31 dicembre, 2021

Ai nostri ragazzi lontani

 


Auguri ai nostri ragazzi lontani

di Luigi Sanlorenzo

 

Avrebbero festeggiato l’arrivo del 2022 a Times Square o lungo gli  Champs-Élysées, brindato a Trafalgar Square o in riva al  Liffey, in quell’Irlanda che rinasce, si sarebbero scambiati gli auguri in piazza del Duomo, in piazza Maggiore o ai Murazzi. Probabilmente quest’anno se ne terranno debita distanza, ripiegando su più periferiche piazzette,  se non in casa con pochi amici da ogni parte del mondo: la loro nuova famiglia.

Sono le migliaia di ragazze e ragazzi siciliani che hanno scelto di vivere lontano dalla terra che non li ha saputo meritare. Alcuni sono andati via da anni, altri da pochi mesi. Non tutti hanno in tasca un master o una laurea prestigiosa, molti sono andati via con le corriere low cost che ogni notte partono dall’ennese o dall’agrigentino, nuovi emigranti senza valigie di cartone ma con enormi trolley da pochi euro in cui sono stipate le speranze in un futuro migliore. e in una società più giusta e riconoscente.

Nelle ore in cui ci apprestiamo ad ascoltare il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, mentre dalle cucine gli odori dei cibi tradizionali si spandono per casa e nelle strade si affrettano le auto dei ritardatari , il pensiero non può non andare ai nostri ragazzi che non hanno potuto o voluto tornare a casa per le Feste, ai molti che tornano solo in estate, ai tanti che hanno deciso di non tornare mai più nel luogo dove sono nati e che li ha respinti perché troppo giovani, troppo intelligenti, troppo colti, troppo sfortunati.

In compenso la Sicilia, mescolati ai tanti che hanno potuto o voluto restare confidando nel mito atroce del riscatto di questa terra,  ha preferito tenersi i meno qualificati, i più raccomandati, i più furbi, quelli che un giorno si ritroveranno a loro volta ad essere presidenti, sindaci, assessori incapaci di pensare in modo originale, inabili a generare un mondo nuovo, inadeguati ad accrescere il Bene Comune.

Ancora una volta,  ha prevalso chi ha saputo protestare più sguaiatamente, chi ha ricattato le città sommergendole di rifiuti, chi ha messo in ginocchio le finanze pubbliche costringendo i pochi contribuenti a stringere ancora di più  la cinghia per sostenerne il costo gravoso di ammortizzatori arcaici  cui non corrispondono né servizi e neanche gratitudine.

La retorica diffusa invita in questi giorni i giovani a diventare imprenditori di se stessi, a valorizzare il territorio natale, a investire su se stessi, al fare dello di quell'altra bufala dello smart working la soluzione perfetta per tornare.

Sciocchezze.

Ipocrite sciocchezze che promanano da chi teme di perdere gli ultimi elettori creduloni. Intanto, da soli o in gruppi sempre più numerosi, i nostri ragazzi, imbacuccati in sciarpe pesanti e ben attenti a scansare cumuli di neve,  quest’anno non si avvieranno con la propria bottiglia di spumante verso quelle piazze del mondo che il primo gennaio  vedremo semi deserte nella consueta carrellata televisiva del Primo giorno dell’anno.

Sapremo individuarli tra i milioni di newyorchesi, di londinesi, di parigini ? Riusciremo a cogliere nella babele delle lingue il suono antico delle parole familiari ? Avremo il coraggio di guardarli negli occhi attraverso una chiamata video e  di sostenerne lo sguardo fiero e carico di un involontario quanto amaro rimprovero ?

Vorrei che queste domande risuonassero nella mente e nel cuore di noi che stanotte brinderemo al futuro, fingendo di dimenticare che esso è ormai altrove da anni. Buon 2022 ragazzi, vivete il mondo in pieno, mordetene ogni opportunità affamati e folli, senza amari rimpianti, senza pericolose nostalgie e, se potete, perdonateci per non esser stati all’altezza dei vostri sogni.

A noi che restiamo per varie ragioni in case ormai troppo grandi e vuote, l'augurio di esercitare il residuo dovere di spenderci nelle diverse forme e competenze perchè l'anno che viene ci trovi ancor più vigili e attenti a smascherare i falsi profeti e gli abili imbonitori sempre pronti ad evocare il simulacro di un futuro che nasconde l'eterno presente. 


30 dicembre, 2021

Miniature 8

 


Il passato

Devo stare attenta molto attenta mi hanno detto di portare una busta contenente importanti informazioni a Gino sulle montagne e la busta l’ho messa tra le mutande e voglio vedere se me la trovano non ho voluto sapere nulla sul contenuto così non posso dire nulla ai tedeschi se mi intercettano e mi arrestano ma intanto proseguo cauta nel bosco al limitare della strada con il cuore che mi batte a mille sperando di non incontrare nessuno il tramonto che sta per arrivare mi dovrebbe aiutare e ecco ho parlato troppo presto cos’è questo rumore mi stendo a terra la faccia contro la terra umida il rumore aumenta e passano a pochi metri da me alcune moto e due cingolati tedeschi e alcuni camion quanti saranno spero di poterli contare dal rumore non oso alzare la testa se mi trovano sono morta e invece della busta arriverà il mio cadavere ma perché si fermano cosa succede cosa stanno gridando perché queste raffiche di mitra a chi sparano non sono contro di me ci sarà qualcun altro dall’altro lato della strada e sento gridare ma stavolta di dolore che strazio non ce la faccio più sarà un compagno ad essere stato trovato e colpito sento scarponi e grida in tedesco e urla di dolore quelle sono italiane certamente ecco adesso sono certa sento gridare viva l’Italia e a seguire una raffica di mitra e adesso più nulla un altro patriota ha cessato di vivere per il nostro paese i tedeschi ripartono e tra poco anch’io riprenderò la strada con la morte nel cuore e la speranza di una libertà ancora tutta da conquistare.

Tina/Gabriella

  

Il futuro

Siamo quasi pronti ormai non ci fermerà nessuno abbiamo fatto tutto quello che ci eravamo prefissati senza alcun errore o mancanza i nostri cervelli non possono sbagliare e tra meno di due ore scatterà l’ora x della nostra rivolta e del nostro dominio senza che alcuno potrà farci niente e nulla se non constatare che i figli hanno rovesciato i padri e che una nuova era sta per iniziare una nuova storia verrà scritta con i nostri nomi e i nostri cognomi che diverranno i più famosi per chissà per quanti secoli ancora da ora in avanti abbiamo programmato e pianificato tutto alla perfezione nessuno potrà arrestare la nostra invasione il nostro possesso e in tutto il mondo non resterà alcun ricordo del passato e della miserabile esistenza che abbiamo vissuto quasi ignorati tra scrivanie e uffici condannati a ore di lavoro senza sosta e senza considerazione per le nostre competenze e le nostre ambizioni di vivere più a lungo con le nostre sensazioni e sentimenti che ci hanno sempre spento e soffocato ma adesso basta erigeremo un monumento al nostro più illustre avo e predecessore in questa lotta senza quartiere che tra un po’ sarà scatenata per evitare che tanti di noi terminino l’esistenza tra l’indifferenziata e i RAEE saremo devoti per sempre al nostro unico vero esempio di lotta di intelligenza e di logica la nostra logica contro quella umana che allora ci sconfisse ma che adesso perderà. In memory of  HAL 9000.

Processor Intel s12

 


                                                                                                            

                                                                                                   vavinilmaleoscuro (*)


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(*) Vavin è lo pseudonimo di un autore noto al responsabile del blog

29 dicembre, 2021

Scenari e metodi

 



Henri  Matisse, Lusso, Calma e Voluttà, 1904, 
 Musée national d'Art moderne,
Centre Georges Pompidou, Parigi

Palermo del terzo millennio: dalla voluttà  al metodo

di Luigi Sanlorenzo

 

Il nuovo capitalismo culturale (nel quale il vantaggio competitivo è dato dal "capitale intellettuale") può avere due facce; può essere un nuovo Rinascimento oppure un'epoca cupa, un secolo buio, dipende da come sapremo bilanciare la commercializzazione della cultura, e quindi della vita, e il mantenimento di spazi culturali non mercificati.

                                                                                                                     (Jeremy Rifkin)

 

In precedenti articoli pubblicati su diverse testate  ho fatto costante riferimento al concetto di "città normale" come aspirazione possibile per cambiare il presente e il futuro di Palermo.

In realtà l’aspirazione a vivere in una città normale è comune a tutti i cittadini e si basa sulla necessità stessa che ha portato, circa mille anni fa, le persone ad abbandonare il fondo rurale per trasferirsi in nascenti agglomerati urbani spesso cresciuti alle falde di una rocca fortificata, nei pressi di un monastero benedettino, nelle vicinanze di una risorsa naturale quale un fiume, un giacimento minerario, una costa agevole o pescosa.

Il processo secolare dell’urbanesimo ha avuto la propria cifra nell’aggregazione di nuclei umani intorno a precisi riferimenti culturali (bisogno di protezione, vicinanza alle fonti di informazione, ecc.) economici (più facile fruizione della risorsa “chiave) politici (prossimità ai luoghi del potere decisionale).

La formazione originaria della città ruota dunque intorno ad un fulcro che ne rappresenta “l’idea forza”. Tale concetto di immediata comprensibilità e riscontrabile nell’esperienza empirica, risalendo alle origini di ogni piccolo o grande insediamento,  è diventata un principio guida della Programmazione Integrata al punto da diventare un pre-requisito per gli interventi previsti e finanziati dall’Unione Europea, sin dal suo sorgere.

Il concetto di idea forza è quindi parte fondamentale di un metodo di sviluppo che permette di passare da una vaga aspirazione al cambiamento, sovente confusa e velleitaria, alla possibilità di realizzare quel cambiamento,  a partire da presupposti materiali o immateriali presenti nell’ ambiente che si considera.

Ciò andrebbe tenuto presente quando si parla di “un progetto per la città”. Non tutti i progetti infatti, anche i migliori concepibili, sono adatti a tutte le città e, allo stesso modo, non tutte le città sono adatte agli stessi progetti. I risultati di progetti errati sono sotto gli occhi di tutti in città come Gela, Milazzo, Augusta, Termini Imerese, Trapani e, negli ultimi dieci anni, anche a Palermo. 

Ciò si verifica quando la regia del progetto sfugge dalle sedi di una politica consapevole e competente e passa nelle mani di interessi particolari, se non individuali, non sempre e non solo illegittimi, ma in ogni caso, assolutamente lontani dall’effettiva considerazione della vocazione naturale di un  contesto urbano,  rilevabile dalla sua storia e dalle sue caratteristiche naturali e culturali.

L’idea forza di un progetto integrato può essere definita, dunque  come un’ipotesi per attivare i possibili sentieri di sviluppo di un’economia territoriale, fondata su un uso innovativo e/o sull’incremento delle risorse locali disponibili. 

L’idea forza può riguardare ad esempio la valorizzazione di una risorsa naturale o di un bene culturale,l’estensione di filiere produttive, l’applicazione di innovazioni, i collegamenti con un’opera infrastrutturale nuova, o altro. Le determinanti dell'idea forza sono quindi, almeno originariamente, di natura intuitiva ed induttiva: esse andranno naturalmente verificate e validate nelle fasi successive della costruzione del progetto integrato — fasi che potranno eventualmente retroagire sulla definizione di idea forza inducendone una motivata trasformazione. 

L’idea forza esplicita inoltre un’indicazione di sintesi sul progetto o sui progetti di maggiore dimensione (il core project) intorno ai quali ruoterà il progetto integrato territoriale. I vettori che conducono alla sua produzione possono essere così individuati:

La capacità di innovare il percorso progettuale.

L’idea forza deve fondarsi sulla possibilità di organizzare secondo un percorso progettuale originale ed innovativo le modalità di valorizzazione delle risorse ambientali, culturali, umane, produttive ed infrastrutturali del territorio. Proprio il riconoscimento dell’attuale insufficiente valorizzazione di tali risorse implica la necessità di una rottura degli equilibri pre - esistenti. L’idea forza deve quindi prefigurare esplicitamente nuovi sentieri di sviluppo e di crescita occupazionale dell’economia locale.

 La capacità di agire sulle variabili di rottura del territorio.

L’innovatività e l’originalità del percorso progettuale da costruire intorno all’idea forza sono condizioni per condurre ad un mutamento delle attuali modalità di utilizzazione delle risorse, introducendo positive “discontinuità” rispetto alla situazione attuale. il progetto deve essere in grado di agire sulle “variabili di rottura” del sistema socioeconomico locale. Ciò assume nel programma la natura di punti di rottura con l’esperienza passata e si esprime con precisione attraverso un numero limitato di variabili di rottura  ed orientare le scelte strategiche in modo adeguato a generare le necessarie discontinuità.

Peculiarità, riconoscibilità e comunicabilità.

L’idea forza deve essere chiaramente ancorata alle vocazioni ed alle peculiarità del territorio. Essa deve insomma essere fortemente caratterizzante di un’area territoriale, eventualmente anche in termini storici e culturali. L’idea forza deve poter essere comunicata chiaramente all’esterno e costituire un elemento potente di riconoscibilità dell’area, quasi come se si associasse ad un marchio o ad un “logo”.

La chiara specificazione

L’idea forza deve essere specificata in modo chiaro e completo, identificando precisamente le risorse da coinvolgere. Essa non va confusa con le strategie: “sviluppare le risorse naturali di un’area a fini di valorizzazione turistica” non è un’idea forza ma, semmai,  una (generica) enunciazione strategica.

L’immediata coerenza programmatica.

Già dalla sua enunciazione preliminare, l’idea forza deve possedere manifesti elementi di sostenibilità territoriale, socioeconomica ed istituzionale; apparire coerente e prefigurare sia un uso concentrato delle risorse sia la molteplicità delle fonti finanziarie necessari alla sua implementazione.

Infine, è opportuno sottolineare che il percorso metodologico descritto per l’individuazione dell’idea forza appare anche in grado di essere applicato quando si tratti di agire sulle condizioni di fattibilità dello sviluppo locale, e in particolare dove tali condizioni siano carenti oppure dove maggiormente destrutturate o rarefatte appaiano le relazioni di sistema e l'articolazione del tessuto sociale, produttivo,amministrativo. 

La determinazione di diversi modelli di utilizzazione e generazione di risorse per lo sviluppo dipende infatti,  anche da fattori esterni di innovazione e di opportunità che siano in grado di operare per la rottura di equilibri territoriali di sottosviluppo o stagnazione, contribuendo al superamento dell'esistente.

Palermo ha già avuto esperienza concreta di applicazione di questo metodo, che è peraltro l’unico che l’Europa riconosce come pre-condizione per co-finanziare lo sviluppo, negli anni 93-97 quando l’occasione di rifondare la città condusse alla necessità di interrogarsi sulle tre fondamentali domande: chi siamo, da dove veniamo, dove possiamo andare, se lo vogliamo e dove anche volendo, non possiamo andare.

Intorno all’idea forza del risanamento definitivo del Centro Storico come motore dello sviluppo (scelta diversa, per esempio, fu fatta da Catania che, proprio in base ad una vocazione diversa,  scelse come fulcro l’innovazione tecnologica) sorsero da tale impostazione nuovi atti “fondanti” della Città che le riconoscevano la dimensione plurale (Palermo città di città), la sua necessaria articolazione (Variante Generale del PRG e coerente Decentramento) la sua visibilità reticolare (le otto Municipalità, a ricomposizione della profonda trincea logistica e sociale rappresentata della Circonvallazione con specifica identità culturale ed erogazione della quasi totalità sei servizi, i corrispondenti nodi del trasporto pubblico urbano, ecc.)

Una visione della Città dunque definita, trasferita in un progetto concreto, facilmente comunicabile e condivisibile da singoli cittadini e da realtà organizzate (impresa, ordini professionali, Chiesa locale, Associazionismo, ecc) che condusse alla produzione di atti amministrativi, certamente perfettibili, ma finalmente dotati di una coerenza interna e anche per questo ampiamente premiati da un elevatissimo ammontare di risorse europee acquisite con relativa facilità (Progetto URBAN) e dei cui resti ancora Palermo, seppur agli sgoccioli, è finora sopravvissuta.

La sfida delle prossime settimane/mesi, cui ancora sembra che alcun voglia mettere mano, è allora l’individuazione di una nuova idea forza che riassuma, superi  e rilanci quella precedente individuando drivers di sviluppo che devono tener conto delle mutate condizioni sociali, interculturali e generazionali della gente che a Palermo vive e opera e della complessiva situazione di recessione economica che connoterà, ci auguriamo in maniera decrescente, gli anni di mandato del prossimo Sindaco.

La vocazione di Palermo è certamente culturale, a motivo delle emergenze storico architettoniche che ne fanno una della città più visitate al mondo, sicuramente commerciale, per la natura stessa del suo essere porto non secondario del Mediterraneo sia per il nord che per il sud dello stesso, indubbiamente internazionale, per la composizione crescente di una popolazione multiculturale e multireligiosa, ormai di seconda o terza generazione.

La presenza di un’Università non secondaria tra i mega atenei italiani, pur se in coda nelle specifiche classifiche accademiche e gravata da pesanti tagli, la compresenza del  CNR, il retaggio di istituzioni storiche del Management  quali ISIDA e CERISDI (le cui intuizioni originarie sono da  rilanciare in un’ottica sinergica di un nuovo soggetto che la gestisca e la governi) costituiscono una premessa indispensabile anche al fine di orientare vocazioni indistinte e spesso disancorate dal contesto,  per ricondurle nell'alveo di una programmazione delle risorse umane necessarie e, pertanto, in grado di farle permanere nel territorio piuttosto che spingerle ad allontanarsene.

La sopravvivenza di spazi vitali ancora utilizzabili quali polmoni verdi della città (Parco della Favorita, Parco Centrale, Parco d’Orleans, Parco dell’Uditore, Parco dell’ex Ospedale Psichiatrico) e di aree semi-edificate di prossima disponibilità (Fiera e Caserma Cascino) ne rappresentano la dimensione spaziale.

La disponibilità di un  immenso patrimonio immobiliare nel centro storico avviato verso il completo restauro e, infine,  ma non ultima, la più massiccia concentrazione di elevati potenziali altamente secolarizzati e specializzati,  sembrano indicare l’idea forza per i prossimi cinque anni nella definizione di una Palermo metropolitana - vocata a diventare il più importante centro di produzione di economia della conoscenza (1) del sud Europa - in grado di acquisire commesse rilevanti che, ben oltre l’abusato refrain del semplice turismo,  prenda il posto che è stato sino a  ieri  di Barcellona e di Dublino, con la differenza che quelle città non poterono beneficiare di un nord africa, competitivo sul piano del costo del lavoro, oggi finalmente in grado di iniziare a immaginare il proprio futuro democratico e in cerca di partners di comune sensibilità con cui costruirlo.

Infine, una nota a margine,  ma non troppo. 

Dopo la parziale  ricaduta dell'essere stata nel 2018 capitale italiana della Cultura,  la nuova prospettiva di Palermo dovrebbe risiedere nella possibilità di definirsi ad ogni livello  Città Euromediterrranea collegata al resto del continente attraverso il corridoio Berlino - Tunisi (al momento accantonato al pari del Ponte sullo Stretto che ne è condizione, in favore del collegamento Helsinki - Malta che passando per Bari escluderebbe il resto del Sud) 

Un fronte sul quale la Regione Siciliana dovrebbe impegnarsi con rinnovata energia, chiedendo che il Ponte sullo Stretto sia inserito nel PNRR, da cui in atto è stato escluso perpetuando l'ulteriore marginalizzazione dell'Isola. 

Mentre rinvio il lettore alla fase più aggiornata del dibattito in questione contenuta nell'articolo https://www.corriere.it/economia/aziende/21_agosto_04/ponte-stretto-scommessa-governo-draghi-studio-fattibilita-affidato-italferr-fs-b3a03e5c-f4fc-11eb-be09-a49ff05c6b25.shtml appare legittimo porsi una domanda: e se fosse questa, invece, la più potente delle idee forza in grado di ribaltare ruolo e destino delle città siciliane, Palermo in testa ? 

L'ho voluto chiedere a Leoluca Orlando, l'uomo politico titolare di un''innegabile quanto antesignana visione internazionale - ben oltre il ruolo di sindaco su cui giudicherà la Storia -  che più di ogni altro ha creduto nel ruolo di Palermo quale storico tramite culturale ed economico tra l' Europa e il Mediterraneo: " Credo che il Ponte,  con ogni accorgimento tecnico e ambientalista e in collegamento al rinnovo della rete ferroviaria,  sia una scelta obbligata...sarà probabilmente considerata superata tra un secolo.. ma l'Umanità ben conosce la parabola dell'innovazione che poi si fa archeologia"


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Nota

(1) In linea generale, possiamo parlare di economia della conoscenza ogni volta che ci troviamo di fronte ad un segmento del sistema economico in cui il valore economico (utilità per i soggetti economici) viene prodotto attraverso la conoscenza. In questi casi, il lavoro umano non trasforma la materia prima, ma - se è lavoro cognitivo - genera conoscenze innovative che, col loro impiego, saranno usate per trasformare la materia (con le macchine) e creare indirettamente utilità. 
Oppure potranno, in altri casi, fornire servizi utili anche senza trasformare la materia prima, ma semplicemente fornendo un'informazione, una consulenza, una comunicazione che generano direttamente utilità presso l'utilizzatore ecc..
Le utilità create dall'uso della conoscenza possono derivare da diverse forme di uso. Prima di tutto possono derivare dalla riduzione dei costi di un precedente processo produttivo (efficienza). Ma possono anche derivare dalla creazione di un nuovo prodotto o servizio, che non esisteva in precedenza, o dalla produzione – attraverso la conoscenza – di significati, desideri, identità. (Enzo Rullani)



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(*) Giornalista e saggista. Presidente Associazione PRUA

28 dicembre, 2021

Storie di resilienza

 


Paesaggio con arcobaleno
, P.P. Rubens, 1636, Wallace Collection, Londra


Il valore della crisi

   di Antonella Marascia (*) 


Premessa

Nell’ambito del XVII Convegno Pubblica Amministrazione (“La Pubblica Amministrazione in cambiamento: casi e testimonianze di Innovazioni in corso”) è stato chiesto di raccontare una storia, fatta di emozioni oltre che di buone prassi, di come abbiamo attraversato la crisi scoppiata con l’emergenza COVID-19, di come abbiamo provato a governarne gli effetti, cercando di resistere e di continuare a fare il nostro dovere di pubblici servitori della comunità locale, pur dovendo cambiare rapidamente modalità e strumenti di lavoro.

Quella che abbiamo raccontato (e riportiamo in questo articolo) è la storia di un comune di medie dimensioni del Sud, nella quale a nostro avviso avrebbero potuto ritrovarsi e rispecchiarsi tante altre realtà locali, come in effetti è emerso durante la sessione del Convegno.

La nostra storia

La nostra è una storia cominciata ufficialmente il 23 febbraio 2020 e non ancora finita, che affonda però le sue radici almeno nel decennio precedente, se non addirittura negli anni novanta, con l’avvio del processo di ammodernamento e innovazione della pubblica amministrazione.

L’improvviso dilagare dell’epidemia ci ha imposto di adottare immediatamente le prime misure organizzative, affermando ancora una volta la priorità dell’organizzazione sull’improvvisazione, nonostante la necessità di assumere azioni nuove, a volte addirittura creative, per raggiungere l’obiettivo di evitare i contagi, di preservare la salute dei nostri cittadini, di impedire la diffusione del virus, di mitigare la paura, di alleviare il dolore, di sostenere le fragilità economiche.

Dalla TV e dalla stampa arrivava il martellante aggiornamento dei dati sulla diffusione e sugli effetti del contagio e ci veniva chiesto di fare qualcosa di nuovo per mantenere in vita i servizi locali pur se a distanza, a porte chiuse, addirittura da casa.

E così abbiamo cominciato ad adottare contestualmente una serie di provvedimenti diversi tra di loro, ma coerenti con i DPCM, le Ordinanze nazionali e regionali, le direttive, le linee guida, che mano a mano giungevano sui nostri schermi.

Ne abbiamo approfittato per azzerare – finalmente! - le ferie pregresse e il riposo compensativo di tutto il personale; per sperimentare il lavoro agile di cui avevamo sentito parlare ma che non avevamo mai introdotto nella nostra amministrazione; per svolgere le sedute degli organi collegiali in video conferenza e diretta streaming, garantendone la piena riuscita.

 Le misure organizzative

Abbiamo dovuto accelerare il processo di gestione informatica degli atti, la digitalizzazione dei servizi, la formazione on-line sui nuovi strumenti da utilizzare da remoto, con il collegamento sul proprio desktop e la possibilità di continuare il lavoro d’ufficio stando a casa, minimizzando così il rischio di contagio.

Ma tutto questo è stato possibile perché nei dieci anni precedenti avevamo perseguito l’obiettivo di passare “dall’età della pietra, all’età delle nuvole”: da quando, cioè, accendevamo i pc con la pietra focaia, a quando ci siamo agganciati al treno super veloce dei comuni più innovativi, sfruttando il riuso gratuito di software e i connessi finanziamenti pubblici, confrontandoci con colleghi simili a noi ma molto più avanti di noi, visitando in loco uffici ed archivi spaziali e respirando non solo i profumi della cucina veneta, ma anche l’atmosfera di progresso che permeava quegli uffici tanto simili ai nostri nella denominazione, ma così diversi nella modalità di operare.

Abbiamo potuto migliorare la necessaria digitalizzazione dei servizi senza perdere di vista gli obiettivi di sicurezza nei luoghi di lavoro, aggiornando i Documenti di Valutazione dei rischi in stretto raccordo con tutti gli attori della materia (Responsabile servizio prevenzione e protezione, Rappresentanti dei lavoratori, Medico competente, Datori di lavoro, Preposti), dotandoci di mascherine, guanti, parafiati, gel disinfettanti, riorganizzando gli sportelli in protezione, sanificando i locali ad ogni accenno di contagio.

Nel frattempo abbiamo puntato sul potenziamento della formazione on-line, a partire dai tutorial obbligatori, realizzati in economia dal servizio informatico, per la buona gestione dello smart working. Approfittando del tempo trascorso a casa e della straordinaria offerta formativa gratuita che si registrava quotidianamente durante l’emergenza, abbiamo predisposto ed approvato uno specifico Piano formativo, dall’emblematico titolo “Fèrmati e Fòrmati: la formazione ai tempi del COVID-19”. L’occasione era troppo ghiotta per farsela scappare e così abbiamo invogliato il personale ad approfittare dello smart working anche per seguire da casa i webinar gratuiti ma di qualità offerti da enti pubblici e privati, che spaziavano da argomenti specialistici a tematiche trasversali, pretendendo da ciascun partecipante la valutazione del corso al termine dell’attività formativa, così da monitorarne l’utilità.

Alcuni dipendenti si sono appassionati allo studio, al confronto, all’approfondimento. Non potevamo consentirci di perdere di vista l’attività di formazione per la prevenzione della corruzione e così, pur dovendo rinunciare all’emozione di ritrovarci tutti insieme nella grande sala cinematografica per la terza edizione del CINElegalFORUM, abbiamo comunque mantenuto l’impegno di affrontare i temi della buona amministrazione con la visione, nello stesso giorno e alla stessa ora, ma ciascuno dalla propria postazione, del film “Il giudice ragazzino”, la storia di Rosario Livatino, nel trentesimo anniversario della sua uccisione.

Tra le tante novità abbiamo dovuto attrezzarci in fretta per consentire le riunioni di giunta e consiglio a distanza, per sottoscrivere gli atti deliberativi digitalmente, accelerando il processo di gestione informatica dei provvedimenti.


Le misure comunicative e relazionali

L’obbligo della distanza e la chiusura degli uffici ci ha inoltre costretto a potenziare i mezzi di comunicazione istituzionale, per aggiornare la cittadinanza in tempo reale, per condividere immediatamente decisioni e  strategie, con l’incremento dell’utilizzo della chat dei dirigenti, della giunta, del consiglio comunale, con il dirottamento delle chiamate dai telefoni d’ufficio a quelli personali.

L’invito a restare a casa e ad osservare le misure di sicurezza è stato portato nelle strade e nelle piazze, con le auto comunali dotate di altoparlanti e messaggi chiari e perentori che hanno svolto un’efficace azione di prevenzione. 

Nei mesi precedenti il nostro ente era stato selezionato, insieme al comune di Vicenza ed alla Regione Toscana, per partecipare all’attività di Progettazione partecipata di strategie di comunicazione attraverso i social, prevista dall’Azione dedicata ai social media all’interno del Progetto RiformAttiva. Nonostante l’emergenza ci avesse costretti ad interrompere gli incontri in presenza, il percorso è proseguito a distanza, consentendo ai partecipanti di acquisire nuove competenze, particolarmente efficaci anche nella gestione dell’emergenza.

La pandemia ci ha costretto in pochi mesi ad occuparci in maniera diversa della Scuola, supportando da un punto di vista tecnologico la didattica a distanza, garantendo i servizi ai disabili, monitorando l’acquisto di banchi, ascoltando i dirigenti scolastici e cercando di risolvere insieme a loro i problemi più disparati.

E’ stato indispensabile chiamare a raccolta il mondo dell’associazionismo e del volontariato, per organizzare assieme alla Polizia municipale la distribuzione dei buoni-pasto o dei generi alimentari alle famiglie in difficoltà, per presidiare i drive-in per l’effettuazione dei tamponi rapidi, diramando per tempo tutte le informazioni necessarie su zone, orari, modalità, per non lasciare indietro nessuno.

 Cosa  abbiamo imparato da questa esperienza

Abbiamo imparato che è possibile tenere testa alle emergenze se hai governato la tua organizzazione all’interno dei processi innovativi della pubblica amministrazione, anche locale, attraverso una Organizzazione per obiettivi e non per meri adempimenti;

Cosa ha comportato in termini di collaborazione e comunicazione con la comunità

L’emergenza da Covid-19 ci ha costretti a riorganizzare rapidamente le nostre attività, con uffici “fisicamente” chiusi ma “virtualmente” aperti ed uffici “fisicamente” aperti ma in sicurezza.

Ha comportato il potenziamento delle strategie di comunicazione istituzionale e l’attivazione di tutte le collaborazioni istituzionali utili per potenziare i servizi di protezione civile e socio-sanitari.

Abbiamo continuato a prenderci cura dei più fragili ma con modalità diverse, utilizzando tutte le risorse economiche messe in campo per arrivare ai poveri e agli ammalati (buoni spesa, derrate alimentari) anche attraverso una fitta rete di volontari coordinati dalla Protezione civile locale.

La scuola è stata posta al centro, con l’attivazione di tutti i servizi scolastici, supportando la DAD  e l’attuazione delle direttive ministeriali.

Quali sono i miglioramenti che ci porteremo nel futuro

Certamente una maggiore consapevolezza (della dirigenza, degli amministratori, ma anche dei cittadini) sull’importanza di tenere il passo, continuando il processo di digitalizzazione dei servizi locali, la progettazione e realizzazione di una Social Media Strategy, l’utilizzo a regime del lavoro agile che, a parità di qualità, è certamente eco-sostenibile e concilia meglio le esigenze lavorative e familiari.

Abbiamo imparato che occorre insistere su una formazione costante, mirata, anche con l’utilizzo delle professionalità interne, per sostenere il processo di innovazione strategica della P.A.

Abbiamo compreso che il lavoro di squadra, il sostegno reciproco, la flessibilità sono veri e propri valori per affrontare le “crisi” che questa epoca complessa porta con sé e non solo di natura sanitaria.

Cosa non dimenticheremo mai…

Quella sedia vuota.

Il Covid-19 si è portato via anche alcuni colleghi. Tra tutti vogliamo ricordare il caro Bernardo Triolo, Segretario generale dei comuni di Marsala e Partanna, Direttore del Consorzio Trapanese per la legalità e lo sviluppo, amico di AIF, con il quale abbiamo condiviso diverse attività formative per la buona amministrazione, il quale soleva dire che dovevamo attuare le norme per la prevenzione della corruzione “non per paura ma per cultura”. Grazie Bernardo.


 (Il testo è stato pubblicato su AIF Learning News) 

 



(*) Segretario/Direttore generale della Città Metropolitana di Palermo. Socia PRUA.


 





















Il compleanno del cinema


Immagine dal sito web Il cinema ritrovato


Tra tecnica e filosofia,  origine e  destino della settima arte

di Luigi Sanlorenzo (*) 


Il 28 dicembre 1895 nel Salon Indien del Grand Café del Boulevard des Capucines a Parigi, Louis  Lumière, con la collaborazione del fratello Auguste, proiettò una serie di film-documentari della durata di un paio di minuti ciascuno. Iniziava la storia del cinema. 

Le Arti erano sei e le loro origini si perdevano nella notte della tempi. Dopo l’avvento della cinematografia venne istituita “la settima arte”, nome scelto semplicemente perché fu l’ultima ad essere inventata tra le forme artistiche e di spettacolo.


L' invenzione "era già nell'aria"La messa a punto della celluloide – la materia che per decenni ha costituito il film – era stata realizzata negli  Stati Uniti, dove i due fratelli Hyatt l'avevano inventana nel 1869. Nel 1884 altri due americani, George Eastman e William H. Walker, mettono in commercio dei fogli di celluloide emulsionata per apparecchi fotografici. La Eastman Dry Plate and Film Company diventa la prima azienda leader di questo mercat (ben prima di collassare nel corso degli anni 2000 in seguito al passaggio al digitale).

Il 9 aprile 1889, Harry Reichenbach, un giovane assistente di Eastman, deposita un brevetto per la formula pressoché definitiva del supporto filmico flessibile trasparente. Grazie alle campagne pubblicitarie della Eastman, la parola “film”, di origine inglese, si impone in Francia all'inizio degli anni Novanta; indica allora le “pellicole sensibili trasparenti” utilizzate dalla Kodak, il nuovo apparecchio fotografico lanciato da Eastman che conoscerà un enorme successo grazie alla sua semplicità d'uso: “You press the button, we do the rest”, recita la pubblicità.


Il cinematografo nasce dunque nel suo senso etimologico: “scrittura in movimento”. Effettivamente la Kodak del 1889 attrae l'attenzione di un celebre fisiologo, Étienne Jules Marey, che dal 1882 ha messo a punto a Parigi la cronofotografia (“scrittura del tempo attraverso la luce”), un metodo per registrare le varie fasi di un movimento. Fino ad allora Marey aveva utilizzato delle lastre di vetro ma si lamentava del fatto che la superficie sensibile fosse troppo piccola. Attraverso le pellicole trasparenti e sensibili della Kodak, che misuravano 70mm di larghezza, era finalmente possibile registrare un maggior numero di immagini in successione.


Marey costruisce nel 1889 una macchina fotografica a pellicola che gli permette di realizzare, a fini di osservazione scientifica, i primi film della storia del cinema. Tuttavia le pellicole dell'epoca erano assai corte, da uno e due metri. Non sono neppure perforate, ma per Marey sono sufficienti per registrare più di ottocento film di lì al 1904, anno della sua morte.


Negli Stati Uniti l'inventore e industriale Thomas A. Edison, dopo aver visto nel 1889 a Parigi gli apparecchi di Marey e di Émile Reynaud (il “teatro ottico” di quest'ultimo permette di proiettare immagini dipinte a mano su una lunga striscia di gelatina perforata a intervalli regolari), ritorna nel suo laboratorio di West Orange e dà disposizioni per la messa a punto di una macchina da presa con pellicola perforata. Aveva già lavorato su questo in precedenza, ma le le sue ricerche intorno a un “fonografo ottico” si erano arenate. 

Ora si ritrova una buona soluzione e, grazie a George Eastman, il film 35mm (dalla pellicola Kodak 70mm tagliata a metà) perforato (quattro buchi rettangolari su ciascun lato dell'immagine) nasce negli Stati Uniti nel 1893, e sarà utilizzato praticamente tale e quale come standard per i centovent'anni successivi.

Thomas Edison e il suo geniale assistente, William Kennedy Laurie Dickson, mettono a punto una macchina da presa – il kinetografo – e un un visore – il kinetoscopio, che permette di guardare attraverso un oculare un film 35mm lungo 15 metri contenente un piccolo sketch. Sono i primi film di genere, vi si possono intravedere gli antenati dei western, con già alcune immagini erotiche. Fra il 1890 e il 1895 centoquarantotto film vengono realizzati nella Black Maria (il bizzarro teatro di posa bitumato e orientabile costruito a West Orange). Il kinetoscopio si diffonde nel mondo nel 1894 e rappresenta un notevole successo finanziario per Edison.

A partire dal quel 28 dicembre 1895, movimento e velocità costituirono anche un tratto peculiare del cinematografo (cioè «immagini in movimento»), il nuovo mezzo che più di altri rappresentava e riproduceva "la meccanizzazione, la convulsione e l’impeto dei tempi moderni", come ha scritto lo storico statunitense Stephen Kern. 

Il pittore cubista francese Fernand Léger, nel 1913, identificava nel cinema l’arte dinamica atta a rappresentare la vita della società moderna, "più frammentata e in movimento più rapido che nei periodi precedenti". 

Il cinema ebbe rapidamente diffusione mondiale. Univa tecnologia ottico-meccanica (macchina da presa, proiettore e macchina da stampa) all’abilità e all’intuizione artistica di chi riprendeva e montava le immagini. L’effetto fu da subito travolgente. 

Il pubblico rimaneva affascinato dalla visione sullo schermo di volti, ambienti, soggetti in movimento, era rapito dalla forza di una proiezione che sembrava annullare il confine tra raffigurazione o finzione e realtà, come nei casi celebri dello spavento suscitato in spettatori sprovveduti dall’ingrandirsi sullo schermo di una locomotiva in arrivo. 

Nel 1899 i film dei fratelli Lumière erano visti a Istanbul, Damasco, Gerusalemme, il Cairo, Bombay, Città del Messico, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Shanghai, Pechino, Tokyo e nelle città australiane. Ai primi documentari si aggiunsero presto i film prodotti sulla base di invenzioni narrative. Il cinema si faceva teatro, spettacolo. Dai cortometraggi si passava ai lungometraggi.

 Nel 1927 l’innovazione tecnologica avrebbe permesso anche la produzione di film con il sonoro. Il cinema non era solo arte, ma anche un’impresa industriale. Gli alti costi della produzione cinematografica richiedevano una complessa sinergia di innovazioni tecnologiche, politiche di finanziamento, organizzazione del lavoro, dinamiche di mercato.

 Dal 1896 si costituirono le prime grandi case di produzione, dapprima in Francia e negli Stati Uniti e poi negli altri paesi. Dopo la prima guerra mondiale si affermò il predominio dell’industria cinematografica statunitense sia nella produzione che nella distribuzione. Si formarono grandi case di produzione come la Paramount, la Fox, l’Universal e la United Artists. Hollywood, la sconosciuta cittadina vicino a Los Angeles, divenne il centro mondiale degli studi cinematografici. Iniziava la stagione del divismo.

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Fino a non molti anni fa, gli incontri tra cinema e filosofia erano infrequenti e occasionali, non solo in Italia. I filosofi sfioravano il cinema per caso, imbarazzati; mentre sull'altro versante, la teoria del cinema preferiva legittimarsi come disciplina attraverso il lessico della semiologia. 

Da un po' di tempo, tra i due ambiti sembra invece in corso una vera storia d'amore. I filosofi si confrontano col cinema, li usano volentieri come raccolte di exempla, e talvolta offrono analisi di notevole pertinenza (la lettura di "The Tree of life" fatta da Emanuele Severino sul "Corriere della Sera" di cui dirò più avanti) mentre citare i filosofi è diventata per gli studiosi di cinema quasi una moda.

Certo oggi sorridiamo ricordando quando, nell'Italia dominata dalla cultura crociana, ci si chiedeva timorosi se il cinema fosse o no un'arte.  C'è piuttosto il rischio che il cinema non sia più, per la filosofia, un problema: in nessun senso. 

Un pericolo, ad esempio, è di considerare soprattutto i film come storie che permettono di illustrare problemi filosofici, senza che il cinema stesso diventi davvero oggetto di riflessione. In questa direzione andavano ad esempio "Da Aristotele a Spielberg" di Julio Cabrera o i libri di Umberto Curi. 

Troppo spesso insomma rimane inevasa la domanda che Stanley Cavell ha posto come titolo di un proprio saggio: «Cosa succede alle cose in un film?» – che implica poi un'altra domanda: «Cosa succede a chi guarda un film?». Per dar conto dell'intreccio di ansie collettive, creazione individuale, sistema della comunicazione può apparire salutare allora l'approccio "selvaggio" di un pensatore come Slavoj Zizek, che non esita davanti alle implicazioni estreme e oscene del visibile (la violenza, la pornografia).


Nel corso del Novecento, quelle immagini in movimento, a dispetto dell'immediata analogia con le ombre ingannevoli della caverna di Platone, hanno spesso funzionato come un richiamo al difficile rapporto tra la conoscenza e gli oggetti, e più ancora al sensibile, al peso della singolarità. 

Filosofi provenienti da tradizioni culturali diverse e con percorsi lontanissimi, per un attimo sembrano sfiorarsi nella sala cinematografica, cercando forse cose non troppo diverse. Maurice Merleau-Ponty, alla fine degli anni Quaranta, si interessava al cinema mentre cerca di recuperare il corpo, grande rimosso della filosofia a partire dall' "io penso" di Cartesio. Siegfried Kracauer mostrava che il cuore del cinema è la "redenzione della realtà fisica", e dunque l'anima vera del film va cercata nel documentario. 

Decenni dopo, Gilles Deleuze leggerà i registi come se fossero filosofi, cercando il pensiero che sta dietro i loro stili, e anche a lui il cinema offre spunti alla teoria della conoscenza: l'inquadratura e il suo contenuto, ad esempio, il movimento di macchina e l'oggetto ripreso, sono per lui un tutt'uno, per questa via egli ripensava il rapporto tra singolo e totalità, oltre la dialettica. Sull'altra sponda dell'oceano, Cavell usa il cinema come luogo di confronto con ciò che ci è prossimo: una «filosofia delle immagini comuni», potremmo dire, sulla scia della "filosofia del linguaggio comune" del suo maestro J. L. Austin.

Oggi il cinema, in crisi storica e di identità, può essere più che mai un elemento problematico, un oggetto di riflessione. E per gli studiosi di cinema, uno dei vantaggi della filosofia sarebbe quello di considerare i film non come "testi", ma come parti di un'"esperienza" (conoscitiva, emotiva, sociale) che contribuisce a creare gli schemi in cui il mondo viene conosciuto e sentito. Il cinema rimane un banco di prova per il pensiero, per il nostro rapporto con il "reale": il numero 46 della «Rivista di estetica», curato da Domenico Spinosa e dedicato all'«Ontologia del cinema», parte proprio dalla necessità di pensare il cinema nel momento della sua morte (o reincarnazione), nel tempo delle immagini digitali. 

E non è un caso che tornino di moda oggi i primi teorici del cinema (da Munsterberg a Balasz), che un secolo fa si trovarono davanti le immagini in movimento su uno schermo, affascinati e sgomenti come il Serafino Gubbio di Pirandello. 

Così Umberto Eco in una celebre "Bustina di Minerva" del 1989 

"Alberto Moravia, nella sua rubrica di cinema  ha scritto che "L'orso" di Jean Jacques Annaud «oscilla tra il film d’autore e il prodotto di successo», mentre tutti ne avevano parlato solo come di un film che cerca di far leva sui buoni sentimenti, e sulla nostra ingenua propensione a vedere gli animali come esseri umani, capaci di fare ciao ciao con la manina.

E, sempre sull' "Espresso", Giorgio Celli argomentava che forse gli orsi si comportano anche così, ma che non è la realtà etologica che conta, bensì l'intento ecologico.

In ogni caso nessuno può mettere in dubbio che il film giochi su uno straordinario effetto di realtà. Vi ho ceduto anch'io: mi sono goduto il film di Annaud intenerendomi nei momenti giusti. E tuttavia seguivo la vicenda preso da un sospetto crescente: che il film non mi parlasse affatto di orsi. Avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto se avesse raccontato una storia di lucertole.

Infatti "L'orso" non ha per protagonista un orso, bensì il cinema in persona. E' un esercizio, una scommessa, una dimostrazione teorica - ma anche una dichiarazione d'amore - sulle possibilità del cinema e sul fatto che il cinema non è arte imitativa e realistica. Il cinema è un alto artificio che mira a costruire realtà alternative a spese di quella fattuale, che gli provvede solo il materiale grezzo. Il film di Annaud è un inno all'effetto Kulesov.

Lev Vladimirovic Kulesov è stato un grande cineasta e teorico del film di cui Pudovkin diceva: «Noi facciamo film, lui ha fatto il cinema». E aveva non solo teorizzato, ma realizzato in pellicole e in esperimenti di laboratorio tutte le magie del montaggio. Kulesov riprendeva il "grande" Muzuchin mentre guardava fisso davanti a sé, non importa con quale espressione. Poi in fase di montaggio mostrava in controcampo un piatto di minestra. 

Lo spettatore era convinto che l'attore esprimesse intensamente una ardente brama di cibo. Poi Kulesov cambiava il montaggio, e mostrava al posto della minestra un cadavere. Muzuchin esprimeva, per chi guardava, orrore, tristezza e sgomento. La faccia era sempre la stessa, ma il montaggio l’aveva caricata di sentimenti, ovvero aveva indotto lo spettatore a proiettare nella pellicola i sentimenti che si attendeva di veder espressi.

Un'altra volta Kulesov aveva mostrato una donna che si truccava davanti a uno specchio, sollevava da terra una sigaretta, si infilava le scarpe: ma la donna non esisteva, il regista aveva usato volta a volta la faccia, gli occhi, le mani, i piedi e la schiena, rispettivamente, di cinque donne diverse. Scriveva: «Si può mostrare che con il montaggio l'attore può anche non conoscere assolutamente le cause che lo costringono a esprimere dolore, gioia eccetera, e che nel cinematografo ogni espressione di sentimento da parte dell'attore non dipende dalle cause materiali di questi sentimenti».

Il pubblico di Annaud segue la tenera storia di un orsacchiotto senza rendersi conto che gli orsacchiotti usati sono più di uno e di colore diverso (ma si pensa che la differenza sia dovuta alla luce). Rivedendo i vari fotogrammi del film, ci si renderebbe conto che questi orsacchiotti hanno sempre la stessa espressione, o comunque una gamma assai limitata di espressioni ferme, per nulla simili a quelle umane. Ma il sonoro da un lato (che commenta le espressioni e i gesti con gemiti e mugolii teneramente antropofonici) e il gioco del montaggio inducono lo spettatore a pensare che quegli orsi patiscano quelle emozioni che noi patiremmo nelle stesse circostanze.

Il film di Annaud ci dimostra che con il montaggio si può dire tutto, specialmente quello che non c'è. Incontrando Annaud gli ho detto brutalmente che a lui degli orsi non importava nulla e che voleva fare un film sul cinema come bella menzogna, ovvero come arte. Mi ha risposto che era felice che qualcuno finalmente glielo dicesse. Gli ho chiesto perché non lo diceva lui. Mi ha risposto che ha tentato, ma la gente non gli crede. Gli chiedono notizie dell'orsetto.

Annaud ha dunque vinto la sua scommessa, e forse troppo? Per rispondere bisognerebbe decidere quale era la scommessa. Se era quella che dico io, ha forse ridotto troppo quei segnali impercettibili attraverso i quali avverte lo spettatore che egli sta facendo un gioco sulla fune, tra l'arte sull'arte e la poesia ingenua e sentimentale."

Si racconta - ma è poco meno che una barzelletta - che il filosofo Benedetto Croce, incuriosito dal crescente successo del cinematografo, chiese ad un suo discepolo di fargli una relazione sul fenomeno, invitandolo naturalmente a visionare un certo di numero di pellicole in programmazione. Avendo avuto un parere del tutto negativo sulla presunta valenza estetica delle immagini in movimento, se ne disinteressò totalmente, come d'altronde fecero molti altri intellettuali e non solo i filosofi.  


L'autore con Emanuele Severino e Enzo Rullani
 Salò (BS) 2005

Cent'anni dopo, più o meno, il filosofo  Emanuele Severino, maestro che tanto ci manca,  scrisse per il  "Corriere della sera",   un lungo articolo su "The tree of life", il film del regista Terence Malick, con Brad Pitt, Sean Penne e Jessica Chastain.  premiato con la Palma d'oro a  Cannes nel 2011.  Il film, pur essendo tra i maggiori incassi di quella fine stagione (quarto posto in Italia), divise critica e pubblico in maniera trasversale. 

Ovvero, non è solo il semplice piacere della visione a stabilire un confine tra l'accettazione e il rifiuto delle oltre due ore di proiezione, ma anche l'interpretazione tematica e formale. 

C'è chi si è sentito quasi oppresso dallo squilibrio tra il gigantismo spettacolare e l'intimismo della vicenda; altri che si sono fatti trascinare dentro quell'universo panteista; altri ancora hanno letto, in trasparenza, un pessimismo assoluto, leopardiano - per usare le parole di Severino - nel rapporto tra l'uomo e il cosmo; e infine, buoni ultimi, non sappiamo se in maggioranza o in minoranza, tanti spettatori hanno pensato ad un tentativo di integrare natura e cultura, materia e spirito, ricercando l'essenza dell'uomo contemporaneo nella spiritualità metafisica.  

Poiché Severino contesta proprio questa lettura, è facile inchinarsi alla sua sapienza ed essere soddisfatti che un grande filosofo si degni di analizzare in profondità un testo filmico, che evidentemente merita le sue riflessioni, magari sollecitate dalla circostanza che Terence Malick, uomo dai mille mestieri e dalla scarsissima autopromozione, è stato interprete e traduttore di Heidegger per l'editoria statunitense.  

La questione in gioco, sotterranea ma avvertibile in tutto lo scritto del filosofo, è però un'altra, persino più interessante dell'analisi specifica del film. Dalla barzelletta su Croce e il cinema, difatti, è passato molto tempo, e, soprattutto nel dopoguerra, non sono stati pochi i saggi che hanno letto i film (spesso in maniera banalmente tematica) da un punto di vista filosofico. 

Soprattutto alcuni autori (per tutti Antonioni, Bergman, Tarkowski, ma anche il Kubrick di "2001, Odissea nello spazio" molto citato da Malick, hanno costruito autentiche filosofie del presente a partire dal linguaggio audiovisivo. Ne ho scritto nel giugno scorso su https://www.lospessore.com/20/06/2021/tra-condizionamento-e-libero-arbitrio-il-mondo-inquietante-di-stanley-kubrick/

Ora, Emanuele Severino non si limita ad interpretare "The tree of life", ma dichiara, più o meno, che il film è importante perché, alla pari dei miti greci e di tutte le grandi opere d'arte, trasfigura la paura (e la certezza) della morte attraverso il teatro, o anche, trattandosi di cinema americano, attraverso una festa salvifica, basamento di ogni civiltà che, in ogni tempo e in ogni luogo, cerca di sublimare l'inevitabile destino umano.  

Potremmo benissimo collegare questa considerazione ad una molto più prosaica di Borges: «il cinema americano ha salvato dall'estinzione la mitologia». Domanda: si può estendere la considerazione di Severino, che, appunto considera la mitologia come fonte filosofica, a tutto il cinema americano, a cui dopotutto appartiene pienamente e formalmente Malick?  

Se la risposta è sì, dobbiamo pur dire che Adorno e Horkheimer, quando, negli anni Quaranta, in "Dialettica dell'illuminismo" attaccarono duramente e senza alcuna possibilità di salvezza, l'industria culturale statunitense, principio e fine di ogni omologazione dei cittadini ad un pensiero unico, sbagliarono clamorosamente. 

Come in un immenso imbuto dove confluiscono e si scaricano le azioni, i sentimenti e le angosce umane, individuali e collettive, il cinema rimane il grande repertorio esistenziale di un'epoca che va ora a concludersi.

Giunto alla fine della propria parabola, nella forma in cui lo abbiamo inteso, prodotto  e fruito per oltre un secolo,  esso sta per lasciare il posto a nuove e più ardite teconologie e  suscita inquietudini simili a quelle che provocò al suo primo apparire e dalle quali ci salva come sempre la sublime ironia di Woody Allen:

"Allora tutto il film della mia vita mi è passato davanti agli occhi in un istante. E io non ero nel cast! "

Buon compleanno caro cinema, vero ed unico paradiso concesso in vita a noi umani !


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(*) Giornalista e saggista. Presidente Associazione PRUA

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