23 gennaio, 2022

Resilienti o resistenti ? Breve saggio sul naufragio.

 

Théodore GéricaultLa zattera della Medusa, 1819, Museo del Louvre

Resilienti o resistenti ?  

Naufraghi in cerca di nuovi approdi.

di Luigi Sanlorenzo (*)

 

Da qualche tempo la parola “ resilienza”  tenta di opporsi ai naufragi personali e sociali dettati talvolta da scelte incaute o dal sopraggiungere di eventi epocali, in parte imprevedibili,  che travolgono certezze, devastano territori e società, avvelenano l’ambiente e gli animi.

Il termine deriva dal latino "resilire", che letteralmente significa "saltare indietro". Di essa lo psicologo e trainer sportivo Pietro Trabucchi, autore del libro di successo “Resisto dunque sono” edito da Corbaccio, Milano, 2019,  ha dato la seguente definizione: “Quando la vita rovescia la nostra barca, alcuni affogano, altri lottano strenuamente per risalirvi sopra. Gli antichi connotavano il gesto di tentare di risalire sulle imbarcazioni rovesciate con il verbo «resalio». Forse il nome della qualità di chi non perde mai la speranza e continua a lottare contro le avversità, la resilienza, deriva da qui.”

“C’è una buona notizia – ha scritto nella presentazione Christian Zorzi, Medaglia d’oro alle Olimpiadi invernali di Torino nel 2006- ora sappiamo con certezza che gli esseri umani sono stati progettati per affrontare con successo difficoltà e stress. Discendiamo da gente che è sopravvissuta a un’infinità di predatori, guerre, carestie, migrazioni, malattie e catastrofi naturali. Noi siamo costruiti per convivere quotidianamente con lo stress. A questo scopo possediamo dentro di noi, come un dono, un insieme di risorse che abbiamo ereditato dal passato e che costituiscono la nostra «resilienza».”

 Trabucchi sostiene con certezza che gli esseri umani sono stati progettati per affrontare con successo difficoltà e stress. Gli uomini discendono da gente che è sopravvissuta a un'infinità di predatori, guerre, carestie, migrazioni, malattie e catastrofi naturali. Sono costruiti per convivere quotidianamente con lo stress.

  A questo scopo gli uomini possiedono, come un dono, un insieme di risorse che hanno ereditato dal passato: è la "resilienza" ad essere la norma negli esseri umani, non la fragilità; la "resilienza" psicologica è la capacità di persistere nel perseguir obiettivi difficili, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà relative.Il diario di Anna Frank o la vita di Nelson Mandela sono famosi esempi di resilienza.

 L'individuo resiliente presenta una serie di caratteristiche psicologiche inconfondibili: è un ottimista e tende a "leggere" gli eventi negativi come momentanei e circoscritti; ritiene di possedere un ampio margine di controllo sulla propria vita e sull'ambiente che lo circonda; è fortemente motivato a raggiungere gli obiettivi che si è prefissato; tende a vedere i cambiamenti come una sfida e come un'opportunità, piuttosto che come una minaccia; di fronte a sconfitte e frustrazioni tende a non perdere comunque la speranza. La "resilienza" può essere potenziata, e l'autore, con esempi tratti dal mondo dello sport metafora della vita e ambito da cui mutuare metodologie ed esperienze - mostra come fare.

In psicologia, la resilienza è un concetto che indica la capacità di fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.

Sono persone resilienti quelle che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e persino a raggiungere mete importanti.

 Il concetto di resilienza è stato sviluppato negli anni '50 dallo psicologo americano Jack Block (1924-2010), tramite uno studio a lungo termine sui bambini.

 Ne “Il dolore meraviglioso”, Boris Cyrulnik compie uno studio sistematico di una serie molto variegata di casi di bambini sottoposti a traumi violentissimi - dai piccoli rinchiusi negli orfanotrofi lager della Romania comunista, agli ex internati nei gulag sovietici, dai piccoli mutilati in guerra, alle vittime di abusi sessuali - dimostra come le sofferenze in tenera età non segnano per sempre il destino delle persone. Proprio nell'età che la psicologia considera critica per la costruzione della personalità - fino ai sei anni - i bambini hanno una capacità di resistenza ai traumi che l'autore definisce, con un neologismo mutuato dalla fisica, resilienza: questo permette anche ai più maltrattati di trovare autonomamente le risorse psicologiche per reagire e quindi per strutturarsi una personalità sana.

Si può concepire la resilienza come una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto all'esperienza, al vissuto e, soprattutto, al modificarsi dei processi mentali che ad essa sottendono.

Proprio per questo si rilevano capacità resilienti di tipo:

istintivo: caratteristico dei primi anni di vita, quando i processi mentali sono dominati da egocentrismo e senso di onnipotenza;

affettivo: rispecchia la maturazione affettiva, il senso dei valori, il senso di sè e la socializzazione;

cognitivo: quando il soggetto può utilizzare le capacità intellettive simbolico-razionali.

Una resilienza adeguata è il risultato dell'integrazione di tali elementi libidico- istintivi, affettivi, emotivi e cognitivi. La persona "resiliente" può essere considerata quella che ha avuto uno sviluppo psico-affettivo e psico-cognitivo sufficientemente integrati, sostenuti dall'esperienza, da capacità mentali sufficientemente valide, dalla possibilità di giudicare sempre non solo i benefici, ma anche le interferenze emotivo-affettive che si realizzano nel rapporto con gli altri.

Il pedagogista Andrea Canevaro definisce la resilienza come «la capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo una dimensione che renda possibile la propria struttura».

È una capacità che può essere appresa e che riguarda prima di tutto la qualità degli ambienti di vita, in particolare i contesti educativi, qualora sappiano promuovere l'acquisizione di comportamenti resilienti:

«La resilienza è la capacità di un individuo di generare fattori biologici, psicologici e sociali che gli permettano di resistere, adattarsi e rafforzarsi, a fronte di una situazione di rischio, generando un risultato individuale, sociale e morale.»

 

Il sociologo e demografo belga Stefan Vanistendael ha elaborato il modello della "Casita, che, raffigurando una casa, mette in scena e ordina i diversi fattori della resilienza. sociale e di gruppo: quando un gruppo, struttura sociale, istituzione o nazione forma strutture di coesione, appartenenza, identità e sopravvivenza come strutture sociali illimitati o complesse; sviluppa modi di affrontare quegli eventi e quelle situazioni che mettono in pericolo il gruppo e l'identità, formando linee guida che consentono la sopravvivenza, l'espansione e l'influenza del gruppo.

 

La "Casita di Stefan Vanistendael


Il terreno che con solidità deve reggere la casa.  Esso rappresenta la nostra capacità di aver cura di noi stessi e stesse, del nostro corpo, dei nostri bisogni di base.

 Le fondamenta che danno stabilità alla casa. Esse rappresentano i valori fondamentali in cui crediamo, ciò che è per noi non negoziabile, imprescindibile per sentirci bene con noi stessi.

Il giardino che circonda la casa e che la connette con l’esterno. Esso rappresenta i nostri incontri importanti, le nostre relazioni interpersonali che contano.

 Il salone al piano terra che è il cuore della casa. Esso rappresenta il senso che diamo alle cose che facciamo, il perché del modo in cui viviamo.

Le stanze del primo piano che possiamo adibire a tante cose e arredare in tanti modi. Esse rappresentano le mie attitudini, le mie competenze, le mie capacità acquisite o innate.

E,  infine, il sottotetto,  il luogo dove un tempo, nelle case contadine, veniva conservato il fieno che sarebbe stato utilizzato durante l’inverno successivo. Nella "Casita della resilienza", esso rappresenta il luogo rivolto al futuro, dove riporre i sogni e le aspettative di ciò che vorremmo fare un domani, appena ne avremo la possibilità.

Applicato ad un'intera comunità ovvero alla società anziché a un singolo individuo, il concetto di resilienza si sta affermando nell'analisi dei contesti sociali successivi a gravi catastrofi naturali o dovute all'azione dell'uomo quali, ad esempio, attentati terroristici, rivoluzioni o guerre. 

Vi sono processi economici e sociali che, in conseguenza del trauma costituito da una catastrofe, cessano di svilupparsi restando in una continua instabilità e, alle volte, addirittura collassano, estinguendosi; in altri casi, al contrario, sopravvivono e, anzi, proprio in conseguenza del trauma, trovano la forza e le risorse per una nuova fase di crescita e di affermazione. Pertanto, la resilienza è anche un concetto sociologico oltre che psicologico.

Un esempio del primo tipo è quello della comunità del Polesine che, a seguito della grande alluvione del Po del 1951, non riuscì a risollevarsi e subì una vera propria diaspora, disperdendosi nell'ambito di un grande processo migratorio che si spinse, tra l'altro, fino all' Australia. Altrettanto è accaduto in Sicilia  dopo il terremoto del Belìce del 1968 di cui abbiamo ricordato l’anniversario pochi giorni fa e di quello dell’Irpinia nel 1980, di cui chi scrive fu testimone in qualità di soccorritore scout, quando ancora la Protezione Civile nazionale era soltanto un vago progetto.

La città di Firenze, al contrario, pur avendo subito oltre 60 alluvioni dell' Arno nell'ultimo millennio, molte delle quali di intensità assolutamente eccezionale, ha conservato una straordinaria continuità nel tessuto economico, artistico e architettonico. I fattori identitari, la coesione sociale, la comunità di intenti e di valori costituiscono il fondamento essenziale della "comunità resiliente". Analoga esperienza vissi durante il sisma del Friuli, quattro anni prima dell’Irpinia,  dove il concorso solidale della popolazione restituì in pochi anni al territorio l’armonia che sembrava perduta.

Infine,  una breve nota di teoria organizzativa. Il Resilience Engineering è un campo di studio multidisciplinare che si occupa di sicurezza nei sistemi complessi e connette la resilienza nel suo significato originario psicologico al mondo economico. Un'organizzazione (impresa, azienda e contesti analoghi) è resiliente quando è in grado di affrontare i rischi, cogliendo opportunità anche nelle situazioni negative e rafforzandosi grazie alla risoluzione dei problemi. Sa quindi evolversi uscendo positivamente da situazioni di crisi in quanto è capace di gestire il cambiamento.

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Scagliata in tutte le direzioni  come un esorcismo laico, diventata parte del lessico politico, posta in esergo ad ogni piano di salvezza annunciato, “ resilienza” pare abbia preso il posto di “rinascita” “cambiamento” “resistenza” per indicare una possibile via di uscita al travaglio che tormenta il mondo. Eppure, mi chiedo quanto proprio la “laicità” del termine ne delinei il perimetro,  segnandone il limite.

 


In prossimità della Giornata della Memoria, trovo doveroso rievocare la vita e il pensiero di Dietrich Bonhoeffer (Breslavia, 4 febbraio 1906 – Lager di Flossenburg, 9 aprile 1945) il teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo. La sua opera più nota “Resistenza e Resa” , su cui buona parte della mia generazione si è formata, raccoglie le lettere ed altri testi scritti nel carcere berlinese di Tegel, dove fu detenuto dall’aprile ’43 all’ottobre ’44; pur da recluso,  Bonhoeffer riesce a leggere, scrivere, riflettere, pregare, riceve pacchi dai familiari e lettere, sia ufficialmente, sia clandestinamente.

 Il libro inizia con un prologo: si tratta di pagine offerte agli amici nel Natale ’42, nelle quali Bonhoeffer traccia un bilancio degli ultimi dieci anni.

Alcune riflessioni appaiono già straordinariamente profonde ed interessanti, fin da subito l’Autore si delinea come persona che sa compromettersi, agire nella storia con coerenza, accettare anche il pericolo: “Attendere inattivi e restare ottusamente alla finestra non sono atteggiamenti cristiani” (p. 71). Vi è l’accettazione della sofferenza, solo se inevitabile, in piena libertà sulle orme di Cristo.

Nella lettera del 21 febbraio ’44, Bonhoeffer si chiede dove sia il confine tra la “necessaria resistenza” e la altrettanto necessaria resa al «destino», assumendo ad emblema dell’una Don Chisciotte e dell’altra Sancho Panza di cui ho scritto pochi giorni fa su queste pagine https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/profili-nel-tempo-dell-erranza-don.html

Ne deduce che il destino va affrontato e, in caso, ci si debba sottomettere ad esso. “Possiamo parlare di «guida» solo al di là di questo duplice processo; Dio non ci incontra solo nel «tu», ma si «maschera» anche nell’«esso», ed il mio problema in sostanza è come in questo «esso» («destino») possiamo trovare il «tu» o, in altre parole,come dal «destino» nasca effettivamente la «guida».

I limiti tra resistenza e resa non si possono determinare dunque sul piano dei principi; l’una e l’altra devono essere presenti e assunte con decisione. La fede esige questo agire mobile e vivo. Solo così possiamo affrontare e rendere feconda la situazione che di volta in volta ci si presenta” (p. 289).

 Dapprima Bonhoeffer  considera che ormai il mondo è diventato adulto e può proseguire benissimo senza la presenza di Dio. Le varie scienze, filosofie, il diritto, la politica si sono sganciati, nel corso del loro sviluppo, dall’idea di Dio e sono divenute autonome, di conseguenza sono valide «etsi Deus non daretur», come se Dio non ci fosse. L’uomo basta a sé stesso e sembra cavarsela benissimo. Dio “viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno” (p. 399).

 Bonhoeffer osserva che l’apologetica cristiana si è sempre schierata contro questa sicurezza del mondo, mettendo in campo le «questioni ultime» (la morte, la colpa) cui solo Dio può dare una risposta. Bonhoeffer ritiene che il progredire delle scienze umane relega sempre più tali questioni in sottofondo, un giorno anch’esse verranno risolte senza la presenza di Dio.

 A questo punto sopraggiungono quelli che Bonhoeffer chiama “gli epigoni secolarizzati della teologia cristiana, cioè i filosofi esistenzialisti e gli psicoterapeuti, e dimostrano all’uomo sicuro, soddisfatto, felice, che in realtà è infelice e disperato, solo che non vuole riconoscere di trovarsi in una situazione sventurata, di cui non sapeva nulla e da cui solo loro possono salvarlo”(p. 399).

Questi attacchi al mondo adulto vengono fortemente criticati da Bonhoeffer.

Il risultato è una visione di Dio come «tappabuchi», che interviene nelle condizioni di debolezza dell’uomo e sembra approfittarne per insinuarsi nel mondo, accontentandosi così di una posizione marginale, defilata e legata non alla pienezza dell’essere umano, ma ai suoi aspetti più precari.

“Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana (qualche volta per pigrizia mentale) è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani; questo inevitabilmente riesce sempre e soltanto finché gli uomini con le loro proprie forze non spingono i limiti un po’ più avanti, e il Dio inteso come deus ex machina non diventa superfluo […] …io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile. La fede nella resurrezione non è la «soluzione» del problema della morte. L’«aldilà» di Dio non è l’aldilà delle capacità della nostra conoscenza! La trascendenza gnoseologica non ha nulla a che fare con la trascendenza di Dio.

È al centro della nostra vita che Dio è aldilà. La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio” (pp. 350-51).

La religione lavora molto sulla sola interiorità umana, sui limiti, invece per Bonhoeffer conta molto la liberazione della storia, la religione è legata all’apologetica, ai limiti umani, a un Dio depotenziatore dell’uomo, onnipotente, un Dio che il mondo, ormai indipendente, rifiuta sempre più. Che cosa proporre allora, se non si vuole eliminare totalmente Dio dall’orizzonte umano?

 Il discorso passa attraverso Gesù Cristo. “La speranza cristiana della resurrezione si distingue da quelle mitologiche per il fatto che essa rinvia gli uomini alla loro vita sulla terra in modo del tutto nuovo e ancora più forte che nell’Antico Testamento. Il cristiano non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo («mio Dio, perché mi hai abbandonato?») e solo così facendo il crocifisso e risorto è con lui ed egli è crocifisso e risorto con Cristo. L’aldiquà non deve essere soppresso prematuramente. Nuovo e Antico Testamento restano concordi. I miti della redenzione nascono dalle esperienze umane del limite. Cristo invece afferra l’uomo al centro della sua vita” (p. 412).

 La proposta è quella di un cristianesimo molto umano, calato nella terra e nell’uomo, totalizzante. Alle volte sembra che la «pars destruens » del discorso bonhoefferiano sia più forte di quella «costruens», in realtà Bonhoeffer non ha mai smesso di essere un credente, a costo di risultare scomodo e ne ha dato profonda testimonianza con la sua vita.

“Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. […] Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio, solo il Dio sofferente può aiutare” (p. 440).

 Bonhoeffer constata che Gesù ha “chiamato fuori” gli uomini dai loro peccati, non “ve li ha fatti entrare”, si è preso cura di emarginati, di poveri, di prostitute e pubblicani, ma non solo di loro, non ha mai messo in questione salute e felicità, né le ha condannate,ma anzi ha sempre guarito. Ha voluto per sé la vita umana tutt’intera, completa.

Il discorso sull’ “antropos teleios”, l’uomo intero, era stato accennato da Bonhoeffer ancora nel gennaio ’44, basandosi sul versetto di Matteo 5, 48 “Dovete essere completi, come è «completo» il Padre vostro nei cieli”, sottolineando come, per un cristiano, tutti i vari eventi dovessero essere riportati a un comune denominatore, non ci dev’essere una frammentazione, un fermarsi al dato contingente, ma un rivolgersi sempre a una dimensione unitaria, a un grande progetto del quale si vedrà lo scopo. Nel maggio ’44, sotto i bombardamenti che si facevano sempre più frequenti, egli osserva come la maggioranza dei suoi compagni si soffermi di solito agli affanni immediati (fame, paura, disperazione), ma non è quella la direzione giusta per affrontare la situazione.

 “Nella misura in cui ad esempio nel corso di un allarme veniamo spinti in una direzione diversa da quella della preoccupazione per la nostra sicurezza personale, cioè ad esempio nell’impegno di diffondere tranquillità intorno a noi, la situazione diventa completamente diversa; la vita non viene ridotta ad una sola dimensione, ma resta pluridimensionale-polifonica. Quale liberazione è poter pensare e conservare nel pensiero la pluridimensionalità!” (pp. 381-82).

 Caduta la religione, viene da chiedersi a questo punto che cosa possa distinguere i cristiani nel mondo, essi devono vivere «mondanamente», non tralasciare alcun aspetto della vita, godere e soffrire considerando ogni evento un dono di Dio: “Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base ad una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo” (p. 441).

La ponderosa testimonianza rappresentata dal carteggio di Bonhoeffer può venir letta su piani diversi: teologicamente rivela idee innovative, profonde, che purtroppo non hanno potuto venir riunite in una trattazione organica come l’Autore aveva progettato, umanamente costituiscono un documento molto toccante sul modo in cui Bonhoeffer ha vissuto l’esperienza tragica del nazismo e della prigionia, alla luce sempre della sua fede, con un impegno convinto, costante, coraggioso che l’ha portato ad affrontare anche il patibolo con serenità, secondo quanto riferito dal medico del campo: “Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio” (p. 502).

Quella che si delinea nell’epistolario è la figura di un uomo giusto e retto, fedele fino alla fine al proprio ideale, capace di coltivare rapporti umani bellissimi e di livello molto alto, basti vedere la fraterna amicizia con Bethge, un uomo colto e raffinato, dotato di straordinaria profondità di pensiero e di enorme forza morale, che ha saputo resistere alla barbarie e al male.

Una resistenza immersa nella storia (Bonhoeffer prese parte al complotto contro Hitler e si offrì personalmente per uccidere il tiranno, disposto poi a renderne conto a Dio), ma costituita anche dalla precisa volontà di non lasciarsi travolgere dallo sconforto e dall’abbattimento della prigionia, cercando sempre un significato più alto nei fatti contingenti e conservando, pur nella sofferenza, la speranza nonostante la nostalgia e l’isolamento.

Nella grande «polifonia» della vita esiste un «cantus firmus» costituito da Dio, che non toglie nulla all’esperienza terrena o all’amore umano, ma lo valorizza e ne fa il suo contrappunto, “anche il dolore e la gioia appartengono alla polifonia della vita nel suo complesso, e possono sussistere autonomamente l’uno a fianco all’altra” (p. 375).

In sintesi, la lettura  è decisamente impegnativa sia per gli argomenti trattati, sia per gli innumerevoli spunti di riflessione e gli interrogativi che essa pone, sia per la mole dell’epistolario (circa 500 pagine), è un percorso da farsi gradualmente, interiorizzandone i contenuti poco per volta.

Bonhoeffer è stato sicuramente un uomo che ha saputo pensare in grande, senza fermarsi ad un orizzonte ristretto, nella convinzione che, pur nell’infinita frammentarietà dell’esistenza, vi sia alla fine uno scopo e un compimento più alto capace di dare un senso a tutti gli eventi ,anche ai più negativi. Di fronte alle sue parole rimane il rimpianto che un’umanità così autentica e un’intelligenza così brillante siano state spente anzitempo dal male e dalla barbarie.

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Resilienti o resistenti,   siamo tutti naufraghi.

A differenza di quanto hanno narrato le grandi opere della letteratura mondiale traendone spunto per storie indimenticabili,  https://www.linkiesta.it/2020/09/robinson-crusoe-naufragio-bussola/, il naufragio contemporaneo non ha nulla di epico. Oggi si è fatto deriva, condizione di vita,  angoscia e devianza, ricerca perenne ed inquieta di mancati approdi e tutti siamo Robinson, alla ricerca di una mitica Dryland. Per trovarla dovremo diventare mutanti, dovremo cioè sviluppare inedite branchie che ci permettano di acquisire sentimenti nuovi, di percepire nuovi orizzonti, di muoverci, mobilis in mobile come recitava il motto del Nautilus immaginato da Jules Verne, negli ambienti in continua trasformazione. 

Se non lo faremo, se resteremo aggrappati a navi che affondano,  senza il coraggio di andare “per l’alto mare aperto” regaleremo il mondo ai tanti smokers che vorrebbero ammaliarci anche in questi giorni con promesse che sanno già di non mantenere,   per strapparci dalle mani e dalla mente la mappa della speranza.


Trailer del film Waterworld, 1995, diretto da Kevin Reynolds





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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA

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