La filastroccaè un tipo di componimento breve con ripetizione di sillabeed utilizzo di parole, costituito da un linguaggio semplice e ritmato. È la prima forma poetica che conosce il bambino, il suo primo approccio con le parole e la musica. Il ritmodella filastroccaè rapido e cadenzato con rime, assonanze e allitterazioniricorrenti.
Di origine popolare, usata nel passato per tramandare tradizioni o contro le maldicenze. Riadattata, viene oggi usata principalmente per far addormentare o divertire i bambini.
Alcuni procedimenti analoghi a quelli utilizzati nelle filastrocche si possono trovare nella poesia burlesca quale quella di Lodovico Leporeo e Olindo Guerrini. Noto autore di filastrocche è stato, in Italia, Gianni Rodari.
Umberto Eco, che tanto ci manca, ne ha scritto una su Marcel Proust nel libro 'Filosofi in libertà', ormai introvabile volume del 1958 che l'autore firmò con lo pseudonimo joyciano di Dedalus e che oggi è riproposto da "La Nave di Teseo".
Oltre ad
essere uno scritto giovanile presenta un aspetto nuovo in quanto poco
conosciuto di quella che lo stesso Eco definì “saggistica leggera”.
La riportiamo, come tenero ricordo, nel novantesimo anniversario della nascita del Maestro di cui in più occasioni Nuovi Approdi si è occupato.
"Raccontar vi vo bel bello quel che accadde a Proust Marcello ch'era un vecchio cataplasma sempre oppresso ahimè dall'asma e vegliato giorno e sera da una anziana cameriera. Ma un bel dì verso le tre mentre si sorbiva il tè sentì in bocca un gusto strano, indicibil, sovrumano, quasi in casa più non fosse, fiacco e oppresso dalla tosse, ma di colpo, sai com'è, si trovasse là a Combray, quando ancor stretto alla gonna della mamma e della nonna si assopiva il poverino dopo il bacio serotino (che attendeva assai turbato con il cuor tutto alterato, quasi fosse quel gentil bacio come un Perequil). Preso nella gora morta del ricordo, con la torta imbevuta ancor di tiglio nella strozza, caro figlio, il Marcello in quell'istante un programma ebbe davante e decise senza indugio di cercare il suo rifugio dalle asprezze del presente in un atto progrediente di ricerca del passato già perduto, e ritrovato per magia straordinaria di memoria involontaria. I ricordi alquanto lisi rinfrescò dei Campi Elisi quando allegro all'aria aperta vi giocava con Gilberta - che tradì, la poverina, per la gota di Albertina, maliziosa forosetta che girava in bicicletta. Siamo onesti, che daffare quel figliol si diede al mare, e raggiunse infine il clou col conoscere Saint-Loup. Riviveva nel suo sen il salotto Verdurin, presso cui faceva il fan di quel dandy d'uno Swan (quante poi se ne son dette delle nozze con Odette ch'era sì una concubina, ma di classe sopraffina...), e con molta discrezione di Charlus la perversione tollerò col fine insano d'apparire più mondano, affiliato alla camorra di Sodòma e di Gomorra. Finalmente appaga il voto ed accede, pio e devoto, nel santuario assai charmant ove officiano i Guermantes. Ma codeste son vicende e narrarle non vi rende certo il senso sostanziale di quel viaggio temporale che Marcello seppe fare in misura sì esemplare. Ed il leggere di un fiato quel romanzo smisurato vi assicuro, è risaputo, che non è tempo perduto".
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Di una delle più antiche filastrocche siciliane Marcella Burderi (*) , studiosa di tradizioni popolari, ci offre un'intensa recitazione, rievocando antiche nostalgie.
C’era una volta un Re, befè, biscotto e minè,
che aveva una figlia, befiglia, biscotto e miniglia,
che aveva un uccello befello, biscotto e minello.
Un giorno l’uccello, befello, biscotto e minello
della figlia befiglia, biscotto e miniglia
del re befè, biscotto e minè volò.
Ahi, come piangeva, la figlia befiglia, biscotto e miniglia
del re befè, biscotto e minè!
Allora il re befè, biscotto e minè disse:
“A chi riporterà l’uccello befello, biscotto e minello
della figlia befiglia, biscotto e miniglia
del re befè, biscotto e minè,
io la darò in sposa!”.
E venne un cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso
e disse:
“Ecco, re befè, biscotto e minè,
io ti ho riportato l’uccello befello, biscotto e minello
della figlia befiglia, biscotto e miniglia
del re befè, biscotto e minè,
ora me la devi dare in sposa!”.
Il re befè, biscotto e minè
chiamò la figlia befiglia, biscotto e miniglia,
ma quella, quando vide quel cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso
disse:
“Io sono la figlia befiglia, biscotto e miniglia
del re befè, biscotto e minè
e non sposerò quel cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso,
neppure se mi ha riportato l’uccello befello, biscotto e minello!”.
Allora il cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso
aprì le dita e l’uccello befello, biscotto e minello
della figlia befiglia, biscotto e miniglia
del re befè, biscotto e minè, volò via…
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(*) Studiosa di tradizioni popolari. PhD. Socia PRUA
Rembrandt, La lezione di anatomia del dottor Tulp , 1632, Museo dell'Aia
Un' autopsia necessaria
di Luigi Sanlorenzo (*)
Nel gran teatro della
democrazia italiana, sostituiti "i catafalchi" con discutibili e
labirintiche cabine color fucsia, campeggia ora un tavolo anatomico freddo
e indifferente.
Si sta per svolgere l'autopsia della Politica, deceduta per consunzione dopo essere stata colpita da un virus lento ma letale - tra poco saranno trent'anni - nei corridoi del Pio Albergo Trivulzio di Milano.
Per tre decenni si è cercato di tenerla in vita con ostinazione attraverso il berlusconismo prima, specchio di una società edonistica autoconvintasi di essere ricca e il populismo, interessato a riportarla tra la gente ricorrendo ad ogni rischiosa semplificazione dei problemi e delle relative soluzioni e irridendo ogni forma di cultura, preparazione e competenza al grido di "uno vale uno".
Il Paese sconta oggi quei tentativi estremi, interrotti solo da brevi parentesi che non hanno avuto però la capacità di generare una cultura politica, così necessaria in una società affetta da analfabetismo funzionale e di ritorno.
Un'intera generazione non ha memoria di altro.
Per essa la Politica e ogni altra cosa connessa ha solo il volto sfocato di Silvio Berlusconi e l'agitazione tarantolata di Beppe Grillo. In mezzo, il nulla in un paese che paradossalmente deve alla pandemia, cui ha pagato un prezzo altissimo in vite umane, una sia pur ancora poco avvertita soluzione finanziaria ai propri enormi problemi di indebitamento e al ritardo infrastrutturale che lo fa ultimo tra le principali democrazie dell' Unione.
Ora che il malato ha esalato l'ultimo respiro alla presenza del Parlamento in seduta comune per eleggere il nuovo Capo dello Stato, è giunto il momento di una necessaria autopsia, unica didattica possibile perchè qualsiasi cosa verrà fuori, domani possa essere il più possibile immune da nuove contaminazioni fatali.
Procediamo allora al triste rito secondo gli insegnamenti della medicina che nella dissezione dei cadaveri ha trovato spesso le vere cause del decesso.
Il cadavere è nudo. Steso prono sul tavolo metallico leggermente inclinato per favorire lo spurgo dei fluidi corporei, è osservato nella sua ultima integrità che presto avrà termine. Rivela ogni recesso, non può opporre alcuna residua finzione cosmetica, ogni pudore gli è negato.
Il patologo lo osserva senza emozioni e, postosi sul volto la mascherina chirurgica impregnata di mentolo per attenuare la puzza, dà inizio al rito antico.
La mano ferma effettua con il bisturi un' incisione "ad Y" partendo dal torace e proseguendo fino al pube. Il cadavere si apre come un libro, offrendo la lettura dei propri organi vitali.
Con difficoltà viene estratto il cuore. E' difficile da trovare perchè è ridotto ad un grumo gelatinoso che sembra aver cessato da tempo il proprio ruolo di pompare il sangue depurato dai polmoni nel sistema circolatorio alimentando tutto l'organismo di nuova energia. Il suo battito, ininterrotto dal concepimento, ha scandito il tempo dell'esistenza.
Gli antichi credevano fosse il centro delle emozioni, ma da recente qualcuno vi ha trovato tracce di rispecchiamento con ciò che, invece, avviene nel cervello. In ogni caso, quel muscolo si presenta atrofizzato e palesemente superfluo rispetto alla funzione originaria. Negli ultimi tempi era giunto al limite inferiore delle proprie possibilità ma, soprattutto, non faceva più battere il cuore della gente comune. Il patologo lo pesa, lo mette da parte ed esso sembra sparire nel lucore metallico del vasto contenitore pensato per ospitare ben altre dimensioni.
E' il momento dei polmoni. Rivelano la qualità dell'aria che il corpo ha respirato negli anni. Nel filtro che essi rappresentano sono ancora incastrati i residui di tempi dimenticati, i sedimenti di poche stagioni salubri, le lunghe permanenze in stanze tanto dorate quanto mefitiche e, talvolta venefiche, i fumi dell'avidità e le esalazioni del potere.
Si presentano neri e slabbrati e i bronchi al loro interno sembrano una rete di canali disseccati in cui l'ultimo refolo di aria pulita è passato da troppo tempo. Senza galleggiare neanche per un attimo, scendono nella soluzione di formalina predisposta per ospitarli. Si depositano sul fondo del vaso, agglutinandosi in una forma presto indistinta.
Il patologo passa ora al fegato, la grande spugna purpurea deputata a filtrare il sangue della digestione di ciò di cui il corpo si è nutrito. La massa è enorme, gonfia, durissima, più nera che violacea. I vasi che la percorrono sono ostruiti da tempo, talmente ingente è stata la quantità di veleni che l'organo non è riuscito a filtrare. Essi si sono cristallizzati e sono bene identificabili anche prima dell'analisi con gascromatografo e spettometro di massa.
Non si rinvengono tracce di interventi depurativi effettuati in vita, se non qualche residuo di alcuni iniziali nutrienti poi soverchiati dalla spazzatura che è stata ingoiata per decenni.
Lo stomaco è dilatato a dismisura. Sembra avere preso il posto del cuore poichè in esso sembrano essersi concentrati gli umori più pestilenziali, le reazioni intempestive, le contrazioni più lancinanti, gli appetiti meno nobili, un'incredibile predisposizione ad invadere lo spazio degli altri organi.
Le tracce degli ultimi pasti rivelano le abitudini alimentari del corpo ormai cadavere. Tracce di brani di carne altrui non ancora digerita, farina di notizie scorse frettolosamente, un tempo nella mazzetta d'ordinanza e poi sugli schermi di un tablet, nel tentativo di cogliere il "vento" e di seguirne il corso, non disponendo di idee proprie da proporre e difendere.
Una massa recente e non ancora smaltita rivela un improvviso ispessimento delle pareti gastriche, in precedenza abituate ad ospitare i più parchi alimenti di precedenti periodi di povertà.
Il lungo tubo dell'intestino è aggrovigliato, presenta più diverticoli che tratti liberi, in cui ristagnano residui di feci mai espulse. L'ano sembra arroventato per un probabile uso improprio e ricorrente. Messo da parte l'intero apparato digerente per un esame istologico approfondito, il patologo teme di sapere già quale sarà l'esito definitivo.
La prima parte dell'autopsia è conclusa. Il patologo pesa diligentemente tutto ciò che ha estratto. Gli antichi egizi riponevano gli organi interni nei vasi canopi. Ora, dopo ulteriori esami, finiranno in un inceneritore. Polvere alla polvere, cenere alla cenere.
Si passa all'esame dei grandi vasi che raggiungono gli arti inferiori le arterie iliache e femorali che dopo il tratto comune si biforcano a destra e a sinistra. Il patologo resta perplesso. In entrambi gli arti risaltano aneurismi e trombi di ampie estensioni dovuti all'innaturale accumulo di mescolanza di fluidi diversi e contraddittori impossibili da far transitare senza difficoltà e che, influenzando l'intera circolazione, impediscono il movimento, condannando ad una progressiva immobilità.
L'ultimo atto della penosa esperienza è la testa. Fatta una prima incisione sul cuoio capelluto rasato, con una sega elettrica incide la calotta cranica, e messo a nudo il cervello, ne scosta il velo che lo ricopre.
Ciò che vede lo lascia sbigottito.
Lo squilibrio dei due emisferi è abnorme. Normalmente, essi sono disposti in modo tale che uno appartenga alla metà destra del corpo umano e l'altro alla metà sinistra. gli emisferi cerebrali controllano i movimenti volontari, le funzioni sensoriali (udito, olfatto, vista, tatto e gusto), la capacità di linguaggio e di comprensione del linguaggio, il pensiero, la memoria a breve e a lungo termine, l'apprendimento, l'attenzione e la coscienza; per mezzo della sostanza grigia sottocorticale, inoltre, presiedono a funzioni come l'elaborazione delle emozioni e dei ricordi, la memoria spaziale, il consolidamento della paura, i comportamenti motivati, il processo decisionale finalizzato a una data ricompensa (sistema della ricompensa) e, ancora, la memoria, l'apprendimento e l'olfatto.
Gli emisferi cerebrali hanno un ruolo centrale nei meccanismi e nelle funzioni mentali-cognitive. I cervelli maschili sono infatti strutturati per facilitare il coordinamento tra percezione e azione. Mentre le donne si dimostrano più efficienti nelle azioni che richiedono il coordinamento di entrambi gli emisferi: sono più intuitive, hanno migliore memoria, sono più emotivamente coinvolte quando ascoltano qualcuno.
Probabilmente il cadavere in esame appartiene ad un uomo, non è dato a noi di saperlo, ma il dato obiettivo rivela una massa che non presenta più la scissura interemisferica che separa i quattro lobi nè i solchi e le cinconvoluzioni in cui si sviluppano, tramite i neuroni, le sinapsi celebrali.
Il patologo si trova davanti ad unico blocco cementato che pare si sia spento sprigionando l'ultima scintilla: "Potere". Via le emozioni, le cognizioni, le capacità di collegare concetti lontani tra loro e, soprattutto, niente sogni, niente speranze, nessun futuro da immaginare. Il peso, rispetto alla norma del chilo e duecento/quattrocento grammi, e di tre e il medico si chiede quanto ciò sia stato responsabile, in vita, di lancinanti emicranie e di allucinazioni ricorrenti.
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E' ormai stanco, l'autopsia è durata diverse ore e presto dovrà consegnarne il rapporto, il più strano ed inquietante della propria carriera. Mentre le luci dell'obitorio si spengono in uno sfarfallio di neon, un ultimo interrogativo lo assale: come è stato possibile che quel corpo sia rimasto in vita tanto a lungo ?
Uscito dall' edificio i cui contorni scompaiono nell'oscurità che nasconde l'orrore di cui è stato testimone, si allontana nella notte e la risposta gli giunge inaspettata: l'organismo malato è sopravvissuto con le periodiche trasfusioni di un'intera società che, in fondo, ha preferito la furbizia all'onestà, il sotterfugio alla trasparenza, la protezione al merito, l'inganno alla verità, la parzialità alla giustizia.
Intanto, all'orizzonte appaiono le dita d'oro (ῥοδοδάκτυλος Ἠώς) della dea Aurora, figlia di Iperione e di Tea, sorella di Elio e di Selene, moglie di Astreo, promessa omerica di un nuovo giorno; il cuore del poveruomo si stringe al solo pensiero che potrebbe essere uguale a tutti i precedenti, nell'eterna indifferenza dell'Universo verso i miserabili destini umani.
Si riscuote quando gli balena in mente qualcosa che in quelle ore aveva dovuto dimenticare: sta per diventare padre e nel suo cuore si accende l'ultima struggente speranza che sia una bambina. Sorride a quel pensiero. Decide:: la chiamerà Italia come la nonna triestina nata nel 1918 proprio il giorno della liberazione della città e la cui grande foto seppiata domina il salotto della casa di campagna.
Pare non usi più, eppure è esistito un tempo in cui anche dare il nome ai figli era segno di una fede, incarnava un auspicio e prefigurava un destino.
Si avvia finalmente verso casa. Potrà esserci di nuovo il futuro !
Immagine dal film Schindler’s List di Steven Spielberg, 1993
Quarant' anni fa a Dachau
di
Luigi Sanlorenzo (*)
“La Repubblica italiana riconosce
il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz,
"Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del
popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini
ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte,
nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al
progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite
e protetto i perseguitati.
In occasione del "Giorno
della Memoria" di cui all'articolo 1, sono organizzati cerimonie,
iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione,
in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto
al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti
in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro
periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non
possano mai più accadere”
Così recitano i due articoli
della legge n. 211 del 20 luglio 2000 con cui la Repubblica italiana istituiva
il Giorno della Memoria Un pronunciamento che anticipava di cinque anni la
Risoluzione delle Nazioni Unite, assunta
nella sessione speciale dell’ Assemblea Generale del 24 gennaio del 2005.
L’Italia era retta da un governo di centro sinistra presieduto per la seconda
volta da Giuliano Amato, socialista, dottor sottile e consigliere di Bettino
Craxi, poi indipendente vicino ai Democratici di Sinistra, oggi vice presidente
della Corte Costituzionale, domani chissà.
Al Quirinale si era insediato da poco più di un anno Carlo Azeglio
Ciampi, “riserva della Repubblica” fervente europeista, economista ed ex
Governatore della Banca d’Italia: tra i più amati statisti che il Paese abbia
mai avuto.
Si, perche c’è stato un tempo in
cui l’Italia ha avuto statisti e giganti della politica, uomini di studi
severi, dal curriculum inarrivabile e dall’ampia visione del futuro,
stimati anche da parte egli avversari
politici ed apprezzati sulla scena internazionale. Sembra trascorso un
millennio da allora e forse occorrerebbe parlarne ai giovani di oggi che,
inevitabilmente, si tengono lontani dalla politica dei mediocri, degli ipocriti
e degli impresentabili.
L’istituzione del Giorno della
memoria non fu esente da polemiche politiche che portarono poi ad un
riequilibrio nel 2004 con l’ istituzione parallela della Giornata del Ricordo pretesa, non senza ragione, dalla
Destra e da alcuni settori del centro moderato, in onore delle vittime dei
massacri delle foibe ad opera dei comunisti titini, fino ad allora dimenticate,
almeno ufficialmente. Unicuique suum, come proclama d’altronde uno dei due motti
che affiancano il titolo dell’Osservatore Romano, l’altro è una speranza che
continuiamo a coltivare: Non praevalebunt.
Con l’istituzione del Giorno
della Memoria e fino allo scorso anno, migliaia di studenti accompagnati dai
docenti hanno incontrato i coetanei europei nei campi di concentramento di
Mauthausen in Austria, di Auschwitz-Birkenau e di Treblinka in Polonia, di Bergen-Belsen,
di Flossemburg e di Dachau in Germania, di Theresienstadt nella Repubblica
Ceca, della Risiera di San Sabba e di Fossoli in Italia e in tanti altri campi, minori per dimensione
ma non per ferocia, sparsi in ogni parte del continente occupata dai nazisti. A
aprire loro i cancelli i superstiti dei deportati, tra le mani i capolavori di
Primo Levi, il Diario di Anna Frank, le più recenti testimonianze di Liliana Segre, i racconti di Walter
Veltroni, fino alla graphic novel Maus di Art
Spiegelmann Quest’anno avrebbero avuto anche il libro di Emanuele Fiano pubblicato una settimana
fa da Piemme, con la prefazione di
Liliana Segre “Il profumo di mio padre”:
Nedo, l’ unico superstite di un intero nucleo familiare perito ad
Auschwitz. Esponente di spicco della
Comunità ebraica italiana Emanuele Fiano
è deputato del Partito Democratico e strenuo sostenitore del mantenimento del
reato di apologia del fascismo pericolosamente in bilico tra le disposizioni
transitorie della Costituzione repubblicana – la XII - e di cui legge Scelba del 1952 è stata finora l’applicazione non sempre
rigorosa. Sarebbe la prima a saltare in un futuro che non vogliamo nemmeno immaginare.
Nella mente di quei ragazzi le
sequenze indimenticabili di decine di film da Il Pianista del 1992 a Schindler’s
List del 1993, da La vita è bella del
1997 a Storie di una ladra di libri del 2013 a La Signora dello zoo di Varsavia
del 2017.
Un “Erasmus” della memoria che ha segnato una generazione di giovani europei e reso meno
amaro il disagio di vivere dei sopravvissuti, con le carni marchiate per sempre dal tatuaggio
del numero di matricola assegnato loro all’ingresso nei campi.
Decine di migliaia di studenti
europei sono però una cifra che accende
dubbi lancinanti: quanti tra di essi, oggi adulti, militano tra le fila dei
movimenti negazionisti, sovranisti se non addirittura neo nazisti che
costellano come funghi avvelenati il continente europeo ? Quanti tra di essi
inneggiano oggi a Vladimir Putin, a Recep Tayyp Erdogan, al duo Salvini-Meloni, a Victor Orban ?
Perché la civilissima Francia che
sconta ancora la deportazione di 4.115 bambini
israeliti di Parigi avvenuta il 16 luglio del 1942 con la complicità della
polizia di Vichy, è considerato il paese
occidentale a maggior rischio per gli ebrei sulla base degli attentati che vi
si sono verificati ?
Perché dal sondaggio condotto
dall’Istituto JPR (Jewish Policy Research) risulta che la maggior
parte degli ebrei residenti in Italia si sente minacciata a motivo della
propria identità etnica e religiosa ? Un allarme lanciato già dal 2015 dal
quotidiano Haaretz e ripreso dal settimanale Vita con un articolo di Luca Cereda del luglio scorso
In Italia la senatrice a vita
Liliana Segre ha avuto assegnata una scorta e perfino l’attuale governo
regionale dell’ospitale e tollerante Sicilia che tanto deve al contributo della
cultura ebraica per la composizione del proprio straordinario mosaico di
civiltà, ha dato origine a spiacevoli
episodi nei confronti della valorizzazione di quel patrimonio culturale oggi
affidato, insieme a troppo altro, ad un assessore in quota Lega, di antiche simpatie nibelungiche e naziste. Ne
ho scritto su queste pagine citando anche le vibrate proteste al riguardo da parte dell’ Unione delle Comunità ebraiche italiane.
Insomma, alla vigilia della
ricorrenza che quest’anno, a motivo della pandemia, vedrà probabilmente chiusi i cancelli dei
campi di sterminio e sensibilmente diminuito il numero degli anziani
sopravvissuti, le commemorazioni che certo saranno diffuse e numerose, soprattutto sul web, saranno anche occasioni
di contestazione e di revisionismo?
Intanto, si registra il contestato pentimento
dell’ultimo rampollo di casa Savoia, Emanuele Filiberto, che - a
differenza del padre Vittorio Emanuele e
del nonno Umberto che pure avendone avuto tutto il tempo, mai hanno fatto ammenda della firma apposta
da Vittorio Emanuele III sulle Leggi Razziali del 1938 – in una lettera aperta
diffusa dall’agenzia ANSA il 21 gennaio ha dichiarato "Scrivo a voi,
Fratelli Ebrei, nell'anniversario della liberazione del campo di concentramento
di Auschwitz, data simbolo scelta nel 2000 dal Parlamento della Repubblica
Italiana, a memoria perpetua di una tragedia che ha visto perire per mano della
follia nazi-fascista 6 milioni di ebrei europei, di cui 7500 nostri fratelli
italiani"
La reazione dell’UCEI non si è
fatta attendere definendo la dichiarazione di colui che se fosse andata diversamente
esibirebbe in Italia il titolo di principe di Napoli, un “iniziativa tardiva che non cancella la
storia” come pubblicato da La Stampa il 25 gennaio. Le porte del Pantheon restano chiuse.
Vedremo cosa accadrà il 27
gennaio quando verificheremo quanto e se sia in attivo il bilancio del
superamento del millenario antisemitismo italiano ed europeo. Chi scrive
qualche dubbio in proposito lo nutre, avendolo tratto dai commenti
contrapposti circa l’estesa efficacia
della profilassi anticovid in Israele e le immancabili polemiche sulla presunta
discriminazione dei palestinesi circa la somministrazione del vaccino, riportate da Il Fatto quotidiano. “Non c’è pace tra gli ulivi” alla faccia
di chi continua a ritenere che dalla pandemia “usciremo migliori”.
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Ottobre 1981.
Una Renault-4
spartana di colore blu oceano ma impolverata dalle strade di mezza Europa,
percorre le strade della Germania Ovest. Il Muro c’è da venti anni e nessuno può immaginarne il crollo che lo avrebbe
interessato otto anni dopo. Una potente autoradio Autovox (estraibile)
sicuramente sovradimensionata rispetto alla vettura che la ospita, alterna il
brano del 1970 “Bridge over troubled
water” di Paul Simon ed Art Garfunkel - che poche settimane prima avevano
tenuto illoro più famoso concerto al
Central Park con oltre cinquecentomila spettatori - al racconto del mondo: il
tre di luglio era stata diffusa la notizia di un raro cancro dalle
caratteristiche sconosciute che sembrava colpisse soltanto le persone
omosessuali, era iniziata l’era dell’
AIDS; Il 29 luglio con una cerimonia da favola nella Cattedrale diSt Paul era stato celebrato il matrimonio
delsecolo tra Charles Philip Arthur
George Mountbatten-Windsor, principe di
Galles e Diana Spencer.
Il primo settembre IBM aveva
presentato il primo personal computer; il
6 ottobre il presidente egiziano Anwar Al-Sadat,
ritenuto reo di aver siglato gli accordi
di Camp David con Menachem Begin sotto l’egida di Jimmy Carter e che avevano fruttato ad entrambi il Premio
Nobel per la Pace nel 1978, era stato
ucciso durante un attentato di matrice fondamentalista dopo il quale sarebbe
andato al potere Hosni Mubarak, il faraone che avrebbe “regnato” per ventisei anni.
In Italia il “mostro” di Firenze
aveva straziato il 6 giugno la terza duplice coppia e il 22 la quarta, mentre la Polizia brancolava nel buio di uno
tra i tanti misteri della profonda provincia italiana, destinato a rimanere
tale. A Palazzo Chigi, Giovanni Spadolini da meno di tre mesi al suo primo governo
“pentapartito” con 262 deputati democristiani su 375 e 138 senatori del
medesimo partito su 315. PCI e Movimento sociale all’opposizione. Sarebbe
durato 421 giorni. Presidente della Repubblica, il socialista ed ex partigiano Sandro Pertini che aveva fustigato i corpi
dello Stato per le responsabilità nel terremoto dell’Irpinia l’anno precedente e commosso in giugno l’Italia sporgendosi sul
bordo del pozzo di Vermicino nella cui profondità si spegneva lentamente
Alfredino Rampi.
L’eco di quegli eventi
raggiungeva i due passeggeri della R-4, poco più che ventenni, in vagabondaggio
nuziale da due mesi nell’Europa occidentale ed ora sulle strade della Baviera
in direzione del castello di
Herrenchiemsee, forse il più eccentrico tra quelli voluti da Ludwig II .
All’uscita da Monaco, un cartello indicava la direzione verso la cittadina di Dachau, tra le tante dell’area meridionale del Land, una ventina di chilometri. Nessun riferimento ad altro, ma il nome suscitò subito ricordi di studi
ancora freschi poi diventati professione e ragione di vita. Eravamo ancora
sotto l’emozione della visita, giorni prima, alla casa di Anna Frank ad Amsterdam; ci
guardammo senza parlare e seguendo la fidata mappa stradale della Michelin,
raggiungemmo presto il centro città e subito dopo il sito del campo di
concentramento entrato in funzione già nel 1933 per gli oppositori politici e
poi per gli ebrei; fu usato a pieno
ritmo fino al 29 aprile del 1945 quando, a differenza di altri campi lasciati
ai pochi stremati superstiti, le ultime
SS provarono a resistere ai soldati americani.
Fu il primo lager su cui campeggiò per la prima volta la tremenda frase Arbeit macht frei tratta dal titolo del
romanzo morale di Lorenz Diefenbach del 1874 che narra di come il lavoro possa
riscattare i peggiori criminali. La
frase, somma di tutte le menzogne del nazismo, fu poi utilizzata come beffardo e tragico benvenuto
in tutti gli altri campi.
In quegli anni le visite al campo
di Dachau erano rare, per lo più ex reclusi con le famiglie. Nessun “turista”
niente ricostruzioni grafiche o proiezioni di filmati d’epoca. Solo un grande spazio spianato dove erano
state mantenute poche strutture: un paio di dormitori, la caserma delle SS e i
forni crematori a celle singole, con chiavistello. Delle baracche restava sul
terreno il segno del perimetro.
Intorno, un grande silenzio; su tutto, un cielo caliginoso e - così assicurò il
guardiano - perennemente grigio anche nelle giornate estive che in Germania
regalano spesso cieli limpidi e intensamente azzurri. Come se perfino il sole
avesse vergogna di mostrarsi in quel luogo di morte. Restammo alcune ore e non
riuscimmo a scambiarci alcuna parola. Nella sala dei forni lei pianse ed io
riuscii a nascondere l’emozione nella folta barba ma non il tremore delle
mani che in più occasioni rese “mosse”
le diapositive che ancora oggi, di tanto in tanto, rivedo. Saremmo tornati in Germania e in
Austria quasi ogni anno ma in qualunque regione ci trovassimo per vacanze o per
lavoro, il ricordo di Dachau non ci ha
mai abbandonato.
Nei mesi successivi quando
raccontavamo di quella visita non programmata, qualche amico particolarmente
spiritoso ci prese in giro per averla inserita in una luna di miele, ma quando anni dopo mostrammo ai nostri figli
adolescenti e che pure ne avevano viste
di simili in televisione, le immagini la cui
resa precaria mostrava i segni
delle emozioni provate, comprendemmo
cosa volesse dire tramandare direttamente ed in prima persona alle nuove
generazioni tutto, anche la memoria dell’orrore di cui erano state toccate con
le mani le rovine.
L’ultima tappa, prima della tratta
autostradale fino a Palermo, a quell’età ancora sostenibile in un’ unica
maratona automobilistica, fu Assisi. Pregammo per i tanti eventi che ci
avrebbero atteso in quelli che sono ormai quarant’anni di matrimonio, ma non dimenticammo di ricordare al Santo
della pace e della perfetta letizia quei bambini che gli erano volati incontro
a migliaia, confusi e impauriti, ancora
avvolti dal fumo dei camini.
Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1819, Museo del Louvre
Resilienti o
resistenti ?
Naufraghi in cerca di nuovi approdi.
di
Luigi Sanlorenzo (*)
Da qualche tempo la parola “ resilienza”
tenta di opporsi ai naufragi personali e
sociali dettati talvolta da scelte incaute o dal sopraggiungere di eventi
epocali, in parte imprevedibili, che travolgono
certezze, devastano territori e società, avvelenano l’ambiente e gli animi.
Il termine deriva dal latino
"resilire", che
letteralmente significa "saltare indietro". Di essa lo psicologo e
trainer sportivo Pietro Trabucchi, autore del libro di successo “Resisto dunque
sono” edito da Corbaccio, Milano, 2019, ha
dato la seguente definizione: “Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni
affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano
il gesto di tentare di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo «resalio». Forse il nome della qualità di
chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la
resilienza, deriva da qui.”
“C’è una buona notizia – ha
scritto nella presentazione Christian Zorzi, Medaglia d’oro alle Olimpiadi invernali
di Torino nel 2006- ora sappiamo con certezza che gli esseri umani sono stati
progettati per affrontare con successo difficoltà e stress. Discendiamo da
gente che è sopravvissuta a un’infinità di predatori, guerre, carestie,
migrazioni, malattie e catastrofi naturali. Noi siamo costruiti per convivere
quotidianamente con lo stress. A questo scopo possediamo dentro di noi, come un
dono, un insieme di risorse che abbiamo ereditato dal passato e che
costituiscono la nostra «resilienza».”
Trabucchi sostiene con certezza
che gli esseri umani sono stati progettati per affrontare con successo
difficoltà e stress. Gli uomini discendono da gente che è sopravvissuta a
un'infinità di predatori, guerre, carestie, migrazioni, malattie e catastrofi
naturali. Sono costruiti per convivere quotidianamente con lo stress.
A questo scopo gli uomini
possiedono, come un dono, un insieme di risorse che hanno ereditato dal
passato: è la "resilienza" ad essere la norma negli esseri umani, non
la fragilità; la "resilienza" psicologica è la capacità di persistere
nel perseguir obiettivi difficili, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà
relative.Il diario di Anna Frank o la vita di Nelson Mandela sono famosi esempi di resilienza.
L'individuo resiliente presenta
una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un ottimista e
tende a "leggere" gli eventi negativi come momentanei e circoscritti;
ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e
sull'ambiente che lo circonda; è fortemente motivato a raggiungere gli
obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come
un'opportunità, piuttosto che come una minaccia; di fronte a sconfitte e
frustrazioni tende a non perdere comunque la speranza. La
"resilienza" può essere potenziata, e l'autore, con esempi tratti dal
mondo dello sport metafora della vita e ambito da cui mutuare metodologie ed
esperienze - mostra come fare.
In psicologia,
la resilienza è un concetto che indica la capacità di fare fronte in
maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la
propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle
opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.
Sono persone resilienti quelle
che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta
contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare
nuovo slancio alla propria esistenza e persino a raggiungere mete importanti.
Il concetto di resilienza è stato
sviluppato negli anni '50 dallo psicologo americano Jack Block (1924-2010),
tramite uno studio a lungo termine sui bambini.
Ne “Il dolore meraviglioso”,
Boris Cyrulnik compie uno studio sistematico di una serie molto variegata di
casi di bambini sottoposti a traumi violentissimi - dai piccoli rinchiusi
negli orfanotrofi lager della Romania comunista, agli ex internati nei gulag sovietici, dai piccoli mutilati in guerra, alle
vittime di abusi sessuali - dimostra come le sofferenze in
tenera età non segnano per sempre il destino delle persone. Proprio nell'età
che la psicologia considera critica per la costruzione della personalità - fino
ai sei anni - i bambini hanno una capacità di resistenza ai traumi che l'autore
definisce, con un neologismo mutuato dalla fisica, resilienza: questo permette
anche ai più maltrattati di trovare autonomamente le risorse psicologiche per
reagire e quindi per strutturarsi una personalità sana.
Si può concepire la resilienza
come una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto
all'esperienza, al vissuto e, soprattutto, al modificarsi dei processi mentali
che ad essa sottendono.
Proprio per questo si rilevano capacità resilienti di tipo:
istintivo: caratteristico dei
primi anni di vita, quando i processi mentali sono dominati da egocentrismo e
senso di onnipotenza;
affettivo: rispecchia la
maturazione affettiva, il senso dei valori, il senso di sè e
la socializzazione;
cognitivo: quando il soggetto può
utilizzare le capacità intellettive simbolico-razionali.
Una resilienza adeguata è il
risultato dell'integrazione di tali elementi libidico- istintivi, affettivi, emotivi e cognitivi. La persona "resiliente"
può essere considerata quella che ha avuto uno sviluppo psico-affettivo e psico-cognitivo
sufficientemente integrati, sostenuti dall'esperienza, da capacità mentali
sufficientemente valide, dalla possibilità di giudicare sempre non solo i
benefici, ma anche le interferenze emotivo-affettive che si realizzano nel
rapporto con gli altri.
Il pedagogista Andrea Canevaro definisce la
resilienza come «la capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto
di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza
ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo una
dimensione che renda possibile la propria struttura».
È una capacità che può essere
appresa e che riguarda prima di tutto la qualità degli ambienti di vita, in
particolare i contesti educativi, qualora sappiano promuovere l'acquisizione di
comportamenti resilienti:
«La resilienza è la capacità di
un individuo di generare fattori biologici, psicologici e sociali che gli
permettano di resistere, adattarsi e rafforzarsi, a fronte di una situazione
di rischio, generando un risultato individuale, sociale e morale.»
Il sociologo e demografo belga Stefan Vanistendael ha elaborato il
modello della "Casita, che, raffigurando una casa, mette in scena e ordina i
diversi fattori della resilienza. sociale e di gruppo: quando un gruppo,
struttura sociale, istituzione o nazione forma strutture di coesione,
appartenenza, identità e sopravvivenza come strutture sociali illimitati o
complesse; sviluppa modi di affrontare quegli eventi e quelle situazioni che
mettono in pericolo il gruppo e l'identità, formando linee guida che
consentono la sopravvivenza, l'espansione e l'influenza del gruppo.
La "Casita di Stefan Vanistendael
Il terreno che con solidità deve reggere la casa. Esso rappresenta la nostra capacità di aver cura di noi stessi e
stesse, del nostro corpo, dei nostri bisogni di base.
Le fondamenta che danno stabilità alla casa. Esse rappresentano i valori fondamentali in cui crediamo, ciò che è per
noi non negoziabile, imprescindibile per sentirci bene con noi
stessi.
Il giardino che circonda la casa e che la connette con
l’esterno. Esso rappresenta i nostri incontri importanti, le nostre relazioni interpersonali
che contano.
Il salone al piano terra che è il cuore della casa. Esso rappresenta il senso che diamo alle cose che facciamo, il
perché del modo in cui viviamo.
Le stanze del primo piano che possiamo adibire a tante
cose e arredare in tanti modi. Esse rappresentano le mie attitudini, le mie competenze, le
mie capacità acquisite o innate.
E, infine, il sottotetto, il luogo dove un tempo, nelle case
contadine, veniva conservato il fieno che sarebbe stato utilizzato durante
l’inverno successivo. Nella "Casita della resilienza", esso rappresenta il luogo rivolto al
futuro, dove riporre i sogni e le aspettative di ciò che vorremmo fare un
domani, appena ne avremo la possibilità.
Applicato ad un'intera comunità ovvero
alla società anziché a un singolo individuo,
il concetto di resilienza si sta affermando nell'analisi dei contesti sociali
successivi a gravi catastrofi naturali o dovute all'azione dell'uomo quali, ad
esempio, attentati terroristici, rivoluzioni o guerre.
Vi sono processi economici e
sociali che, in conseguenza del trauma costituito da una catastrofe, cessano di
svilupparsi restando in una continua instabilità e, alle volte, addirittura
collassano, estinguendosi; in altri casi, al contrario, sopravvivono e, anzi,
proprio in conseguenza del trauma, trovano la forza e le risorse per una nuova
fase di crescita e di affermazione. Pertanto, la resilienza è anche un concetto
sociologico oltre che psicologico.
Un esempio del primo tipo è
quello della comunità del Polesine che, a seguito della grande alluvione del Po del 1951, non riuscì a
risollevarsi e subì una vera propria diaspora,
disperdendosi nell'ambito di un grande processo migratorio che si spinse, tra
l'altro, fino all' Australia. Altrettanto è accaduto in Sicilia dopo il terremoto del
Belìce del 1968 di cui abbiamo ricordato l’anniversario pochi giorni fa e di
quello dell’Irpinia nel 1980, di cui chi scrive fu testimone in qualità di
soccorritore scout, quando ancora la Protezione Civile nazionale era soltanto
un vago progetto.
La città di Firenze, al
contrario, pur avendo subito oltre 60 alluvioni dell' Arno nell'ultimo
millennio, molte delle quali di intensità assolutamente eccezionale, ha
conservato una straordinaria continuità nel tessuto economico, artistico e
architettonico. I fattori identitari, la coesione sociale, la comunità di
intenti e di valori costituiscono il fondamento essenziale della "comunità
resiliente". Analoga esperienza vissi durante il sisma del Friuli, quattro
anni prima dell’Irpinia, dove il
concorso solidale della popolazione restituì in pochi anni al territorio l’armonia
che sembrava perduta.
Infine, una breve nota di teoria
organizzativa. Il Resilience Engineering è un campo di
studio multidisciplinare che si occupa di sicurezza nei sistemi complessi e
connette la resilienza nel suo significato originario psicologico al mondo
economico. Un'organizzazione (impresa, azienda e contesti analoghi) è resiliente quando è in
grado di affrontare i rischi, cogliendo opportunità anche nelle situazioni
negative e rafforzandosi grazie alla risoluzione dei problemi. Sa quindi
evolversi uscendo positivamente da situazioni di crisi in quanto è capace di
gestire il cambiamento.
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Scagliata in tutte le direzioni come un esorcismo laico, diventata parte del
lessico politico, posta in esergo ad ogni piano di salvezza annunciato, “
resilienza” pare abbia preso il posto di “rinascita” “cambiamento” “resistenza”
per indicare una possibile via di uscita al travaglio che tormenta il mondo. Eppure,
mi chiedo quanto proprio la “laicità” del termine ne delinei il perimetro, segnandone
il limite.
In prossimità della Giornata
della Memoria, trovo doveroso rievocare la vita e il pensiero di Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – Lager di Flossenburg, 9 aprile 1945) il teologo luterano tedesco,
protagonista della resistenza al Nazismo. La sua opera più nota “Resistenza e Resa” , su cui buona parte della mia generazione si è formata, raccoglie le lettere ed altri testi scritti nel carcere berlinese di
Tegel, dove fu detenuto dall’aprile ’43 all’ottobre ’44; pur da recluso, Bonhoeffer
riesce a leggere, scrivere, riflettere, pregare, riceve pacchi dai familiari e
lettere, sia ufficialmente, sia clandestinamente.
Il libro inizia con un prologo:
si tratta di pagine offerte agli amici nel Natale ’42, nelle quali Bonhoeffer
traccia un bilancio degli ultimi dieci anni.
Alcune riflessioni appaiono già
straordinariamente profonde ed interessanti, fin da subito l’Autore si delinea
come persona che sa compromettersi, agire nella storia con coerenza, accettare
anche il pericolo: “Attendere inattivi e restare ottusamente alla finestra
non sono atteggiamenti cristiani” (p. 71). Vi è l’accettazione della
sofferenza, solo se inevitabile, in piena libertà sulle orme di Cristo.
Nella lettera del 21 febbraio ’44, Bonhoeffer si chiede dove sia il confine tra la “necessaria resistenza” e
la altrettanto necessaria resa al «destino», assumendo ad emblema
dell’una Don Chisciotte e dell’altra Sancho Panza di cui ho scritto pochi giorni
fa su queste pagine https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/profili-nel-tempo-dell-erranza-don.html
Ne deduce che il destino va
affrontato e, in caso, ci si debba sottomettere ad esso. “Possiamo parlare
di «guida» solo al di là di questo duplice processo; Dio non ci
incontra solo nel «tu», ma si «maschera» anche nell’«esso», ed il mio problema
in sostanza è come in questo «esso» («destino») possiamo trovare il «tu» o, in
altre parole,come dal «destino» nasca effettivamente la «guida».
I limiti tra resistenza e resa
non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l’una e l’altra
devono essere presenti e assunte con decisione. La fede esige questo agire
mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione
che di volta in volta ci si presenta” (p. 289).
Dapprima Bonhoeffer considera che ormai il mondo è diventato
adulto e può proseguire benissimo senza la presenza di Dio. Le varie
scienze, filosofie, il diritto, la politica si sono sganciati, nel corso del
loro sviluppo, dall’idea di Dio e sono divenute autonome, di conseguenza sono
valide «etsi Deus non daretur», come se Dio non ci fosse. L’uomo
basta a sé stesso e sembra cavarsela benissimo. Dio “viene sempre più
respinto fuori dalla vita e perde terreno” (p. 399).
Bonhoeffer osserva che
l’apologetica cristiana si è sempre schierata contro questa sicurezza del
mondo, mettendo in campo le «questioni ultime» (la morte, la colpa)
cui solo Dio può dare una risposta. Bonhoeffer ritiene che il progredire delle
scienze umane relega sempre più tali questioni in sottofondo, un giorno
anch’esse verranno risolte senza la presenza di Dio.
A questo punto sopraggiungono
quelli che Bonhoeffer chiama “gli epigoni secolarizzati della teologia
cristiana, cioè i filosofi esistenzialisti e gli psicoterapeuti, e dimostrano
all’uomo sicuro, soddisfatto, felice, che in realtà è infelice e disperato,
solo che non vuole riconoscere di trovarsi in una situazione sventurata, di cui
non sapeva nulla e da cui solo loro possono salvarlo”(p. 399).
Questi attacchi al mondo adulto
vengono fortemente criticati da Bonhoeffer.
Il risultato è una visione
di Dio come «tappabuchi», che interviene nelle condizioni di debolezza
dell’uomo e sembra approfittarne per insinuarsi nel mondo, accontentandosi così
di una posizione marginale, defilata e legata non alla pienezza dell’essere
umano, ma ai suoi aspetti più precari.
“Le persone religiose parlano di
Dio quando la conoscenza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata
alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che
chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a
problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre
dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo
inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie
forze non spingono i limiti un po’ più avanti, e il Dio inteso come deus
ex machina non diventa superfluo […] …io vorrei parlare di Dio non ai
limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in
relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo.
Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile.
La fede nella resurrezione non è la «soluzione» del problema della
morte. L’«aldilà» di Dio non è l’aldilà delle capacità della nostra conoscenza!
La trascendenza gnoseologica non ha nulla a che fare con la trascendenza di
Dio.
È al centro della nostra vita che
Dio è aldilà. La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai
limiti, ma sta al centro del villaggio” (pp. 350-51).
La religione lavora
molto sulla sola interiorità umana, sui limiti, invece per Bonhoeffer conta
molto la liberazione della storia, la religione è legata all’apologetica, ai
limiti umani, a un Dio depotenziatore dell’uomo, onnipotente, un Dio che il
mondo, ormai indipendente, rifiuta sempre più. Che cosa proporre allora, se non
si vuole eliminare totalmente Dio dall’orizzonte umano?
Il discorso passa attraverso Gesù
Cristo. “La speranza cristiana della resurrezione si distingue da quelle
mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra
in modo del tutto nuovo e ancora più forte che nell’Antico Testamento. Il
cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene
nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino
in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo («mio Dio, perché mi hai
abbandonato?») e solo così facendo il crocifisso e risorto è con lui ed egli è
crocifisso e risorto con Cristo. L’aldiquà non deve essere soppresso
prematuramente. Nuovo e Antico Testamento restano concordi. I miti della
redenzione nascono dalle esperienze umane del limite. Cristo invece afferra
l’uomo al centro della sua vita” (p. 412).
La proposta è quella di un
cristianesimo molto umano, calato nella terra e nell’uomo, totalizzante. Alle
volte sembra che la «pars destruens »
del discorso bonhoefferiano sia più forte di quella «costruens», in realtà Bonhoeffer non ha mai smesso di essere un
credente, a costo di risultare scomodo e ne ha dato profonda testimonianza con
la sua vita.
“Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla
croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al
fianco e ci aiuta. […] Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi
religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla
potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia
l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio, solo il Dio sofferente può
aiutare” (p. 440).
Bonhoeffer constata che Gesù
ha “chiamato fuori” gli uomini dai loro peccati, non “ve li ha fatti entrare”,
si è preso cura di emarginati, di poveri, di prostitute e pubblicani, ma non
solo di loro, non ha mai messo in questione salute e felicità, né le ha
condannate,ma anzi ha sempre guarito. Ha voluto per sé la vita umana
tutt’intera, completa.
Il discorso sull’ “antropos
teleios”, l’uomo intero, era stato accennato da Bonhoeffer ancora nel gennaio
’44, basandosi sul versetto di Matteo 5, 48 “Dovete essere completi, come è
«completo» il Padre vostro nei cieli”, sottolineando come, per un cristiano,
tutti i vari eventi dovessero essere riportati a un comune denominatore,
non ci dev’essere una frammentazione, un fermarsi al dato contingente, ma un
rivolgersi sempre a una dimensione unitaria, a un grande progetto del
quale si vedrà lo scopo. Nel maggio ’44, sotto i bombardamenti che si facevano
sempre più frequenti, egli osserva come la maggioranza dei suoi compagni si
soffermi di solito agli affanni immediati (fame, paura, disperazione), ma non è
quella la direzione giusta per affrontare la situazione.
“Nella misura in cui ad esempio
nel corso di un allarme veniamo spinti in una direzione diversa da quella della
preoccupazione per la nostra sicurezza personale, cioè ad esempio nell’impegno
di diffondere tranquillità intorno a noi, la situazione diventa completamente
diversa; la vita non viene ridotta ad una sola dimensione, ma resta
pluridimensionale-polifonica. Quale liberazione è poter pensare e
conservare nel pensiero la pluridimensionalità!” (pp. 381-82).
Caduta la religione, viene da
chiedersi a questo punto che cosa possa distinguere i cristiani nel mondo,
essi devono vivere «mondanamente», non tralasciare alcun aspetto della vita,
godere e soffrire considerando ogni evento un dono di Dio: “Essere
cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa
di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa
metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma
un uomo” (p. 441).
La ponderosa testimonianza rappresentata
dal carteggio di Bonhoeffer può venir letta su piani diversi:
teologicamente rivela idee innovative, profonde, che purtroppo non hanno potuto
venir riunite in una trattazione organica come l’Autore aveva progettato,
umanamente costituiscono un documento molto toccante sul modo in cui Bonhoeffer
ha vissuto l’esperienza tragica del nazismo e della prigionia, alla luce sempre
della sua fede, con un impegno convinto, costante, coraggioso che l’ha portato
ad affrontare anche il patibolo con serenità, secondo quanto riferito dal
medico del campo: “Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni non ho
mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio” (p. 502).
Quella che si delinea
nell’epistolario è la figura di un uomo giusto e retto, fedele fino alla
fine al proprio ideale, capace di coltivare rapporti umani bellissimi e
di livello molto alto, basti vedere la fraterna amicizia con Bethge, un uomo
colto e raffinato, dotato di straordinaria profondità di pensiero e di
enorme forza morale, che ha saputo resistere alla barbarie e al male.
Una resistenza immersa nella
storia (Bonhoeffer prese parte al complotto contro Hitler e si offrì
personalmente per uccidere il tiranno, disposto poi a renderne conto a Dio), ma
costituita anche dalla precisa volontà di non lasciarsi travolgere dallo
sconforto e dall’abbattimento della prigionia, cercando sempre un significato
più alto nei fatti contingenti e conservando, pur nella sofferenza, la
speranza nonostante la nostalgia e l’isolamento.
Nella grande «polifonia»
della vita esiste un «cantus firmus» costituito da Dio, che non
toglie nulla all’esperienza terrena o all’amore umano, ma lo valorizza e ne fa
il suo contrappunto, “anche il dolore e la gioia appartengono alla
polifonia della vita nel suo complesso, e possono sussistere autonomamente
l’uno a fianco all’altra” (p. 375).
In sintesi, la lettura è decisamente impegnativa sia per gli argomenti trattati,
sia per gli innumerevoli spunti di riflessione e gli interrogativi che essa
pone, sia per la mole dell’epistolario (circa 500 pagine), è un percorso da
farsi gradualmente, interiorizzandone i contenuti poco per volta.
Bonhoeffer è stato sicuramente un
uomo che ha saputo pensare in grande, senza fermarsi ad un orizzonte ristretto,
nella convinzione che, pur nell’infinita frammentarietà dell’esistenza, vi sia
alla fine uno scopo e un compimento più alto capace di dare un senso a tutti
gli eventi ,anche ai più negativi. Di fronte alle sue parole rimane
il rimpianto che un’umanità così autentica e un’intelligenza così brillante
siano state spente anzitempo dal male e dalla barbarie.
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Resilienti o resistenti, siamo
tutti naufraghi.
A differenza di quanto hanno narrato le
grandi opere della letteratura mondiale traendone spunto per storie indimenticabili, https://www.linkiesta.it/2020/09/robinson-crusoe-naufragio-bussola/, il naufragio contemporaneo non ha nulla di epico. Oggi si è fatto deriva, condizione di
vita, angoscia e devianza, ricerca perenne ed inquieta di mancati approdi e tutti siamo Robinson,
alla ricerca di una mitica Dryland.Per
trovarla dovremo diventare mutanti, dovremo cioè sviluppare inedite branchie
che ci permettano di acquisire sentimenti nuovi, di percepire nuovi orizzonti,
di muoverci, mobilis in mobile come
recitava il motto del Nautilus immaginato da Jules Verne, negli ambienti in
continua trasformazione.
Se non lo faremo, se resteremo aggrappati a navi che
affondano, senza il coraggio di andare “per
l’alto mare aperto” regaleremo il mondo ai tanti smokers che vorrebbero ammaliarci anche in questi giorni con
promesse che sanno già di non mantenere,per strapparci dalle mani e dalla
mente la mappa della speranza.
Trailer del film Waterworld, 1995, diretto da Kevin Reynolds