Leonardo da Vinci, La dama con l'ermellino,1490, Museo Czartoryski, Cracovia |
Scoiattoli, furetti e vecchie volpi
di Luigi Sanlorenzo
E' di tutta evidenza che la partita del Quirinale è decisiva, come mai prima nella storia della Repubblica, per il futuro del Paese.
La singolare circostanza che lega a doppio filo il destino del Colle più alto con Palazzo Chigi ricorda tanto l'espressione latina "simul stabunt, simul cadent" . Il primo uso diffuso sui media, che rese familiare l'espressione anche ai non giuristi, fu in occasione di una delle prime crisi tra l'Italia fascista e il Vaticano a proposito del Concordato da poco sottoscritto. Si attribuisce la frase a Papa Pio XI che avrebbe affermato che la messa in discussione del Concordato avrebbe travolto gli interi Patti Lateranensi e fatto riaprire la Questione Romana.
La locuzione latina ebbe un momento di popolarità quando fu pronunciata, in una versione corrotta (simul stabunt vel simul cadunt), da Claudio Martelli, in un discorso parlamentare del 1988. L'errore, corretto al volo dal coltissimo Alessandro Natta (“Cadent, Martelli, cadent!”), ebbe uno strascico in una successiva interrogazione parlamentare. Altri tempi, in cui i parlamentari avevano presente il latino come lingua di Cicerone e non come ballo sud americano !
Pazienza, Tempora mutantur, nos et mutamur in illis che significa "I tempi cambiano e noi cambiamo con essi". Magari non sempre in meglio, ma è così e pare proprio che ciò non sia reversibile. Forse.
Durante il Medio Evo, e soprattutto durante il periodo della Scolastica (dall’XI al XIV secolo), si diffuse il genere letterario detto “bestiario” (cioè Libro delle bestie). Tutti i bestiari però prendono a modello il Physiologus, anonima raccolta alessandrina di notizie intorno ad animali veri o presunti. La descrizione naturalistica, nei vari bestiari, non esclude (anzi include) l’interpretazione cioè l’attribuzione agli animali di un significato “spirituale”. Viene anzi il sospetto che l’interpretazione preceda e non segua la descrizione – cioè che la descrizione, zoologica ed etologica, sia stata costruita intorno al suo valore simbolico. In tal modo, il “Libro delle bestie” diventa un libro esoterico ed ermeneutico.
Il bestiario di Cambridge
Nell’iconografia medievale a ciascun animale immaginario, spesso risultante dalla commistioni di parti di esseri reali con quelle mostruose di chimere, minotauri ed ircocervi, erano riconosciuti vizi o virtù, abiezioni o sublimazioni, poteri apotropaici e magici.
Il mito originario è il Minotauro, l’ibrido tra uomo e toro partorito dalla regina Pasifae moglie di Minosse quale punizione del dio Poseidone, sentitosi beffato da una falsa promessa del sovrano di Creta. Rinchiuso nel labirinto di Cnosso costruito da Dedalo, gli venivano dati in pasto ogni anno sette giovani e sette fanciulle inviati dai cittadini di Atene, quale tributo dopo la sconfitta militare subita. La trama è nota e Teseo ne fu l’eroe, con l’aiuto decisivo di Arianna.
Il valore anagogico della leggenda cretese ha affascinato schiere di scrittori da Ovidio a Virgilio, da Dante Alighieri a Jorge Luis Borges, a Umberto Eco, passando per Franz Kafka, di artisti quali Antonio Canova, Gustav Klimt, Friedrich Dürrenmat (pittore oltre che maestro del Thriller di cui ricorrono i trenta anni dalla morte) il già citato Pablo Picasso nelle Minotauromachie, nonché musicisti antichi e moderni da Mozart in Idomeneo ai Pink Floyd in The dark side of the moon.
La psicoanalisi ha trovato nel mito una fonte inesauribile di riferimenti iconici e simbolici e Minotauro è il titolo dell’importante rivista di Psicologia fondata da Francesco Paolo Ranzato nel 1973 e ora diretta da Luca Valerio Fabj.
«Minotauro è il desiderio irrazionale che si compie con la soddisfazione del bisogno fisico. Ma anche è l’intederminismo ontico, che le fugati emersioni dell’inconscio introducono come definizione del soggetto, non cessa di isolare nel soggetto un cuore, di non-senso» secondo Sigmund Freud, poi ripreso da Jaques Lacan.
E, come scrivono Marta Superdi e Cristina Butti «Jung parla del Minotauro come dell’archetipo dell’immagine materna divorante e del percorso dell’anima verso l’equilibrio del proprio sé: esso è nella maggior parte dei casi espressione della brutalità, dell’istintualità irrazionale che non conosce morale , della violenza al di là del bene e del male».
Nel dialogo socratico Eutidemo, Platone fa parlare Socrate descrivendo la struttura labirintica del dialogo: «Giunti all’arte di regnare ed esaminandola a fondo, per vedere se fosse quella a offrire e a produrre la felicità, caduti allora come in un labirinto, mentre credevamo di essere ormai alla fine risultò che eravamo ritornati come all’inizio della ricerca, e avevamo bisogno della stessa cosa che ci occorreva quando avevamo incominciato a cercare»
Una sorta di “eterno ricominciamento” che rimanda al mito di Sisifo, trova tragica epifania nel governo italiano guidato da Giuseppe Conte, dove sembra si sia perso ogni legame con le fonti valoriali della Repubblica e, in un labirinto complicato, si aggirano tristi sicofanti e anime perse alla ricerca della propria identità, divorando nel frattempo idee, risorse e speranze, nell’attesa di un filo che nessuna Arianna sembra in grado di offrire in soccorso, prima che giunga il Minotauro per divorarle.
Anime perse che coltivano il mito di Chimera. Nella mitologia, la chimera è un leggendario mostro composto da parti di diversi animali. La descrizione della chimera varia da leggenda a leggenda. Nell’ Iliade viene descritta con dovizia di particolari, come “mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco”. Avrebbe quindi il corpo di una capra (non a caso il suo nome, in greco, è χίμαιρα), con la testa di leone e la coda da serpente.
Secondo la leggenda, è figlia di Tifone, il gigante dalla testa di serpenti e di Echidna la vipera, per metà donna bellissima e per metà orribile serpente maculato; viveva a Patara nella regione della Licia in Anatolia. Chimera ebbe fratelli illustri: Cerbero, cane infernale dalle tre teste, l’Idra uccisa da Ercole, e Ortro feroce cane a due teste guardiano delle mandrie del gigante Gerione.
Un essere feroce, dunque, noto per compiere molte razzie e scorrerie nel territorio dove viveva. Così un giorno il Re di Licia, Giobate, chiese (in malafede) a Bellerofonte di eliminarla: con l’aiuto del cavallo alato Pegaso, domato grazie all’intervento della dea della ragione, Minerva, Bellerofonte eliminò il terribile mostro, grazie ad una lancia con una punta in piombo, che scagliò nella bocca del mostro uccidendolo. Il mito sarà poi all’origine dell’agiografia cristiana di San Giorgio e il drago.
L’interpretazione medievale vedeva nella Chimera il coraggio e la forza del leone (simbolo del sole, del calore e dell’estate), la malvagità del serpente (la notte, la vecchiaia e l’inverno) e la via di mezzo dei due stadi nella capra (la transizione, il crepuscolo, l’autunno e la primavera). In questo senso, la Chimera divenne una sorta di simbolo del cambiamento, con un’accezione tuttavia ancora negativa, in quanto immagine distorta della trinità. Con il passare dei secoli, la Chimera divenne infine simbolo delle illusioni, delle fantasie azzardate, nonché dei sogni irrealizzabili e pericolosi.
Il significato del termine chimera indica infatti ancora oggi un’illusione, una distopia, una fantasticheria, un miraggio, un abbaglio, un’ipotesi assurda, un sogno vano. La chimera è un proposito, un disegno irrealizzabile. Un incubo ad occhi aperti.
“Inseguire chimere” sembra il motto fondativo della principale forza politica che sostiene il governo, nata da un sogno visionario, in parte allucinatorio e diventata parodia di se stessa poiché, abbacinata dal mostro che venera, come una locusta non ha alcuno scrupolo a cambiare partner, nell’illusione di cibarsene dopo la morte, non accorgendosi del rischio contrario.(Era il 2020, ndr)
La più famosa raffigurazione è la Chimera di Arezzo, un bronzo etrusco di circa ottanta centimetri, probabilmente opera di un’équipe di artigiani attiva in quella zona della Toscana, che combinava modello e forma stilistica di ascendenza greca o italiota all’abilità tecnica fornita da maestranze etrusche.
È conservata presso il Museo archeologico nazionale di Firenze, tenuta a bada da attenti e circospetti custodi perché se ne evitino futuri danni al Paese ed affinchè essa non torni mai più a dilagare nelle felici italiche plaghe.
Andando con la memoria agli anni in cui chi scrive sfogliò le pagine del Bestiario nell’edizione detta di Ashmole nella Bodleian Library dell’Università di Oxford, ci imbattiamo nell’Ircocervo. La figura mitologica hircocervus, parola composta da hircus (“capro”) e cervus (“cervo”), designa un animale mitologico per metà caprone e per metà cervo, descritto da Diodoro Siculo come: «avente corna di cervo, e il mento irto per la lunga barba, spalle pelose, impeto velocissimo nel primo correre, e facilità a stancarsi subito».
Già citato con il medesimo significato da Aristotele prima e da Luciano di Samosata, Severino Boezio e Guglielmo di Occam (quello del “rasoio”) successivamente, il primo ad evocarne l’immagine nel dibattito politico italiano fu Benedetto Croce nel 1942, con riferimento al liberalsocialismo quando attaccò, accusandolo di irrealismo, il socialista Guido Calogero che nel Manifesto del Liberalsocialismo aveva tentato di unire due concetti che egli considerava, invece, inconciliabili.
Nonostante i nobilissimi padri, è a Francesco Cossiga, ottavo Presidente della Repubblica dal 1985 al 1992, grande intellettuale e profondo conoscitore di uomini e cose non sempre commendevoli della storia patria, che si deve l’introduzione del termine nel lessico politico italiano. L’espressione, nota allora a pochi studiosi e ad eminenti bibliotecari, fu scagliata come un petardo nella scena politica italiana.
Il Gattosardo, come lo definiva Dagospia, lanciò l’anatema dell’Ircocervo, come l’infausta profezia di una maga maligna, sulla culla dell’Ulivo di Romano Prodi, assumendolo ad epitome dell’incongruità di quella formula politica. E fu tempesta che ancora non oggi non si placa.
Applicata in un nuovo e più inquietante contesto, essa sta squassando il dibattito politico davanti al tentativo maldestro ed incauto di unire il Partito Democratico al Movimento Cinque Stelle, nell’intenzione di fronteggiare l’avanzata della destra sovranista. Avendo su quanto il cuore di tenebra di quel movimento batta a destra, non posso non ricordare l’usanza cara al re etrusco Mesenzio di legare un vivo e un morto, seppellendoli nella stessa fossa.
E questo sarebbe il destino del Partito fondato il 14 ottobre 2007 da Walter Veltroni, Romano Prodi, Pierluigi Bersani, Giuliano Amato, Tullia Zevi e da tanti altri, affidandone i destini elettorali ad una proposta che nessun elettore di buon senso comprenderebbe, nemmeno in nome di un’Union sacrée già connotata da infausti esiti per quel Paese alla vigilia della Grande Guerra e per il nostro con la clamorosa sconfitta della “gioiosa macchina da guerra” nel 1994.
Si ravvedano, pertanto, quei leader minimi che in falsetto declamano di voler far percorrere all’Italia una strada su cui sono in agguato i peggiori mostri del Bestiario che ho evocato e su cui l’ammonimento del Gattosardo potrebbe non bastare poiché, come scrisse Gesualdo Bufalino nella raccolta di aforismi Malpensante (Bompiani, Milano, 1987) : «Vi sono esseri sfortunati, la cui unica ambizione è, per tutta la vita, di perfezionare il disastro».
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Giornalista e saggista. Presidente PRUA
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