23 luglio, 2022

Scrittori su Nuovi Approdi. Salvatore Sutera.

 

(immagine dal sito XXI secolo)

Il pallone

di Salvatore Sutera (*)


Una striscia di terra, in cui solo il fango e la neve ormai indurita lasciavano indovinare il tracciato di quella che sino a pochi giorni prima era una stata una via di comunicazione, divideva un esiguo gruppo di soldati russi da ciò che rimaneva di una decina di povere case bombardate qualche giorno prima. Tra quei ruderi un giovane soldato ucraino montava la guardia al nulla.

Il pallone era lì, sul ciglio di un cratere causato dal proiettile di un carro armato. Tutt’intorno lamiere contorte, vetri esplosi in una miriade di frammenti simili alle tessere di un mosaico improvvisamente disfattosi, una bombola del gas, delle pentole, stoviglie, dei libri, alcuni giocattoli che non avrebbero mai più rallegrato il volto di tanti bambini. Un materasso pencolava dal primo piano di una casa sventrata, trattenuto appena dalla rete del letto che sembrava non volesse lasciarlo andar via. Sparse ovunque delle foto che ricordavano la storia di intere famiglie, accartocciate, bruciate, carte morte come i soggetti in esse rappresentati. Solo il pallone era sano, senza un graffio, luccicante di grasso. Sembrava non avesse mai ricevuto un calcio in vita sua.

Il soldato ucraino era a pochi passi da quella sfera illuminata dalla luce della luna. Dal suo rifugio continuava ad osservarla, attento però a qualsiasi movimento provenisse dal fronte avversario. I suoi superiori lo avevano lasciato di guardia alle rovine di quel villaggio come se avesse dovuto difendere il tesoro di Stato.

Fino a poche ore prima era rimasto in compagnia della sua solitudine, poi erano giunti quei russi che si erano posizionati dietro il vicino boschetto. Non avanzavano, si limitavano ad sorvegliare la zona. Temevano che tra quelle case fossero appostati i soldati ucraini e così attendevano ordini che sembravano non arrivare.

Dopo aver dato un ultimo sguardo in giro, il militare tornò a osservare il pallone.

Misurò ad occhio la distanza: solo una decina di metri lo separavano dalla sfera. Nessuno in giro, almeno così sembrava. Tornò a sedersi dietro un muro sfregiato e appoggiò per terra il fucile tra le gambe incrociate; stiracchiò le braccia allungandole verso l’alto, poi si alzò nuovamente. Come era stancante quella mancanza di azione!

Fece qualche passo e toccò timidamente il pallone con la punta del piede; la lucidissima sfera fece un mezzo giro in avanti, poi, con una tecnica affinata da anni, la fece salire sul collo del piede e cominciò a palleggiare. Nonostante gli scarponi militari il suo controllo era perfetto; il pallone sembrava danzare ora sul piede destro ora sul sinistro, poi sulle cosce, la testa, gli omeri. Fino a poche settimane prima del suo arruolamento era stato un calciatore professionista, militante nella prima serie, acclamato dalla folla come un novello gladiatore, amato dalle donne, idolo di tanti ragazzini. 

Quando correva veloce come il vento verso il portiere avversario sembrava che una forza inarrestabile lo spingesse, facendogli inventare dribbling, tunnel, cambi di passo che confondevano i difensori; poi, trovato un varco nella difesa avversaria, calciava con una straordinaria potenza verso la porta. 

 Quanti goal aveva segnato in quell’ultimo campionato interrotto dall’invasione russa! Per due stagioni consecutive era stato il capo cannoniere e sicuramente anche quell’anno sarebbe stato incoronato con quel titolo, ma le cose erano andate diversamente!

Molti suoi compagni di squadra erano stati uccisi, e assieme a loro tanti tifosi, arruolatisi volontari per difendere il proprio Paese, giacevano adesso insepolti tra il fango e le pietre, con gli occhi sbarrati a guardare un’ultima volta il cielo color piombo dal quale planavano lentamente fiocchi di candida neve, o con le mani strette attorno a quella terra che avevano deciso di difendere fino alla morte.

Il soldato continuava a palleggiare con stile, elegante come una scultura greca, simile ad un eroe mitologico, lontano, con la mente, dal fetore di morte che ammorbava l’aria. Il pallone sembrava incollato ai suoi piedi, e la luna, sempre più spendente contro il cielo freddo della sera, sembrava emanare la stessa luce di  quei potenti fari che  illuminavano il campo di calcio durante gli incontri in notturna.

Ad un tratto il rapido battere di ali di un uccello lo distrasse e la palla cadde per terra, rotolando poi lungo il leggero declivio che scendeva verso la strada che costeggiava il boschetto. Pericoloso scendere per riprenderla, il nemico era nascosto a breve distanza, dietro quegli alberi, e con quella luce sarebbe stato un bersaglio fin troppo facile. Si rassegnò. In fondo - si disse - anche per pochi minuti aveva goduto della normale quotidianità della sua vita di un tempo. Fece spallucce e stava tornando verso il suo rifugio quando sentì un leggero rumore dietro di lui. Si girò improvvisamente temendo di avere il nemico alle spalle, alzò il fucile pronto a far fuoco quando, con sorpresa, si rese conto che il pallone era tornato da lui. E come poteva essere? 

Sospettoso volse lo sguardo tutt’attorno: nessuno. Si udiva soltanto il respiro del vento freddo che agitava i rami dei vicini alberi e penetrava fin dentro le ossa. Ad un tratto, a circa trenta metri di distanza, alla base della leggera china lungo la quale era scivolato il pallone, scorse una figura in controluce. Un soldato, un nemico! Immediatamente si appiattì a terra dietro alcune travi di legno, pronto a far fuoco. Accidenti, pensò, quell’imprudenza avrebbe potuto costargli cara! Rimase in silenzio con l’uomo inquadrato nel mirino del fucile quando udì la voce del militare russo che gli gridava: “Ti ho riconosciuto, campione! Palleggia ancora, ti prego…era uno spettacolo bellissimo!”.

Quel soldato doveva avere la sua stessa età, almeno a giudicare dalla voce chiara e acuta; sicuramente lo aveva visto giocare tante volte, aveva esultato con lui per un goal o si era morso le dita per una rete mancata per un soffio.

La lama tagliente del vento continuava a incunearsi tra le case di quel villaggio, un luogo senza vita dove anche il tempo, morti gli uomini,  sembrava non aver motivo di continuare a scorrere. Morto anche lui.

Lontano si udiva l’abbaiare di un cane.  Niente sembrava esistere al di fuori di quei due giovani soldati nemici e un pallone, in una notte in cui il confine tra la vita e la morte, tra un colpo di tacco e uno di fucile era sottilissimo.

Ebbene, se quella doveva essere la sua ultima ora, pensò il calciatore, sarebbe morto senza rimpianti, stagliandosi contro quell’enorme luna dalla luce abbacinante e col pallone ai piedi.

Posò il fucile, si alzò e si apprestò a compiere il suo numero davanti ad un soldato nemico. Nemico? Quella breve striscia di terra che divideva due uomini legati dall’amore per il calcio, dalla voglia di tornare a vivere, nonostante tutto, accorciava ogni distanza, eliminava i sentimenti di odio, annullava ogni credo politico.

Aveva deciso: il campione avrebbe ritrovato la sua anima sfoderando il suo repertorio da funambolo, l’uomo avrebbe riacquistato la sua libertà; lo avrebbe fatto per se stesso e per quell’unico spettatore.

Accarezzò il pallone e lo mise in una posizione comoda. Dopo il primo tocco, la sfera cominciò a volteggiare senza peso, leggera come una farfalla, morbida come una carezza, attaccata ai piedi come se una forza invisibile ve la tenesse incollata.  Era uno spettacolo vedere quel giovane in divisa palleggiare in quel teatro di morte, lasciarsi rapire dai suoi movimenti fluidi e perfetti, dalle sue pose plastiche.

“Tira, campione!” lo incitò dopo qualche minuto il russo, e il soldato ucraino, come obbedendo ad un ordine del suo allenatore, sparò una bordata che mandò il pallone altissimo, svettando verso il cielo a cercare l’abbraccio della luna. Sembrava che la sua corsa non dovesse più arrestarsi. Il pallone, quasi sfidando le leggi di gravità, continuò a salire rubando la luce alle stelle, una luce di speranza da donare ad una stupida umanità che non aveva ancora dimenticato di discendere da Caino e Abele.

“Bravo!” gridò il soldato russo.

“Grazie!” rispose semplicemente il soldato ucraino, poi tornò al suo rifugio.

Adesso tutto era silenzio. Anche la voce del vento si era spenta per ascoltare il battito di due cuori sotto due diverse uniformi.

Da una piccola costruzione poco distante, con un binocolo il comandante di quel drappello aveva osservato tutta  la scena.  “Che schifo le guerre!” sospirò. 

Sputò per terra e accese una sigaretta.


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(*) Note sull'autore


Salvatore Sutera è nato a Palermo. Laureato in Filosofia e diplomato in canto al Conservatorio "Duni" di Matera, didatta di tecnica vocale, da sempre coltiva l’amore per la musica lirica.   Per la casa editrice Leima ha pubblicato "Vento di Scirocco" sua opera prima, raccolta di otto racconti, giunta alla seconda edizione, e il romanzo "L’avventura di due garibaldini per caso" secondo classificato al Premio Nazionale Isola 2018 - Pino Fortini. Entrambi, oltre che su territorio nazionale, sono stati presentati anche a Ginevra.

Per la casa editrice Azzali, di Parma, ha pubblicato il volume "Anche un basso può volare…alto" e "Ho brillato in un cielo di stelle" dedicati alla figura del celebre basso-baritono siciliano Simone Alaimo.

L’ultima sua fatica letteraria è "Una calda scia di sangue" edita da Leima nell’agosto del 2021. Su "Nuovi Approdi" ha pubblicato il racconto "Lo sciopero d'i' gnuri". 

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/scrittori-su-nuovi-approdi-salvatore.html

Contatti: e.mail totisutera@libero.it

  



 

 

11 luglio, 2022

"Omofobo? No, però..."

                     


di  Massimo Pullara (*)


Capita sempre più spesso di leggere, in riferimento allo svolgimento dei cortei in occasione del Gay Pride, richieste di spiegazioni "giuridiche e normative" (o altre "scuse") per contestare atteggiamenti e costumi ritenuti contrari al buon gusto e alla decenza.

"Scuse", appunto...che nascondono, a mio personale giudizio e timore, ben altro!

E allora provo a dare un umile contributo.

Al di là del fatto che ritengo aberrante porre la questione...a livello giuridico, nel corso degli ultimi anni le interpretazioni sembrano essere univoche: il riferimento normativo è l'Art. 21 della Costituzione (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione....")

Dopo di che, qualcuno si spinge oltre e fa riferimento al concetto della "violazione delle norme del buon costume": come è noto il "buon costume" è un principio strettamente legato al contesto temporale, ai tempi e ai costumi della società. L'assenza del limite di oscenità e di buon costume deve essere sempre conforme al senso di umanità e ai diritti inalienabili, indisponibili e imprescrittibili di cui ogni essere umano è titolare. 

E lo dice la Costituzione! Basta leggerla!!!!

Sarebbe sufficiente questo per chiudere ogni discussione.

Aggiungo invece che i Gay Pride non sono contrari al buon costume ma manifestazioni autorizzate e molto spesso patrocinate da Comuni e Regioni, e a ciò si aggiunge che in alcune città vengono effettuati, come è noto, ogni anno.

Appare dunque ovvio, ed evidente, che la contestazione è priva di fondamento, anche perché significherebbe affermare che ogni Sindaco, o altro soggetto, che autorizzi sarebbe compiacente nel favorire manifestazioni contrarie al buon costume. E così non è!
Ripeto: porrei l'accento, piuttosto, sul perchè vengono poste simili questioni.

Un modo ritenuto "elegante" per nascondere in realtà una fobia, sperando di non esserne tacciati?

E, in ultimo, poniamoci l'unica, vera domanda possibile: perchè oggi c'è ancora la necessità di organizzare manifestazioni per ribadire e rivendicare il rispetto di diritti inalienabili?

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(*) Giornalista professionista. Docente di giornalismo. Conduttore TGS.

Socio PRUA https://www.associazioneprua.it/socio-massimo-pullara/



10 luglio, 2022

Palermo e la memoria: una lacuna da colmare.

Un caffè col Gattopardo

di Luigi Sanlorenzo (*)


Nel 2023 ricorreranno  sessantacinque anni dalla pubblicazione postuma della prima edizione de "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, una delle opere letterarie del’900 più tradotte nel mondo e fonte di ispirazione dell’omonimo capolavoro cinematografico di Luchino Visconti.

Il libraio palermitano Salvatore Fausto Flaccovio inviò a Vittorini il 27 marzo 1957 il dattiloscritto del Gattopardo accompagnandolo con un suo commento molto positivo “... c’ è nel romanzo, almeno così ritengo, qualcosa di più: un senso cosmico smarrente dell’oblio e della pace, quasi una stanchezza di vivere, un distacco dalla lotta e dalle sue infatuazioni, un bisogno di assolute certezze che né gli eventi né i sentimenti possono dare ...”.

Tuttavia la pubblicazione dell’opera fu respinta nel 1956 da Elio Vittorini, consulente prima per Mondadori e, nel 1957,  per Einaudi, con una lettera dal seguente tenore

 

“Egregio Tomasi, il Suo Gattopardo l’ho letto davvero con interesse e attenzione. Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto vecchiotto, da fine Ottocento, il Suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica. Tuttavia, devo dirLe la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti. Voglio dire che seguendo passo passo il filo della storia di Don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare… il racconto di un’epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell’epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del Principe alle modificazioni politiche e sociali di quell’epoca. Il linguaggio, più che le scene e le situazioni, mi pare riveli meglio, qua e là, il prevalente interesse saggistico-sociologico del romanzo. Queste, in definitiva, sono le mie impressioni di lettore e gliele comunico pensando che, in qualche modo, potrebbero anche interessarLe”.

L’autore di "Uomini e no" e di "Conversazione in Sicilia" ripeté il giudizio di condanna de "Il Gattopardo innumerevoli volte"  non volle mai cambiare parere sul libro di Tomasi di Lampedusa, mentre invece cambiò idea, pentendosi, su "Il Dottor Zivago" di Boris Pasternak e su "Il Tamburo di latta" di Günter Grass, da lui entrambi respinti, intorno a quegli  anni (1958-1959).

Bizze letterarie ? Faziosità politica ? O forse uno degli effetti del clima della guerra fredda che coinvolgeva anche gli intellettuali più noti nello scontro per l’egemonia culturale. Una sorta di maccartismo al contrario !

Venuto per caso a conoscenza del manoscritto,  Giorgio Bassani invece si adoperò molto per convincere l’editore Giangiacomo Feltrinelli a pubblicarlo nella collana “Biblioteca di letteratura”, che lo scrittore ferrarese dirigeva. 


E questo perché Bassani, che si apprestava ad indagare l’aristocratica psicologia dei Finzi-Contini, coglieva  nel libro dello sconosciuto autore siciliano argomenti e temi esistenziali che già avevano improntato le sue storie ferraresi. 


Si riconosceva nella scrittura mai enfatica e dal registro ironico di Tomasi di Lampedusa, nella delusione e nel pessimismo di chi non crede alla favola del Risorgimento incarnata nell’avidità, nella rozzezza e nella vanità dei tanti Calogero Sedàra sparsi nello Stivale, moralmente e politicamente poveri, non in grado di mettere l’Italia al passo con l’Europa moderna. Pessimismo non nostalgico e nemmeno sterile perché ci fa percepire che la realtà storica è assai complessa e non sempre coincide col miglioramento della società.


Il Gattopardo, primo best seller italiano del ‘900,   vinse il premio Strega nel '59,  battendo "La casa della vita" di Mario Praz, "Una vita violenta" di Pier Paolo Pasolini e ritrovandosi al centro di uno dei più accesi casi letterari "politici" del Novecento italiano, accusato, tra l’altro, con miopia di essere un romanzo di ''destra". Venne poi la consacrazione assoluta con l’uscita dell’omonimo film di Luchino Visconti, girato nel 1963 a Palermo e a Ciminna,  vincitore della Palma d'Oro come miglior film al 16° Festival di Cannes e selezionato tra i 100 film italiani da salvare..

Il romanzo,  su cui sono state scritte migliaia di pagine di critica, fu steso dall’autore sedendo ad un tavolino all’interno del Bar Mazzara, tra Piazzale Ungheria e via Generale Magliocco. Lo storico locale  ha chiuso i battenti nel 2014 come pure l’adiacente Ristorante Charleston. 

Il distinto signore intento a riempire rigorosamente a mano  i quinterni di carta protocollo divenne  una figura familiare per i palermitani che frequentavano la zona e  molti dei quali ne conoscevano l’estrazione aristocratica e il carattere schivo e riservato “ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone” ( I racconti, 5ª ediz., Milano 1993, p. 53.)

Al termine della giornata rientrava nell’abitazione di Palazzo Butera dove si era trasferito dopo la totale distruzione nel 1943 della residenza palermitana della famiglia nella strada che oggi ne porta il nome, a fianco dell’attuale Palazzo Branciforte, attuale sede della Fondazione Sicilia.

Nel grande appartamento affacciato sul mare di Palermo lo attendeva Alexandra Wolff  Stomersee, l’aristocratica psicoanalista lettone sposata nel 1932 a Riga.  Nel 1953 Tomasi di Lampedusa aveva iniziato a frequentare un gruppo di giovani intellettuali, dei quali facevano parte Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Tomsi  Mazarino. Con quest'ultimo instaurò un buon rapporto affettivo, tanto da adottarlo qualche anno dopo. Da quel momento in poi l'illustre musicologo fu Gioacchino Lanza Tomasi.

Stroncato da un male incurabile, curiosamente Giuseppe Tomasi di Lampedusa morì lontano da casa come il suo antenato protagonista de Il Gattopardo, il 23 luglio 1957 a Roma nella casa della cognata in via San Martino della Battaglia n. 2, dove era andato per sottoporsi a particolari cure mediche che si rivelarono inefficaci. La salma fu inumata il 28 luglio nella tomba di famiglia al Cimitero dei Cappuccini di Palermo dove nel 1982 lo raggiunse la moglie.

Nell’anno in cui Palermo è stata Capitale italiana della Cultura, a sessant’anni dalla pubblicazione de Il Gattopardo,  nonostante le sollecitazione di chi scrive riportate nel corso di alcune interviste rilasciate a TRM e a Live Sicilia, a quanto pare non  apparve opportuno ricordare un grande interprete  del passaggio d’epoca del proprio tempo,  come lo era stato il protagonista del romanzo alle soglie dell’Unità d’Italia.

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Nella città che sovente ha coltivato una memoria selettiva e, spesso a senso unico, sarebbe ora il caso di colmare quella grave lacuna e, unitamente ad ogni iniziativa che l’Università degli Studi  o altre istituzioni amministrative e  culturali vorranno promuovere, potrebbe essere considerata la realizzazione di una scultura dinamica a grandezza naturale dell' autore, intento a scrivere il romanzo ad uno dei tavolini del Bar Mazzara, altro luogo legato alla memoria dei palermitani. L’istallazione potrebbe valorizzare ulteriormente l'isola pedonale di via Generale Magliocco.  

Con modalità analoghe in altre parti del mondo sono ricordati Sciascia a Racalmuto, Andersen in Central Park a N.Y, Wilde a Galway, Joyce a Trieste, Pessoa a Lisbona e lo stesso Tomasi di Lampedusa a Santa Margherita Belice (TP).

 Sarebbe insomma come prendere un caffè con il Gattopardo !

Tutto così non finirebbe col passare del tempo in “un mucchietto di polvere livida”. Sarebbe invece una grande soddisfazione per i palermitani di ieri e di oggi, un ricordo duraturo per quelli di domani, una gradita sorpresa per le migliaia di turisti richiamati in città anche dalla fama quel grande romanzo e un grande tributo di gratitudine per un autore immortale di cui Carlo Bo nel 1959 scrisse:

“La verità Tomasi l’ha studiata per conto suo e l’ha studiata in loco, soltanto frapponendo fra il dominio della natura e l’indagine interpretativa lo schermo della lontananza, adoperando la distanza come prima immagine del tempo. Solo così, grazie a questo stratagemma, la sua Sicilia del 1860-1880 assomiglia come una goccia d’acqua alla Sicilia d’oggi e meglio ancora il mondo che ci descrive corrisponde con le sue ansie, i suoi tormenti, con le se ombre chiuse e inviolabili al mondo in cui viviamo noi: ciò significa che il primo obiettivo d’ogni romanzo, la storia dell’uomo, è stato rispettato e affrontato con serietà, permettete come una necessità e non come un divertimento. Forse è per questa ragione che sin dalla prima lettura ci è sembrato che il romanzo dell’isolato e dell’irregolare Tomasi si mettesse da una parte, seppellendo senza volerlo troppa letteratura sperimentale fatta per compito e non per ordine interiore di libertà e di sincerità.”

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Nota a margine.

L'Assemblea dei soci di P.R.U.A https://www.associazioneprua.it/organi-associativi/ ha  deliberato circa l'iniziativa nel settembre scorso ed avviato già da tempo ogni utile interlocuzione con i soggetti istituzionali e della Cultura per realizzare l'istallazione attiva "Un caffè col Gattopardo" e nei giorni scorsi tutti si sono dichiarati disponibili a collaborare secondo le proprie competenze. Sembra possibile che il 65° anniversario della pubblicazione del romanzo possa essere finalmente decisivo.


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(*) Giornalista e saggista. Presidente Associazione PRUA

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/