(immagine dal sito XXI secolo) |
Il pallone
di Salvatore Sutera (*)
Una striscia di terra, in cui solo il fango e la neve ormai indurita lasciavano indovinare il tracciato di quella che sino a pochi giorni prima era una stata una via di comunicazione, divideva un esiguo gruppo di soldati russi da ciò che rimaneva di una decina di povere case bombardate qualche giorno prima. Tra quei ruderi un giovane soldato ucraino montava la guardia al nulla.
Il
pallone era lì, sul ciglio di un cratere causato dal proiettile di un carro
armato. Tutt’intorno lamiere contorte, vetri esplosi in una miriade di frammenti
simili alle tessere di un mosaico improvvisamente disfattosi, una bombola del
gas, delle pentole, stoviglie, dei libri, alcuni giocattoli che non avrebbero
mai più rallegrato il volto di tanti bambini. Un materasso pencolava dal primo
piano di una casa sventrata, trattenuto appena dalla rete del letto che
sembrava non volesse lasciarlo andar via. Sparse ovunque delle foto che
ricordavano la storia di intere famiglie, accartocciate, bruciate, carte morte
come i soggetti in esse rappresentati. Solo il pallone era sano, senza un
graffio, luccicante di grasso. Sembrava non avesse mai ricevuto un calcio in
vita sua.
Il soldato ucraino era a pochi passi da
quella sfera illuminata dalla luce della luna. Dal suo rifugio continuava ad
osservarla, attento però a qualsiasi movimento provenisse dal fronte
avversario. I suoi superiori lo avevano lasciato di guardia alle rovine di quel
villaggio come se avesse dovuto difendere il tesoro di Stato.
Fino a poche ore prima era rimasto in
compagnia della sua solitudine, poi erano giunti quei russi che si erano
posizionati dietro il vicino boschetto. Non avanzavano, si limitavano ad
sorvegliare la zona. Temevano che tra quelle case fossero appostati i soldati
ucraini e così attendevano ordini che sembravano non arrivare.
Dopo aver dato un ultimo sguardo in giro, il militare tornò a osservare il pallone.
Misurò ad occhio la distanza: solo una decina di metri lo separavano dalla sfera. Nessuno in giro, almeno così sembrava. Tornò a sedersi dietro un muro sfregiato e appoggiò per terra il fucile tra le gambe incrociate; stiracchiò le braccia allungandole verso l’alto, poi si alzò nuovamente. Come era stancante quella mancanza di azione!
Fece qualche passo e toccò timidamente il pallone con la punta del piede; la lucidissima sfera fece un mezzo giro in avanti, poi, con una tecnica affinata da anni, la fece salire sul collo del piede e cominciò a palleggiare. Nonostante gli scarponi militari il suo controllo era perfetto; il pallone sembrava danzare ora sul piede destro ora sul sinistro, poi sulle cosce, la testa, gli omeri. Fino a poche settimane prima del suo arruolamento era stato un calciatore professionista, militante nella prima serie, acclamato dalla folla come un novello gladiatore, amato dalle donne, idolo di tanti ragazzini.
Quando correva veloce come il vento verso il portiere avversario sembrava che una forza inarrestabile lo spingesse, facendogli inventare dribbling, tunnel, cambi di passo che confondevano i difensori; poi, trovato un varco nella difesa avversaria, calciava con una straordinaria potenza verso la porta.
Quanti goal aveva segnato in quell’ultimo campionato interrotto dall’invasione russa! Per due stagioni consecutive era stato il capo cannoniere e sicuramente anche quell’anno sarebbe stato incoronato con quel titolo, ma le cose erano andate diversamente!
Molti suoi compagni di squadra erano stati
uccisi, e assieme a loro tanti tifosi, arruolatisi volontari per difendere il
proprio Paese, giacevano adesso insepolti tra il fango e le pietre, con gli
occhi sbarrati a guardare un’ultima volta il cielo color piombo dal quale planavano
lentamente fiocchi di candida neve, o con le mani strette attorno a quella
terra che avevano deciso di difendere fino alla morte.
Il soldato continuava a palleggiare con stile,
elegante come una scultura greca, simile ad un eroe mitologico, lontano, con la
mente, dal fetore di morte che ammorbava l’aria. Il pallone sembrava incollato
ai suoi piedi, e la luna, sempre più spendente contro il cielo freddo della
sera, sembrava emanare la stessa luce di
quei potenti fari che
illuminavano il campo di calcio durante gli incontri in notturna.
Ad un tratto il rapido battere di ali di un uccello lo distrasse e la palla cadde per terra, rotolando poi lungo il leggero declivio che scendeva verso la strada che costeggiava il boschetto. Pericoloso scendere per riprenderla, il nemico era nascosto a breve distanza, dietro quegli alberi, e con quella luce sarebbe stato un bersaglio fin troppo facile. Si rassegnò. In fondo - si disse - anche per pochi minuti aveva goduto della normale quotidianità della sua vita di un tempo. Fece spallucce e stava tornando verso il suo rifugio quando sentì un leggero rumore dietro di lui. Si girò improvvisamente temendo di avere il nemico alle spalle, alzò il fucile pronto a far fuoco quando, con sorpresa, si rese conto che il pallone era tornato da lui. E come poteva essere?
Sospettoso volse lo sguardo tutt’attorno: nessuno.
Si udiva soltanto il respiro del vento freddo che agitava i rami dei vicini
alberi e penetrava fin dentro le ossa. Ad un tratto, a circa trenta metri di
distanza, alla base della leggera china lungo la quale era scivolato il
pallone, scorse una figura in controluce. Un soldato, un nemico! Immediatamente
si appiattì a terra dietro alcune travi di legno, pronto a far fuoco.
Accidenti, pensò, quell’imprudenza avrebbe potuto costargli cara! Rimase in
silenzio con l’uomo inquadrato nel mirino del fucile quando udì la voce del militare
russo che gli gridava: “Ti ho riconosciuto, campione! Palleggia ancora, ti
prego…era uno spettacolo bellissimo!”.
Quel soldato doveva avere la sua stessa età, almeno a giudicare dalla voce chiara e acuta; sicuramente lo aveva visto giocare tante volte, aveva esultato con lui per un goal o si era morso le dita per una rete mancata per un soffio.
La lama tagliente del vento continuava a incunearsi
tra le case di quel villaggio, un luogo senza vita dove anche il tempo, morti
gli uomini, sembrava non aver motivo di
continuare a scorrere. Morto anche lui.
Lontano
si udiva l’abbaiare di un cane. Niente sembrava
esistere al di fuori di quei due giovani soldati nemici e un pallone, in una
notte in cui il confine tra la vita e la morte, tra un colpo di tacco e uno di
fucile era sottilissimo.
Ebbene, se quella doveva essere la sua ultima ora,
pensò il calciatore, sarebbe morto senza rimpianti, stagliandosi contro quell’enorme
luna dalla luce abbacinante e col pallone ai piedi.
Posò il fucile, si alzò e si apprestò a
compiere il suo numero davanti ad un soldato nemico. Nemico? Quella breve
striscia di terra che divideva due uomini legati dall’amore per il calcio, dalla
voglia di tornare a vivere, nonostante tutto, accorciava ogni distanza,
eliminava i sentimenti di odio, annullava ogni credo politico.
Aveva deciso: il campione avrebbe ritrovato
la sua anima sfoderando il suo repertorio da funambolo, l’uomo avrebbe
riacquistato la sua libertà; lo avrebbe fatto per se stesso e per quell’unico
spettatore.
Accarezzò il pallone e lo mise in una
posizione comoda. Dopo il primo tocco, la sfera cominciò a volteggiare senza peso,
leggera come una farfalla, morbida come una carezza, attaccata ai piedi come se
una forza invisibile ve la tenesse incollata.
Era uno spettacolo vedere quel giovane in divisa palleggiare in quel teatro
di morte, lasciarsi rapire dai suoi movimenti fluidi e perfetti, dalle sue pose
plastiche.
“Tira, campione!” lo incitò dopo qualche
minuto il russo, e il soldato ucraino, come obbedendo ad un ordine del suo
allenatore, sparò una bordata che mandò il pallone altissimo, svettando verso
il cielo a cercare l’abbraccio della luna. Sembrava che la sua corsa non
dovesse più arrestarsi. Il pallone, quasi sfidando le leggi di gravità,
continuò a salire rubando la luce alle stelle, una luce di speranza da donare
ad una stupida umanità che non aveva ancora dimenticato di discendere da Caino
e Abele.
“Bravo!” gridò il soldato russo.
“Grazie!” rispose semplicemente il soldato
ucraino, poi tornò al suo rifugio.
Adesso
tutto era silenzio. Anche la voce del vento si era spenta per ascoltare il
battito di due cuori sotto due diverse uniformi.
Da una piccola costruzione poco distante, con un binocolo il comandante di quel drappello aveva osservato tutta la scena. “Che schifo le guerre!” sospirò.
Sputò per terra e accese una sigaretta.
_________________________
(*) Note sull'autore
Salvatore
Sutera è nato a Palermo. Laureato in Filosofia e diplomato in canto al
Conservatorio "Duni" di Matera, didatta di tecnica vocale, da sempre coltiva
l’amore per la musica lirica. Per la
casa editrice Leima ha pubblicato "Vento di Scirocco" sua opera prima,
raccolta di otto racconti, giunta alla seconda edizione, e il romanzo "L’avventura di
due garibaldini per caso" secondo
classificato al Premio Nazionale Isola 2018 - Pino Fortini. Entrambi, oltre
che su territorio nazionale, sono stati presentati anche a Ginevra.
Per la casa editrice Azzali, di Parma, ha pubblicato il volume "Anche un basso può volare…alto" e "Ho brillato in un cielo di stelle" dedicati alla figura del celebre basso-baritono siciliano Simone Alaimo.
L’ultima sua fatica letteraria è "Una calda scia di sangue" edita da Leima nell’agosto del 2021. Su "Nuovi Approdi" ha pubblicato il racconto "Lo sciopero d'i' gnuri".
https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/scrittori-su-nuovi-approdi-salvatore.html
Un ringraziamento particolare a Salvatore Sutera, cui do il bentornato su Nuovi Approdi, per la pubblicazione di questo racconto inedito che, a quasi cento anni dalla partita di calcio in trincea del Natale 2014, trova il sentimento umano prevalere sulla barbarie della guerra.
RispondiEliminaGrazie alla rivista Nuovi Approdi e all'amico Loris Sanlrorenzo che mi ha concesso questa opportunità per parlare di pace e non di guerra!
RispondiElimina