita» .
A questo punto, ha
inizio la terza e ultima parte del romanzo, che ha per titolo Oἰ νόστοι (“I
ritorni”). In essa, in effetti, Yambo ritorna in coma, ma – fatto alquanto
interessante – egli sembra essere piuttosto vigile, perché conserva una certa
coscienza della propria situazione, pur avendo spesso l’impressione di essere
in un sogno.
Immerso in questo stato,
in cui alterna momenti di lucidità a momenti di delirio , e ritrovata
all’ improvviso la memoria, si lascia andare alla rievocazione di fatti del
passato tra i più disparati, soffermandosi, però, su quelli che lo hanno
segnato maggiormente e che lo hanno portato ad un doloroso scetticismo nei
confronti della realtà.
Ora, finalmente, tutto
diventa chiaro: nel capitolo sedici, intitolato "Fischia il vento" e
raccontato con toni tipicamente fenogliani, il narratore comprende qual è stato
l’evento che ha cambiato radicalmente la sua vita: “la notte del Vallone”, a
cui ha preso parte, giovanissimo, assieme all’amico Gragnola, con grande
coraggio e senso del dovere. Infatti, ricorda che, immaginando di essere, non
un milite fascista, ma un eroe dei suoi libri , aveva condotto, di notte e
nella nebbia, per il temibilissimo Vallone otto transfughi cosacchi che,
ricercati dai tedeschi, dovevano raggiungere le brigate partigiane per unirsi
alla Resistenza. Nonostante il buon esito dell’operazione, in seguito, il
ricordo di questo fatto lo aveva angosciato molto per via di un peso che aveva
avvertito sulla coscienza: il senso di colpa per aver assistito all’uccisione,
da parte del Gragnola, di alcuni soldati nazisti che si erano lanciati al loro
inseguimento.
Al rimorso si era
aggiunto lo sconforto quando aveva appreso, subito dopo, della morte
dell’amico, che si era suicidato per non rivelare nulla di quella faccenda ai
tedeschi che lo avevano catturato.
A causa della
drammaticità di questa esperienza, il protagonista era rimasto talmente
traumatizzato che, pur rimossa poi dalla sua memoria, essa aveva lasciato in
lui le tracce indelebili di un profondo malessere esistenziale. Inoltre, per
via dell’influenza esercitata su di lui dal suo “maestro” spirituale,
l’anarchico Gragnola – il quale, ateo e nutrito di gnosticismo, gli aveva
insegnato che «il mondo è dominato dal male. Anzi, il Male con la maiuscola»,
che «l Male non esiste al di fuori di Dio, lui ce l’ha dentro, come una
malattia», e che «Dio è il Male » – aveva maturato una visione così negativa e
disincantata della realtà che, da quel momento, lo aveva spinto fino a
rifiutarla, perché intesa come «il regno del male» .
Desideroso di lasciarsi
tutto alle spalle, negli anni successivi aveva trovato consolazione e riparo
nella solitudine di un mondo che ha continuato a costruire con letture di vario
genere, tutte, però, all’insegna del male di vivere e della speranza in giorni
migliori, dell’espiazione della sua “colpa” (vista come un peccato) e delle
prime scoperte dell’eros.
Tali letture andavano
dal “Giovane provveduto” di don Bosco (un manualetto di esercizi spirituali)
all’ “Uomo finito di Papini” (del cui protagonista condivideva l’idea di
una «furia bibliomaniaca» come «possibilità di una fuga non conventuale dal
mondo») , dal “Controcorrente” di Huysmans (nel cui personaggio
principale, Des Esseintes, s’immedesimava) alla poesia di Gozzano “La più
bella!” (che gli permetteva di fantasticare dell’Isola Non-Trovata come di
un sogno irraggiungibile, che preannunciava quello del suo amore irrealizzabile
per Lila).
Ma è senza dubbio dal “Cyrano
de Bergerac” di Edmond Rostand che era rimasto più colpito, dal momento che,
attraverso la storia di Cyrano, che non riesce a rivelare e a vivere il suo
amore per Rossana, Yambo, identificandosi col protagonista, non solo riviveva
la propria esperienza, ma, innamorandosi dell’amore come sentimento nobile e
incontaminato, lo sublimava a condizione perfetta e paradisiaca.
Richiamando alla mente
questi ricordi, il narratore capisce infine che la ricerca della sua identità
coincide con la scoperta di questo amore giovanile e con la consapevolezza che
esso lo ha accompagnato inconsciamente per tutta la sua esistenza.
Riflettendo su questo
episodio particolarmente importante della sua adolescenza, Yambo arriva a fare
definitivamente chiarezza su questo periodo e, dunque, a spiegare il senso di
quello che aveva fatto della propria vita in seguito. A cominciare, per
esempio, dalla decisione di laurearsi discutendo una tesi sulla “Hypnerotomachia
Poliphili ” un romanzo allegorico, attribuito a Francesco Colonna (ma la
paternità dell’opera è incerta), che «racconta la storia della ricerca onirica
di un amore perduto (Polia) da parte del protagonista (Polifilo), come dice
anche il titolo, che può esplicitarsi così: “Battaglia d’amore in sogno di
Polifilo” [...]» .
Affascinato dalla
sorprendente analogia tra questa vicenda e la propria, Yambo, immedesimandosi
in Polifilo, ha potuto continuare a rifugiarsi in una dimensione irreale e a
vivere il sogno amoroso per Lila.
Inoltre, non bisogna
dimenticare che ha preferito poi diventare libraio antiquario, probabilmente
per rinchiudersi in un sapere antico, solido e rassicurante, antidoto contro un
mondo violento e incomprensibile, gli effetti dei cui mali, così come dei
propri traumi personali, ha cercato di curare grazie all’aiuto di sua moglie
Paola, psicologa comprensiva e pragmatica.
Tuttavia, anche se, a
questo punto della ricostruzione, egli la ritiene vana, in quanto non gli
permetterà di rincontrare Lila, che è morta, il protagonista riconosce che, per
avere un senso e per dare un senso alla sua vita da adulto, la sua quête deve
garantirgli almeno la possibilità di vedere il viso dell’amata per un’ultima
volta.
Quel viso, che ha
cercato di ritrovare nei volti di tutte le donne che ha avuto, diventa ora il
simbolo di un amore puro e autentico che lo ha fatto ritornare a vivere dopo il
trauma della “notte del Vallone”. Esso diventa, quindi, il fine principale e
ultimo della sua ricerca esistenziale, dal momento che il narratore comprende
che, se lo rivedesse, questo potrebbe far riconciliare il suo passato con il
suo presente.
Però, sempre più
incerto sulla sua condizione, a metà strada tra sogno e realtà , e sempre più
assediato dalle immagini che si accavallano nella sua mente, Yambo si rende
conto, tra farneticazioni fantasiose e barlumi di lucidità, che non riesce a
dare un volto a Lila.
Purtroppo ha ancora un
blocco e, non potendo chiedere l’aiuto di nessuno, decide di ricorrere ad un
eroe del suo mondo di carta. Si rivolge perciò a colei che, sola, possa
compiere il miracolo: la regina Loana che, per mezzo della sua misteriosa
fiamma, è in grado di ridare vita a tutti i ricordi sepolti nella sua memoria
ora ritrovata. Grazie alla sua intercessione, chiamando a raccolta i personaggi
incontrati durante il suo lavoro di recupero del passato, Yambo assiste ad una
multiforme e letteraria visione che precede l’apparizione di Lila.
In un primo momento,
però, essendone stato abbacinato, riferisce di essere caduto come in uno stato
onirico e, dopo essersene ripreso, ricorda di aver visto, davanti alla
scalinata del liceo da cui era solito osservare estasiato la ragazza, un
combattimento che descrive come apocalittico.
Infatti, citando alcune
parti del racconto dell’Apocalisse di Giovanni, il protagonista raffigura
alcune fasi della battaglia tra Ming Signore di Mongo e Flash Gordon, che
richiamano quelle dello scontro biblico tra Satana, la Bestia, e Gesù, che
precede il giudizio finale. Ming, circondato dai «quattro Viventi », quattro
personaggi del fumetto, tra cui Uraza, regina degli Uomini Magi, che è
descritta esattamente come la grande prostituta dell’Apocalisse (cap. 17, 4-6),
viene battuto dal rivale e, nel rovinare per le scale, «lanciava un urlo di
bestia feroce» .
E, come nel testo
biblico, al posto della città distrutta da Gordon, Mongo, sorge un’altra città,
«una Città di Cristallo», descritta con alcune delle caratteristiche attribuite
alla Gerusalemme celeste (Ap., 21, 16-18), che sostituisce Babilonia,
annientata da Cristo.
Nella seconda parte
della visione, il narratore dice di essere tornato alla realtà e assiste alla
discesa, per la scalinata del liceo, dei personaggi che hanno popolato il suo
immaginario letterario, iconografico, musicale e cinematografico ricostruito a
Solara. Al termine della loro sfilata, in stile spettacolo di varietà, fa il
suo ingresso in scena la regina Loana, a cui egli si è affidato per ricevere da
lei, come da una divinità declassata, la rivelazione finale.
Conclusasi questa
visionaria apocalypsis, costruita, nella prima parte, a partire dai
passaggi del libro giovanneo menzionati – che parlano della distruzione di
Babilonia, simbolo del peccato e della morte, e del trionfo della nuova
Gerusalemme, simbolo di purezza e di rinascita – Yambo sembra essere, a sua
volta, purificato e rigenerato. In tale veste, inoltre, sembra essere pronto
all’incontro decisivo con Lila, che è presentata, nelle pagine precedenti, con
gli attributi della Madonna, luminosa e candida, e con quelli della Beatrice
dantesca, creatura angelicata ispiratrice d’elevazione spirituale.
Il momento tanto atteso
è arrivato: don Bosco gli annuncia che, ora che finalmente «omnia munda
mundis » (tutto è puro per i puri), «la sposa è pronta e le fu dato di vestirsi
di un bisso splendido e puro, il suo splendore sarà simile a gemma
preziosissima» . Ricorrendo ancora una volta all’Apocalisse (cap. 19, 5-8), che
«descrive questo incontro di nuzialità trionfale in cui Cristo-Sposo diverrà
una cosa sola con la Sposa del tutto purificata: la Chiesa santa di Dio »,
Yambo pensa che potrà infine celebrare il suo matrimonio mistico con Lila,
tanto che asserisce: «Finalmente saprò come recitare all’infinito la scena
finale del mio Cyrano, saprò che cosa ho cercato per tutta la vita, da
Paola a Sibilla, e mi sarò ricongiunto. Sarò in pace».
Ma, dopo aver
fantasticato sulla fisionomia di Lila, al termine di un’epifania che «è solo desiderata, solo agognata », nel momento
in cui dovrebbe finalmente apparire, preso dall’eccitazione, gli si annebbia la
vista e muore .
Il romanzo si
conclude così, con la morte del protagonista, che sancisce l’insuccesso del suo
tentativo estremo – la celebrazione della sua unione metafisica e letteraria
con la donna amata – di rappacificarsi con se stesso e con la realtà.
L'italianista Giuseppe Lovito dell'Università di Tolone nel saggio "L’immagine del soldato ne La misteriosa fiamma della regina Loana di Umberto Eco" pubblicato nel 2015 dalla rivista francese "Italies" del Centro di ricerca dell'Università Aix Marceille di Aix-en- Provence, ha rilevato che " ripercorrendo le tappe più significative della sua giovinezza e analizzando il
rapporto tra la rappresentazione “schizofrenica” dell’Italia fascista e la
ricostruzione ambigua della sua identità, che ricava dall’esame dei documenti
dell’epoca, Yambo capisce qualcosa di fondamentale importanza: il fatto che il
carattere contraddittorio proprio del mondo in cui è cresciuto, di cui
l’episodio della “notte del Vallone” è per lui la testimonianza più
emblematica, ha contribuito a influenzare la sua personalità e a caratterizzare
la sua vita, divisa tra il rifiuto di vivere il presente, guardato con distacco
e scetticismo, e il rifugio in un passato rassicurante e appagante.
In questo senso,
l’immagine del soldato, che emerge dalla riflessione che il protagonista fa a
proposito dell’educazione dei giovani e dell’ideologia politico-culturale
fascista, costituisce un aspetto molto importante del suo lavoro di recupero
dell’io. Come abbiamo potuto osservare, dal modo in cui i soldati sono
descritti nei vari discorsi propagandistici del regime, Yambo perviene a
ricostruirne delle immagini piuttosto stereotipate, nelle quali rileva però
alcune contraddizioni.
Infatti, nota che: il balilla legionario, lungi
dall’essere il fautore della guerra rivoluzionaria fascista, come Mussolini
voleva far credere, era anzi vittima di un sistema educativo oppressivo che ne
soffocava la manifestazione del senso critico; i militari italiani e tedeschi,
che la propaganda fascista continuava a presentare come forti e invincibili,
erano ripetutamente sconfitti, come anche alcune canzoni popolari lasciavano intendere;
i soldati inglesi e americani, che i mezzi di comunicazione ufficiali volevano
far apparire come deboli e perdenti per scongiurarne le vittorie,
rappresentavano quei paesi, i cui prodotti culturali, come racconti, fumetti,
film, ecc., già cominciavano a conquistare in Italia una larga fascia di
consumatori.
Secondo la lettura che
ne fa il protagonista, queste rappresentazioni rispecchiano quegli aspetti,
demagogici e retorici, costitutivi dell’ideologia politica e culturale
fascista, che hanno segnato considerevolmente la sua personalità, in modo
particolare per quanto riguarda la scelta alternativa di rivolgersi alla
letteratura, e soprattutto a quella popolare, come ad un mondo “altro”,
strumento con cui si è formato una differente e più consapevole visione della
realtà.
Da questo punto di
vista, il personaggio di Flash Gordon, uno dei suoi eroi di carta preferiti,
può essere visto come il soldato protagonista della sua personale “guerra di
liberazione” dall’oppressione della cultura fascista e dalla tirannia del senso
di colpa. Così inteso, egli assurge a liberatore che, rompendo le catene della
propaganda e della retorica del regime, permette a Yambo di formarsi
un’autentica coscienza civile, e che, aiutandolo a vincere la guerra mistica e
apocalittica contro il peccato, lo mette nelle condizioni di presentarsi,
purificato e rinato, al ricongiungimento amoroso con Lila.
Tuttavia, come abbiamo
potuto constatare, questo non può avvenire in quanto Yambo non può raffigurarsi
il volto dell’amata, che permetterebbe di fare di lei una persona “reale”,
perché – come riconosce egli stesso – «anche Lila è nata da un libro» ,
il Cyrano de Bergerac, e perché in lei non ha amato la Lila realmente
esistita, ma ha proiettato, sublimandolo, il sentimento d’amore, del quale si
era invaghito immedesimandosi nella vicenda amorosa di Cyrano e Rossana. "
Un'illusione che, ad avviso di chi scrive, richiama la lucida follia di “Don Chisciotte della Mancia”
https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/profili-nel-tempo-dell-erranza-don.htmlinnamorato dell'immagine che si è creato di Dulcinea del Toboso, "donna angelica" mai
vista o incontrata, ma in nome della quale compie le
indimenticabili gesta che il suo smaliziato scudiero Sancho Panza asseconda,
sperando in un impossibile compenso.
Per concludere,
possiamo affermare che, leggendo questo romanzo, si ha come l’impressione che
Eco ci mostri, attraverso la vicenda di Yambo, in che modo la letteratura e,
più in generale, la cultura contribuiscono a dare vita ai nostri ricordi,
pensieri ed emozioni, a far sì che ci costruiamo la nostra identità e ci
confrontiamo con il presente e il passato, perché come nota il Maestro in "Sei passeggiate nei boschi narrativi" del 2007 «questo intrico di memoria
individuale e collettiva allunga la nostra vita, sia pure
all’indietro, e ci fa balenare davanti agli occhi della mente una promessa
d’immortalità»
L'unica condizione, credo di poter aggiungere, che ci fa sperare e costruire il futuro, e Dio solo sa quanto l'Italia abbia bisogno oggi di immaginare nuove cattedrali del pensiero in un inedito orizzonte culturale di cui il grande medievalista sarebbe potuto essere il bizzarro quanto sublime architetto.
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Forse molti ignorano che non abbiamo di Umberto Eco una tomba sui cui raccoglierci. Le sue ceneri riposeranno un giorno nel Cimitero Monumentale di Milano. Ma non nel Civico Mausoleo Garbin, l’edicola funeraria dedicata agli artisti milanesi illustri. Questa era la soluzione offerta dal Comune. La famiglia, con una lettera firmata dalla vedova, Renate Ramge, ha ringraziato l’amministrazione, ma ha rifiutato la proposta. Nessuna vena polemica. Il loro desiderio è semplicemente un altro: realizzare una tomba di famiglia, sempre al Monumentale, dove riunire tutti i propri cari.
Nel frattempo, come la mitica Arca dell'Alleanza nel labirintico magazzino che si intravede nell'ultima sequenza del film con Harrison Ford, l'urna cineraria è custodita nella casa di famiglia in Piazza Castello, 13 a Milano tra le decine di migliaia di libri che compongono la sterminata biblioteca del Maestro che presto sarà trasferita all'Università di Bologna, sua Alma Mater.