Profili nel tempo dell' erranza, Don Chisciotte della Mancia
Dal film di Terry Gillman "L'uomo che uccise Don Chisciotte, 2018
La saggezza di Don Chisciotte e la follia dell' Occidente
di Luigi Sanlorenzo (*)
Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
Perché il Male ed il Potere hanno un aspetto così tetro?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
Farmi umile e accettare che sia questa la realtà?
Francesco Guccini, Don Chisciotte, in Stagioni, 2000
Credo sia noto ai lettori il mio convincimento che
troppo spesso capolavori della letteratura mondiale siano stati confinati nella
sezione “per ragazzi” anche a motivo della loro carica eversiva che da adulti potrebbe essere colta
con effetti non sempre graditi al potere di ogni tempo.
Così scrivevo nel maggio scorso:
“Insomma sembra proprio che il piacere di narrare e
la capacità di incantare il lettore siano rimasti nascosti tra le pagine dei
grandi classici della letteratura, talvolta ridotti al rango di
“letteratura giovanile” come nel caso di Moby Dick di Hermann
Melville di cui ricorre il centosettantesimo anniversario della pubblicazione o
del Davide Copperfield di Charles Dickens o del Don Chisciotte di Miguel
Cervantes, veri e propri apologhi del travaglio umano e del suo disperato e
titanico confronto con la potenza incomprensibile della natura nel suo
inestricabile dispiegarsi. Con la differenza che i giovanissimi di oggi hanno
altri riferimenti e talvolta si imbattono in tali personaggi solo grazie
alla graphic novel che ne rispolvera di tanto in tanto i fasti e le
atmosfere ma che, inevitabilmente, priva il lettore di pagine e
pagine di descrizioni dei luoghi e dei caratteri dei personaggi, elementi
cruciali in cui “esplode” letteralmente il talento del narratore,
imprimendo nel testo inestinguibili tracce di quella creatività e della
capacità di immaginazione che soltanto le parole scritte bene possono generare.”
Il 16 gennaio del 1605 veniva pubblicato, quale primo dei due volumi che lo costituiscono, il Don Chisciotte. Cervantes ebbe una
vita non facile, figlio di un cerusico ambulante, in una rissa compì un reato e
venne condannato al taglio della mano destra, per nostra e sua fortuna non
perderà la mano. Fuggì infatti in Italia e partecipò nel 1571 alla battaglia di
Lepanto, di conseguenza le storie delle battaglie dei paladini moderni che i
due goffi straordinariamente eroicomici personaggi Chisciotte e Sancho sono
anche un riflesso della sua vita.
Alla battaglia di Lepanto perde la mano sinistra,
con una sola mano continuerà a combattere, viene preso prigioniero, mandato ad
Algeri, dove rimane cinque anni. Sembra sia stato anche nel sud d’Italia a
curarsi e in questa occasione probabilmente vide il teatro dei pupi, dei pupi
siciliani, che forse ispirarono con le loro storie dei paladini trasmesse lungo
i secoli almeno in parte le storie di Chisciotte e di Sancho.
Un episodio preciso del primo dei due Chisciotte presenta mastro Pedro in azione con il suo retablo, i suoi
burattini, quindi abbiamo effettivamente un innesto non solo dei grandi libri
di cavalleria ma anche delle piccole storie buone per i bambini, quelle dei
burattini, dei pupi, che Mimmo Cuticchio ha conservato nel suo cunto.
La letteratura picaresca è letteratura eroicomica che riprende la
tradizione del cavaliere errante e la riduce ai brandelli della quotidianità,
ne fa una giocosa messa in scena teatrale dell’antica ed eroica letteratura dei
cavalieri erranti, che vanno nel mondo, come diceva uno degli autori dei
romanzi medioevali, in cerca del senso del mondo; oramai il senso del mondo
sembra essersi perduto, il picaro e il Chisciotte, che del picaro prende la
tradizione e la rinnova, rappresenta il punto di saldatura e di rottura suprema
tra il senso del mondo che la letteratura riproduce e il mondo che ha perduto i
sui sensi.
Franz Kafka ha scritto un piccolo racconto intitolato “La verità su Sancho Panza”,
in cui sostiene che Chisciotte è un invenzione di Sancho. Sancho è la realtà,
ma è contemporaneamente un profondo rivoluzionario. Chisciotte crede ancora
nella possibilità che i libri riproducano il reale, gli diano senso,
esattamente come i libri di cavalleria medioevali facevano; il vero
conservatore, anzi il vero reazionario, in fondo è lui che vuole nel pieno di
una società come quella barocca, come quella che ha conquistato oramai il nuovo
mondo, combattendo le grandi guerre di religione, in questo tipo di società,
Chisciotte vuole conservare la cavalleria, vuole
come dice in un punto del suo romanzo, rinnovare, richiamare in vita tutti i
grandi cavalieri del passato; è lui stesso tutti i cavalieri del passato, ed in
questa dimensione è un conservatore.
Chisciotte è diventato pazzo a forza di leggere libri, sappiamo bene che il
curato e il barbiere andranno nella sua biblioteca prenderanno tutti i libri e
li butteranno in un rogo; su questo rapporto tra i libri e la realtà ha scritto Michael
Focault nel libro “Le parole e le cose, di cui si dirà più avanti.
Numerosi temi presenti nel romanzo cervantino
alimenteranno la poetica borgesiana, ("Finzioni" 1944) costituendovisi in topoi: la reazione
contro la cultura dominante, la fantasia e la realtà, il carattere problematico
del romanzo, il contrasto tra vita attiva e vita contemplativa (il discorso
delle armi e delle lettere), la relazione tra poesia e filosofia e, quindi, la
questione della lingua come simbolo di umanità e di civile conversazione
(influenza dei dialoghi di Platone), l’idea del romanzo nel romanzo, del libro
dello stesso autore nel romanzo, l’idea dell’amore.
Anche Cervantes, come Borges, è poeta, non filosofo,
ma sa cogliere l’essenza delle questioni e ne fa materia di fantasia, di
sublime poesia.
Michel Focault, nell’opera “Le parole e le cose” pubblicato
per la prima volta in Francia da Gallimard nel 1966,coglie nel libro di Cervantes un grande gioco sulla
realtà, ma anche un gioco in cui noi siamo coinvolti, perché in fin dei conti
se i personaggi di una finzione possono leggere il libro in cui essi esistono,
allora anche noi possiamo essere finti, fittizi, essere noi stessi personaggi
di un grande libro, quel grande libro che è la storia nella quale noi stessi
siamo iscritti.
“Con i loro giri e rigiri le avventure di don
Chisciotte tracciano il limite: in esse hanno termine i giochi antichi della
somiglianza e dei segni; in esse già nuovi rapporti si stringono. Don
Chisciotte non è l’uomo della stravaganza ma piuttosto il pellegrino meticoloso
che fa tappa davanti a tutti i segni della similitudine.
È l’eroe del Medesimo.
Non riesce ad allontanarsi dalla familiare pianura che si stende attorno
all’Analogo, proprio come non riesce ad allontanarsi dalla sua angusta
provincia. Incessantemente la percorre, senza mai varcare le frontiere nette
della differenza né raggiungere il cuore dell’identità. Egli stesso è fatto a
somiglianza dei segni. direttamente dallo sbadiglio dei libri. L’intero suo
essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già scritta. È fatto
di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza
delle cose.
Non del tutto però: nella sua realtà di povero hidalgo può infatti divenire il
cavaliere soltanto ascoltando da lontano l’epopea secolare che formula la
Legge. Il libro è più il suo dovere che la sua esistenza. Senza posa deve
consultarlo per sapere che fare e che dire e quali segni dare a se stesso e
agli altri per mostrare che la sua natura è la stessa del testo dal quale è
uscito.
I romanzi di cavalleria hanno scritto una volta per tutte la prescrizione della
sua avventura. E ogni episodio, ogni decisione, ogni impresa saranno segni del
fatto che don Chisciotte è realmente somigliante a tutti i segni da lui
ricalcati.
Ma se vuole essere loro somigliante è perché deve
dimostrarli, è perché ormai i segni (leggibili) non somigliano più agli esseri
(visibili). Tutti quei testi scritti, tutti quei romanzi stravaganti sono
appunto senza uguali: nessuno al mondo è mai stato ad essi somigliante; il loro
linguaggio infinito resta in sospeso senza che alcuna similitudine arrivi mai a
riempirlo; possono bruciare tutti e per intero, la figura del mondo non né
resterà cambiata.
Somigliando ai testi di cui è il testimone, il rappresentante, l’analogo reale,
don Chisciotte deve fornire la dimostrazione e farsi portatore del segno
indubitabile che dicono il vero, che sono il linguaggio del mondo.
Gli tocca adempiere la promessa dei libri. È suo
compito rifare l’epopea, ma in senso inverso: questa narrava (pretendeva
narrare) gesta reali, promesse alla memoria; don Chisciotte invece deve colmare
con la realtà i segni, senza contenuto, della narrazione.
La sua avventura sarà una decifrazione del mondo: un percorso minuzioso per
rilevare sull’intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri
dicono il vero. La prodezza deve diventare prova: consiste non già nel
trionfare realmente – è per questo che la vittoria è in fondo irrilevante – ma
nel trasformare la realtà in segno. In segno attestante l’esatta conformità dei
segni del linguaggio alle cose stesse. Don Chisciotte legge il mondo per
dimostrare i libri. E non fornisce a sé prove diverse dal luccichio delle
somiglianze.
Tutto il suo cammino è una ricerca delle
similitudini: le più tenui analogie vengono sollecitate come segni assopiti che
occorre risvegliare perché riprendano a parlare. Le greggi, le fantesche, le
locande somigliano ai castelli, alle dame, agli eserciti. Somiglianza
ogni volta delusa che trasforma la prova cercata in derisione e lascia per
sempre vuota la parola dei libri.
Ma la non-similitudine stessa ha il proprio modello da essa servilmente
imitato: lo trova nella metamorfosi dei maghi. Per cui tutti gli indici della
non-somiglianza, tutti i segni che mostrano che i testi scritti non dicono il
vero, somigliano al gioco dell’incantesimo che introduce con l’astuzia la
differenza nell’indubitabile della similitudine. E poiché questa magia è stata
prevista e descritta nei libri, la differenza illusoria da essa introdotta non
sarà mai altro che una somiglianza stregata. Un segno supplementare quindi del
fatto che i segni somigliano alla realtà.
Don Chisciotte traccia il negativo del mondo
del Rinascimento; la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le
somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini
deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente
nella loro ironica identità; sono soltanto quello che sono; le parole vagano
all’avventura, prive di contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non
contrassegnano più le cose; dormono tra le pagine dei libri in mezzo alla
polvere.
La magia, che consentiva la decifrazione del mondo scoprendo le somiglianze
segrete sotto i segni, non serve più che a spiegare in termini di delirio
perché le analogie sono sempre deluse.
L’erudizione che leggeva come un testo unico la
natura e i libri è rimandata alle sue chimere: deposti sulle ingiallite pagine
dei volumi, i segni del linguaggio non hanno più come valore che la tenue
finzione di ciò che rappresentano. La scrittura e le cose non si
somigliano. Tra esse, don Chisciotte vaga all’avventura.
Eppure il linguaggio non è divenuto del tutto
impotente. Detiene ormai nuovi poteri, che gli sono propri. Nella seconda parte
del romanzo don Chisciotte incontra personaggi che hanno letto la prima parte
del testo e che riconoscono in lui, uomo reale, l’eroe del libro.
Il testo di Cervantes si ripiega su se medesimo, sprofonda nel proprio
spessore, diventa per sé oggetto della propria narrazione. La prima parte delle
avventure svolge nella seconda la funzione assunta all’inizio dai romanzi di
cavalleria. Don Chisciotte deve essere fedele al libro che egli è realmente
diventato; ha il dovere di proteggerlo dagli errori, dalle contraffazioni,
dalle contaminazioni apocrife; deve aggiungere i dettagli omessi; deve serbare
la sua verità.
Ma, per quanto lo riguarda, questo libro non l’ha
letto e non deve leggerlo, dal momento che lo è in carne e ossa. Egli che, a
furia di leggere libri è divenuto un
segno errante in un mondo che non lo riconosceva, eccolo divenuto, suo
malgrado e senza saperlo, un libro che detiene la sua verità, annota
esattamente tutto quello che egli ha fatto e detto e veduto e pensato, e che
consente infine di riconoscerlo, tanto somiglia a tutti i segni la cui scia
incancellabile esso ha lasciato dietro di sé.
Tra la prima e la seconda parte del romanzo,
nell’interstizio tra i due volumi, e in virtù del loro solo potere, don
Chisciotte ha acquistato la sua realtà.
Realtà che deve solo al linguaggio e che resta tutta quanta interna alle
parole. La realtà di don Chisciotte non è nel rapporto tra parole e mondo, ma
nella tenue e costante relazione che i segni verbali intrecciano da sé a sé.
La finzione delusa delle epopee è divenuta il potere rappresentativo del
linguaggio. Le parole si sono chiuse sulla loro natura di segni.
Don Chisciotte è la prima delle opere moderne
poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze
deridere all’infinito segni e similitudini, poiché il linguaggio, in essa,
spezza la sua vecchia parentela con le cose, per entrare in quella sovranità
solitaria da cui riapparirà, nel suo essere scosceso, solo dopo che è diventato
letteratura; poiché la somiglianza entra così in un’età che per essa è quella
dell’insensatezza e dell’immaginazione.
Una volta attuata la separazione tra similitudine e
segni, due esperienze possono costituirsi e due personaggi emergere e
fronteggiarsi. Il pazzo, inteso non come malato, ma come «devianza» costituita
e alimentata, come funzione culturale indispensabile, è divenuto,
nell’esperienza occidentale, l’uomo delle somiglianze selvagge.
Questo personaggio, nella forma in cui compare nei romanzi o nel teatro
dell’età barocca, e in quella entro la quale si è istituzionalizzato a poco a
poco fino alla psichiatria del XIX secolo, è colui che si è alienato nell’analogia.
È
lo sregolato burattinaio del Medesimo e dell’Altro; prende le cose per quelle
che non sono e le persone le une per le altre; ignora gli amici, riconosce gli
estranei; crede di smascherare e impone una maschera. Inverte tutti i
valori e tutte le proporzioni, perché crede continuamente di decifrare dei
segni: per lui gli orpelli fanno un re.
Nella percezione culturale che si è avuta del pazzo fino alla fine del XVIII
secolo, esso è il Differente solo nella misura in cui non conosce la
Differenza; non vede ovunque che somiglianze e segni della somiglianza; tutti i
segni per lui si somigliano e tutte le somiglianze valgono come segni.
All’altro estremo dello spazio culturale, ma
vicinissimo per la sua simmetria, il poeta è colui che, al di sotto delle
differenze nominate e quotidianamente previste, ritrova le parentele sepolte
delle cose, le loro similitudini disperse.
Sotto i segni stabiliti, e loro malgrado, afferra un altro discorso,
più profondo, che richiama il tempo in cui le parole scintillavano nella
somiglianza universale delle cose: la Sovranità del Medesimo, così difficile da
enunciare, cancella nel suo linguaggio la distinzione dei segni.
Di qui indubbiamente, nella cultura occidentale
moderna, il fronteggiarsi della poesia e della follia. Ma non è più il
vecchio tema platonico del delirio ispirato. E’ segno di una nuova esperienza
del linguaggio e delle cose. Nei margini di un sapere che separa gli esseri, i
segni e le similitudini, e al fine di limitarne il potere, il pazzo si rende
garante della funzione dell’omosemantismo: raccoglie tutti i segni e li colma
di una somiglianza che non cessa di proliferare.
Il poeta garantisce la funzione contraria: assolve alla funzione allegorica;
sotto il linguaggio dei segni e il gioco delle loro distinzioni ben ritagliate,
si pone all’ascolto dell’«altro linguaggio», quello, senza parole né discorso,
della somiglianza.
Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che
la dicono, il pazzo carica tutti i segni d’una somiglianza che finisce col
cancellarli.
Situati sull’orlo estremo della nostra cultura e vicinissimi alle sue divisioni
essenziali, essi si trovano così, l’uno e l’altro, in quella «situazione al
limite» – posizione marginale e profilo profondamente arcaico – in cui le loro
parole incessantemente trovano il loro potere di estraneità e la risorsa della
loro contestazione."
Fra loro si è schiuso lo spazio d’un sapere nel quale, in virtù di una rottura
essenziale nel mondo dell’Occidente, non si avrà più da fare con similitudini,
ma con identità e differenze.
____________________
Ecco al di sotto della meraviglia delle fiabe, delle
avventure del Chisciotte c’è questo profondo riflettere sulla realtà del mondo
in mutamento, sulla realtà della modernità che trasforma alla radice i rapporti
sociali, politici, culturali tra le persone, tra le classi e anche tra le idee
delle persone e le parole che queste idee rappresentano.
In questo senso dunque è un libro che genera altri
libri: così fu per “L’idiota” di Dostoevskij, uno dei suoi grandi libri, quando
ideò il personaggio del principe Myškin pensò a Chisciotte e scrisse nei suoi
appunti che il principe doveva camminare come Chisciotte, avere quell’andatura
traballante nel mondo. L’idiota è ancora il folle, è ancora il folle che non
riesce a venire a patti con le proprie idee e la propria interiorità, con il
proprio esteriore, la letteratura e la vita.
In "La tragedia del genere umano” per il filosofo Miguel de Unamuno Don Chisciotte è l’inganno della letteratura, è
l’autoinganno della letteratura. Il poeta è colui che in realtà trova la misura
delle cose nel essere somiglianti alle idee che ci facciamo su di esse, ma non
perfettamente coincidenti, va sempre in cerca di uno scarto sottile tra ciò che
è e ciò che vorremmo che fosse, ciò che è e ciò che crediamo sia, quindi trova
le similitudini disperse tra le cose, quelle che gli occhi quotidiani non
vedono: questa è la grande virtù del poeta Chisciotte, dell’avventuroso folle
che ci fa saggi con la sua follia.
“Di contro
alla «scienza dell’intelletto» - scrive Giovanni Sessa nell’ introduzione - che
distingue, divide e parla del e sul mondo, Don Chisciotte-de Unamuno propone la
«scienza del cuore», che pensa non con la sola testa, ma con il corpo, con la
viva carne, con l’anima. Del resto, de Unamuno, sostenne con forza, a proposito
della creazione poetica: «Se la poesia non ci libera della logica, a null’altro
ci può servire». Questa la «follia» di Don Chisciotte, la sua costitutiva
utopia. Egli si getta nel mondo per mostrare, con le sue sole forze, con l’esempio,
la possibilità di un’altra vita. Naturalmente, come accadde a de Unamuno, anche
il Cavaliere errante dovette subire lo scherno e il dileggio egli uomini:
«stupidi per eccesso di sensatezza», chiusi nella cittadella del pregiudizio,
nelle abitudini macchinali.
Don Chisciotte nutre la propria presenza nel mondo
di una sola certezza: essere uomini è un compito, una possibilità e per
essere realmente esistenti bisogna nascere in spirito. Il cavaliere
errante realizzò, nell’agire, nell’andare incontro all’avventura del mondo,
quell’ ideale che aveva appreso ad amare dalla letteratura cavalleresca, quel
mondo che agli uomini di «buon senso» sembra morto da tempo, ma che in realtà,
in quanto origine è sempre possibile.
Penso che non ci sia nulla di più necessario della letteratura, cioè di
Chisciotte, la sua necessità sta proprio nel fatto che non serve proprio a
nulla, cioè che non è al servizio di nulla. A che serve una poesia? Direi che
una poesia non serve, è quel dono di cui Giorgio Caproni ci ha parlato in una
splendida poesia di Res Amissa: un dono che come una rosa ha le sue spine. Dimentichiamo chi ci ha fatto quel dono e ci rimane la rosa. La poesia è
questo, la letteratura è questo: una necessaria finzione che non deve portarci
fuori dal reale, deve aprire nel reale uno spazio che non è al servizio di
nulla, che non serve, e per questo è necessario.
______________________
Il Don Chisciotte ha ispirato e credo continui ad ispirare oggi i
cantautori. Francesco Guccini ha scritto una bellissimo testo, che è anche una
bellissima canzone in cui Chisciotte parla con Sancho e gli spiega che anche
lui è stato un realista, poi ho scoperto che essere idealisti è più importante
che essere realisti, l’idealista è un realista che nella realtà trova un seme
nuovo, trova un senso che il puro realista non riesce a riconoscere.
Il puparo siciliano, Mimmo Cuticchio
E’ quel di più, è quell’aggiunta del gratuito,
dell’inutile e quindi necessario che è appunto il farsi delle idee, avere
un’ideale. Cito solo Guccini, ma potrebbe essere citato Lucio Dalla, che amava
molto Chisciotte, oppure Mimmo Cuticchio, il grande cantastorie siciliano che
ha ripreso questo tema e ne ha colto la violenta presenza nel mondo quotidiano,
un mondo di gente che non fa che invitarci a credere soltanto alla realtà,
all’importanza del successo, del guadagno, delle cose.
I giovani non credono più nel
donchisciottismo, io credo invece che vada di nuovo proposta loro non la follia del don
Chisciotte ma questo scarto rispetto al reale, questa voglia di conservare se
stessi, le idee, il passato che siamo e la tradizione che portiamo. Lo
scollamento che noi stiamo provando, che i giovani stanno provando, per esempio
verso la politica, la sfiducia nella politica, il non sentirsi più riconosciuti
nella delega politica, e di conseguenza l’abbandono dell’idealità, e della
partecipazione al reale (partecipare vuol dire non tanto appropriarsi del reale
quanto volerlo cambiare, voler interferire con esso) credo che in questo
interstizio delicato e difficile si trovi forse una risposta a questa domanda.
C’è un punto, vorrei proporlo come allegoria, che è
forse anche di tipo politico e civile: anche Sancho diventa
Chisciotte ad un certo punto. Chisciotte promette a Sancho, in uno dei primi
capitoli del libro: “se verrai con me nelle mie avventure ti regalerò un’isola
come Alessandro magno nella tradizione letteraria aveva fatto con un suo
giullare”. Sancho crede in questa isola, ma è proprio questo credere
profondamente e aspettare l’isola e cercarla e combattere a fianco del suo eroe
che fa di Sancho un piccolo don Chisciotte, un Chisciotte in potenza.
Alla fine di questo lungo viaggio domenicale, è forse il caso di riflettere su un libro letto da ragazzi e poi dimenticato; forse questo ci
porterà ad essere, senza angosce o complessi di colpa, un po’ Sancho e un po’ Chisciotte, ogni giorno della nostra
vita.
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