13 marzo, 2022

Dialoghi infernali di ieri e di oggi


Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio Universale, 1541 (particolare) Cappella Sistina

L'eterno patto per il potere

di Luigi Sanlorenzo (*) 


"Noi ti garantiamo l’efficacia vitale di ciò che compirai col nostro aiuto. 

Tu sarai guida, tu segnerai il cammino dell’avvenire, 

nel nome tuo giureranno i ragazzi che, grazie alla tua follia, 

non avranno più bisogno di essere folli. 

Della tua follia si nutriranno in piena salute, e in loro tu diventerai sano."

Il diavolo ad Adrian Leverkühn

Thomas Mann, Doctor Faustus


Nei giorni scorsi ho evocato su queste pagine il dissidio interiore di Ivan Karamazov che lo porta alla lucida follia rivelata nella parte quinta del romanzo di Dostoevskji al capitolo "Il Grande Inquisitore".https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/03/vera-e-falsa-liberta-il-potente.html

Nell' inesausto tentativo della grande letteratura europea di decifrare il potere e il demone che, con il consenso dell'interessato, ne scatena il delirio di onnipotenza, un posto speciale tocca al "Doctor Faustus" di Thomas Mann, l'opera che, dipinta sulla grande tela della Germania nazista sull'orlo del precipizio della Seconda Guerra Mondiale,  riprende la tradizione del Faust di Goethe,  portandone i temi nella scottante attualità di quegli anni che tornano ad essere ora anche i nostri.

Pubblicato nel 1947, il romanzo  è l’ultima grande opera letteraria dedicata al mito di Faust. Se, di questa fortunata e illustre tradizione, il monumentale capolavoro di Goethe costituisce il vertice massimo, irraggiungibile, ineguagliabile  e "Il Maestro e Margherita" di Bulgakov  l’esito più sorprendente, nella sua incontenibile, travolgente energia tragicomica, il "Doctor Faustus" di Mann rappresenta davvero, artisticamente oltreché cronologicamente, l’approdo ultimo, conclusivo, vero e proprio «libro della fine», come lo definisce Hans Mayer. 

A renderlo tale è il momento storico nel quale viene concepito, scritto e ambientato, il momento più oscuro della storia della patria di Faust e del suo mito, quello segnato dal regime nazista, nella continua – strutturale di fatto – oscillazione di due piani temporali: quello in cui il narratore, l’umanista settembriniano Serenus Zeitblom, vive, la rovinosa e drammatica fase discendente della vertiginosa parabola della Germania nazista, che si avvia a schiantarsi e frantumarsi, e quello di cui racconta, nella ricostruzione della biografia del geniale compositore Adrian Leverkühn.

A differenza de "La Montagna Incantata" in cui l'anima di Hans Castorp è disputata tra l'umanista Settembrini e l'anarchico Naphta e alla fine trova una qualche salvezza, nel Doctor Faustus non c'è spazio per la redenzione.

La freddezza e l’indifferenza, l’una indissolubilmente legata all’altra, sono i due tratti caratteriali distintivi di Adrian Leverkühn, sottolineati subito dal diligente Serenus Zeitblom, suo amico d’infanzia, in apertura della biografia:

"La sua indifferenza era tale che raramente s’accorgeva di ciò che accadeva intorno a lui, della società nella quale si trovava, e siccome molto di rado chiamava per nome la persona con la quale stava discorrendo, mi vien fatto di supporre che il nome non lo sapesse nemmeno, mentre l’altro aveva certo ogni diritto di presumere il contrario. Vorrei paragonare la sua solitudine a un abisso nel quale sprofondavano, in silenzio e senza lasciar traccia, i sentimenti che gli altri nutrivano per lui. Intorno a lui era il gelo"

Già da queste poche righe iniziali emerge tutta la singolarità della personalità del protagonista, uomo del distacco, della distanza, asettico quasi nel modo di rapportarsi ai propri simili, anaffettivo, gelido, ghiacciato come le acque dell’infernale lago di Cocito di dantesca memoria. Della propria freddezza e della propria indifferenza Leverkühn, che si distingue per la capacità di sondare, indagare a fondo se stesso con sguardo critico, è perfettamente consapevole, come emerge da un importante documento, una lettera indirizzata al suo maestro musicale, Wendell Kretzschmar, che lo esorta a lasciare la teologia per dedicarsi completamente, a tempo pieno alla musica:

«Temo, caro amico e maestro […] di essere cattivo perché non ho calore. Dice, è vero, che sono maledetti e respinti coloro che non sono né caldi né freddi, ma soltanto tiepidi. Non direi di essere tiepido; sono decisamente freddo» (p.148).

La freddezza priva Leverkühn di quella robusta ingenuità che egli individua quale principale qualità dell’artista, sostituita da un’intelligenza rapida a saturarsi e dalla disposizione alla noia, alla stanchezza e alla nausea, accompagnata dalla cronica emicrania, fastidiosa eredità paterna.

Al suo arrivo a Lipsia Leverkühn è vittima di un buffo incidente che avrà conseguenze enormi, inimmaginabili. Un facchino lo conduce, contro la sua volontà, in un postribolo, dal quale fugge inorridito dopo il contatto con una prostituta:

«Nascondendo la mia agitazione mi vedo davanti un pianoforte aperto, un amico, mi avvicino e senza sedermi tocco due o tre accordi, rammento benissimo quali, perché la mia mente si occupava proprio di quel fenomeno sonoro: era la modulazione dal si maggiore al do maggiore, lo stacco rischiarante d’un semitono come nella preghiera dell’eremita nel finale del Franco cacciatore, all’entrata di timpano, trombe e oboi sull’accordo in do di quarta e sesta. Lo so per averci pensato dopo, in quel momento non lo sapevo, e mi limitai a toccare gli accordi. Allora mi viene vicino una brunetta in giubbetto spagnolo, con la bocca larga, il naso schiacciato e gli occhi a mandorla, un’esmeralda che col braccio mi accarezza la guancia. Io mi volto, respingo lo sgabello col ginocchio e ripercorrendo il tappeto attraverso l’inferno di voluttà, davanti alla ruffiana, raggiungo l’anticamera e scendo nella strada senza neanche toccare il passamano d’ottone» (p.162).

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È sul suolo italiano, nel paese di Palestrina, luogo d’origine del celebre compositore rinascimentale Giovanni Pierluigi, che avviene il fatidico e atteso incontro tra Leverkühn e il diavolo. Un diavolo multiforme, dal quale emana un freddo insopportabile persino per il protagonista, che deve imbacuccarsi per bene per poter sostenere il colloquio e non lasciarsi irretire dal gelo, e che si caratterizza per una malignità sconosciuta all’ironico e sconfitto Mefistofele goethiano e al misericordioso Woland bulgakoviano.

«Dite continuamente cose che sono in me e provengono da me, non già da voi» (261), obietta subito Leverkühn, come suo solito diffidente e distaccato. Un’obiezione molto dostoevakiana: ne "I demoni"  Stavrogin, confessa di avere certe allucinazioni, di essere in contatto con un «essere maligno, beffardo e ragionevole», multiforme come il diavolo manniano peraltro, concludendo infine: «Sono tutte sciocchezze, terribili sciocchezze. Sono io stesso sotto varie forme e niente di più» ; sulla stessa scia un altro celebre nichilista creato da Dostoevskij, l’ultimo Ivan Karamazov che, faccia a faccia con il proprio diavolo, esclama: «Ci sono momenti in cui non ti vedo e non ti sento, ma intuisco sempre quello che vai cianciando, perché sono io, io stesso che parlo, e non tu!» .

La malattia venerea contratta da Leverkühn attraverso il rapporto sessuale con la sua sventurata Esmeralda è il centro di tutto. Ora, la malattia, insieme con il suo opposto, la salute – i due termini potrebbero essere considerati come un unico termine, in quanto senza l’uno non può esistere l’altro - si impone come uno dei temi dominanti della letteratura e della filosofia primonovecentesche. 

Attraverso il ricorso alla malattia il diavolo manniano coglie l’essenza dello sconvolgimento artistico, letterario, filosofico, musicale a trazione espressionista che caratterizza i primi anni del XX secolo, e di cui Schönberg,   modello musicale per Leverkühn, si impone come uno dei più significativi esponenti. La malattia è garanzia di una creazione artistica alternativa, nuova, inaudita, e anche questo il diavolo dona al protagonista, oltre al tempo, oltre alla clessidra, insieme ad essa.

Il diavolo spiega a Leverkühn come la sua apparizione non sia frutto della malattia, ma possibile grazie alla malattia, configurandosi come una sorta di medium, e pubblicizza la propria ispirazione, ben più immediata ed entusiasmante dell’ispirazione elargita dall’alto:

"Un’ispirazione davvero beatificante, credente senza dubbi e tale da rapire, – un’ispirazione nella quale non c’è scelta, non c’è modo di migliorare e ritoccare, ma tutto è concepito come una vasta imposizione, mentre il passo si arresta e sublimi brividi scuotono il soggetto da capo a piedi e un fiume di lacrime di felicità erompe dai suoi occhi, – non è possibile con Dio, il quale lascia troppo da fare all’intelligenza, ma è possibile soltanto col diavolo, col vero signore degli entusiasmi" (p. 275).

Il diavolo lusinga il ritroso e diffidente Leverkühn, non avrà certo il fascino esotico e sensuale di Esmeralda, ma le garanzie offerte dalla ditta infernale sono comunque allettanti:

"Noi ti garantiamo l’efficacia vitale di ciò che compirai col nostro aiuto. Tu sarai guida, tu segnerai il cammino dell’avvenire, nel nome tuo giureranno i ragazzi che, grazie alla tua follia, non avranno più bisogno di essere folli. Della tua follia si nutriranno in piena salute, e in loro tu diventerai sano" (p.281).

Il diavolo garantisce a Leverkühn una follia creatrice che gli permetterà di raggiungere una gloria monumentale, di ergersi a supremo emblema artistico del proprio tempo, dispensatore di salute, in una prospettiva futura luminosa che stride clamorosamente con il drammatico avvenire storico della Germania, regno del terrore e di una violenza cieca, senza precedenti nella sua gelida sistematicità. 

Ma Leverkühn non si entusiasma,  ciò che gli interessa – interessa, attenzione, non spaventa - nella sua natura di dissacrante speculatore – il suo lato nietzschiano - più delle lusinghiere e gloriose prospettive terrene, sono le inquietanti prospettive ultraterrene. 

E il diavolo esaudisce la sua curiosità, descrivendo così il regno infernale, luogo umanamente impensabile e indefinibile, nei confronti del quale la lingua mostra tutti i propri limiti:

"Non è facile parlarne: voglio dire, a rigore non si può parlarne in nessuna maniera, perché la realtà non è congruente con le parole. Si possono certo dire e usare molte parole, ma tutte sono soltanto sostituzioni, stanno per nomi che non esistono. Non possono avere la pretesa di dire ciò che non si può mai descrivere o enunciare con parole. 

Questa è precisamente la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio, che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole, perché le parole “sotterraneo”, “cantina”, “mura spesse”, “silenzio”, “oblio”, “mancanza di salvezza” sono soltanto deboli simboli. 

Di simboli, mio caro, bisogna accontentarsi quando si parla dell’inferno, perché là tutto finisce, non solo la parola indicatrice, ma tutto, tutto… anzi questo è il principale punto caratteristico e ciò che se ne può dire sulle generali, ed è nello stesso tempo ciò che il nuovo arrivato vi apprende per prima cosa, ciò che da principio non riesce ad afferrare e non può comprendere coi suoi sensi, diremo così, sani; perché la ragione o qualsivoglia limitata comprensione glielo impedisce, perché, insomma, è incredibile, talmente incredibile da far impallidire, incredibile per quanto chi arriva se lo senta dire fin dall’inizio come un saluto e in forma concisa e decisa, che “là tutto finisce”, ogni pietà, ogni grazia, ogni riguardo e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante “Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima?”. 

"E invece sì - prosegue il diavolo -  lo si fa e avviene senza il controllo della parola, in cantine afone, laggiù in fondo dove Dio non ode, e per tutta l’eternità. Ecco, è male parlarne, sono cose che stanno lontano e fuori del linguaggio, il quale non ha niente a che vedere con tutto ciò, non ha alcun rapporto e pertanto non sa neanche quale forma temporale debba applicarvi, e quindi non ha di meglio che ricorrere al futuro quando dice: “Là saranno pianti e strida di dannati”. Va bene, queste sono parole scelte da una zona piuttosto estrema della lingua, ma pur sempre simboli debolucci e senza alcun rapporto con ciò che “sarà”… incontrollato, nell’oblio, fra spesse mura. È ben vero che nella chiusura ermetica a tutti i suoni il rumore sarà grande, smisurato e tale da stordire da lontano a furia di urli e gemiti, grida e brontolii, strida e insulti, implorazioni e lamenti, rimbrotti e schianti, di modo che nessuno udirà il proprio strepito, perché esso sarà soffocato nel fragore generale, nel fitto giubilo infernale e negli urli dei dannati, causati dalla perpetua ingiunzione dell’incredibile e dell’irresponsabile. 

Laggiù i dannati si mangiano la lingua dal dolore, ma non per questo formano una comunità; provano invece disprezzo reciproco e tra gli urli di dolore e i sospiri si scambiano le più sconce villanie, e i più raffinati e orgogliosi, quelli che non hanno mai pronunciato una parola volgare, sono costretti a usare le più sudice. Una parte dei loro tormenti e del loro scandaloso piacere consiste nell’escogitare gli insulti più lerci" (pp. 283-284).

Ecco, Leverkühn non sembra avere la possibilità di scegliere, di rifiutare magari la proposta, il suo destino appare segnato e, in tal senso, l’incontro con il diavolo si configura piuttosto come una burocratica formalità. Diavolo che infine stabilisce benefici e condizioni, diritti e doveri, i punti essenziali del patto:

«Tempo hai preso da noi, tempo geniale, tempo esaltante, ben ventiquattro anni ab dato recessi, che ti fissiamo come ultimo termine. Quando saranno passati e trascorsi, e sarà un’epoca lontana, e anche se un tempo così è un’eternità, ti verremo a prendere. Per contro ti vogliamo essere in questo frattempo sottomessi e obbedienti, e l’inferno ti sarà propizio, purché tu abrenunzii a tutti quelli che vivono, a tutto l’esercito celeste e a tutti gli uomini, poiché così dev’essere» (p.287).

Ma la condizione più dura, dolorosa, estenuante, esasperante, disumana in una sola parola, è la seguente:

"A noi tu, creatura fine e creata, sei promesso e fidanzato. A te non è lecito amare" (p.287).

È questa la condizione che rende il diavolo di Mann il più malvagio dell’intera tradizione letteraria ispirata al mito di Faust: se il Mefistofele di Goethe permette al protagonista di godere dell’amore di Margherita prima e di Elena poi, che rappresentano i due più grandi servizi resi al protagonista in cambio della sua anima, comunque salva al termine dell’opera, e se il Woland di Bulgakov ricongiunge il Maestro e Margherita, unendoli persino per l’eternità, il diavolo innominato del Doctor Faustus priva Leverkühn di quell’amore nel segno del quale è stata sancita la loro unione. Esmeralda resterà la prima e l’ultima. Solo una puttana sifilitica ad Adrian Leverkühn è stato concesso amare. Un prezzo altissimo, forse sproporzionato, anche per una merce dal valore enorme come il tempo geniale.

«L’amore ti è vietato in quanto riscalda. La tua vita dev’essere fredda, perciò non devi amare alcuna creatura umana. […] Freddo ti vogliamo, tanto freddo che le fiamme della produzione basteranno appena a scaldarti. In esse ti rifugerai dal gelo della tua vita…» (p.288).

Leverkühn, come sottolinea lui stesso, in questa alternanza di caldo e freddo è destinato a vivere già in questa vita terrena il castigo che lo attenderà dopo la morte. Tirarsi indietro non è più possibile, anzi, non c’è mai stato un momento in cui fosse possibile dire no, rifiutare, voltare le spalle e andare via. Accade ciò che doveva accadere, ciò per cui Leverkühn, nella mente di Mann, è stato creato. Tutto ciò che accade è inevitabile e irreparabile.

Come Stavrogin, Leverkühn non ha voluto essere soltanto tiepido, a differenza di Hans Castorp ha rifiutato l’ideale umanistico dell’aurea mediocritas, e se questo rifiuto può talvolta condurre a Dio, la maggior parte delle volte conduce al diavolo.

Per avverse vicende,   Leverkühn viene privato del conforto coniugale e di quello amicale di Schwerdtfeger; il suo affetto si rivolge allora tutto all’angelico Nepomuk, figlio di sua sorella Ursel, ma il diavolo non risparmia neppure il piccolo. 

No, un diavolo così crudele non è mai esistito nella storia della letteratura, e ciò insinua il sospetto che esso sia solo il frutto della follia di Leverkühn, un sospetto che Mann non smentisce mai nel corso del romanzo, ed è questo, proprio questo uno dei motivi della grandezza del Doctor Faustus.

Oramai prossimo alla fine della sua «vita spirituale», Leverkühn riunisce i conoscenti a Pfeiffering. Intende far ascoltare loro alcuni passi dell’ultima grandiosa creazione, la "Lamentatio Doctoris Fausti" eseguendoli al pianoforte, ma prima si lancia in un delirante monologo in cui confessa all’uditorio il suo patto con il diavolo. 

Leverkühn è ormai vittima della follia (tra i tanti spropositi, sostiene che Nepomuk sia il frutto della sua unione con la sirena Ifialta), e dopo aver terminato il monologo, scandaloso per molti dei presenti, alcuni dei quali sono persino fuggiti, indignati e inorriditi, si accomoda al pianoforte per iniziare finalmente la tanto attesa esecuzione, ma precipita di colpo a terra. La sua «vita spirituale» ha fine in questo preciso istante.

Vittima, come il suo modello filosofico, Nietzsche, della malattia mentale, Leverkühn regredisce ad uno stato infantile, torna al grembo materno, «dopo aver descritto un arco vertiginoso sopra il mondo» (p.573). Viene ricondotto a Buchel, nella casa d’infanzia, e qui muore, nel 1940, a cinquantacinque anni, quando la

"Germania, coi pomelli accesi, traballava […] al colmo dei suoi orrendi trionfi, in procinto di conquistare il mondo in virtù del solo trattato ch’era disposta a osservare e che aveva firmato col sangue. Oggi, avvinghiata dai demoni, coprendosi un occhio con la mano e fissando l’orrore con l’altro, precipita di disperazione in disperazione. Quando toccherà il fondo dell’abisso? Quando sorgerà dall’estrema disperazione, pari a un miracolo superiore a ogni fede, il nuovo crepuscolo di una speranza? Un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!" (p.577).

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Sono queste le righe conclusive del "Doctor Faustus" in cui torna e s’imprime l’immagine del dannato michelangiolesco che si copre un occhio e viene trascinato giù dai demoni. Ricorrendo a questo personaggio, Mann fornisce la rappresentazione artistica più efficace della Germania nazista sconfitta. 

In questo epilogo i due piani temporali oscillanti nel corso del romanzo si incontrano, nei destini di dannazione di Leverkühn e della sua patria. Perché anche la Germania ha stipulato il suo patto con il diavolo: ipotesi fascinosa e, soprattutto, consolante, perché l’orrore nazista fu il frutto di un accordo tutto umano, in cui i colpevoli non sono da ricercare solo tra i gerarchi nazisti. Il popolo tedesco, come ha dichiarato Primo Levi, di resistere ad essi neppure ha tentato:

"Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l’illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta.

Chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie: ma la vita riserva un giorno del giudizio a tutti gli uomini, prima o poi, e allora, quando si è chiamati a fare i conti, a tirare le somme, non ci si può più tirare indietro, non si può dire io non sapevo, non è permesso, e solo un occhio ci si può coprire, uno solo, mentre si viene trascinati giù, nell’orrore della complicità, della responsabilità, della colpevolezza."

Una lezione che ora il popolo russo, condotto al macello sociale ed economico interno e internazionale in nome di un patto diabolico tra il proprio leader e la memoria allucinata di un destino imperiale che egli assume a propria giustificazione e quale irrinunciabile missione,  dovrà presto apprendere quando il velo di propaganda - e di cospicui interessi di pochi - che nasconde ai più  il volto del loro autocrate si squarcerà,  lasciando vedere in tutto il suo "orrore" la lebbra di cui egli è cosparso.



Dal film Patto con il diavolo (Shortcut to Happiness) 2003, diretto da Alec Baldwin, tratto dal breve racconto "The Devil and Daniel Webster"  di Stephen Vincent Benét e e basato sul Dottor Faust.



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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA.

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/

 


12 marzo, 2022

Apocalittici e integrati

 

Pieter Brueghel il Vecchio, La parabola dei ciechi, 1568  

Museo Nazionale di Capodimonte


Pandemia, guerra e legioni di imbecilli

di  Antonio Calandriello (*)


Accantonata per un attimo l’emergenza pandemica, da qualche tempo sui social si assiste alla nuova ondata di esperti di geopolitica, di tattiche militari, di guerre e di negoziati.

La guerra in Ucraina, le cui cause ed origini appaiono abbastanza semplici da spiegare, riceve un proliferare di interpretazioni, anche cervellotiche, da parte di leoni da tastiera che, al confronto, le tesi dei microchip sottopelle iniettati con i vaccini per potere controllare le persone sono da considerarsi barzellette.

E qui la famosa esternazione di Umberto Eco trova immediatamente la sua realizzazione,con il passaggio immediato di tante legioni di imbecilli dalle specializzazioni improvvisate in virologia alternativa a quelle di politica internazionale.

Parto subito dalla mia posizione che è quella di una persona normale,che osserva i fatti e le notizie in maniera oggettiva e senza particolari dietrologie, provando a narrare solo quello che è successo, quello che tutti hanno visto.

Vladimir Putin, capo supremo della Russia, con un passato da guerra fredda e da agente del KGB, da sempre considerato un uomo forte dentro e fuori il suo paese, ha invaso,improvvisamente, un paese limitrofo che da qualche anno ha la “pretesa” di staccarsi dal suo passato, legato all’egemonia sovietica, e vuole occidentalizzarsi, come hanno già fatto altri stati della sua area geografica, chiedendo l’annessione all’Unione Europea e la protezione della NATO.

Lo ha fatto, tra l’altro, annunciandolo con una conferenza stampa, che è stata una specie di dichiarazione di guerra al mondo occidentale, sottolineando che l’Ucraina è una cosa della Russia, che la sua azione è mirata a mettere in sicurezza il suo paese, e che nessuno si deve intromettere, perchè altrimenti potrebbero esserci conseguenza inimmaginabili (leggasi guerra nucleare).

Con questi semplici concetti Putin, dopo avere minacciato il mondo, ha invaso l’Ucraina, e con il pretesto di una guerra difensiva ha portato la morte in un paese straniero, ha portato un esercito sterminato e i carri armati ad assediare le città ucraine, ha bombardato con i suoi aerei bersagli militari, ma anche centrali nucleari, ospedali ed asili nido, uccidendo migliaia di civili.

Questi sono i fatti, e quello che si vede ogni giorno sono civili che muoiono a casa loro, bombardati da soldati che vengono da un altro paese.

Partendo dai superiori dati oggettivi si passa, attraverso i social, a disamine spesso diverse della realtà, e si assiste alle più varie analisi da parte di persone che non sono mai state in Russia o in Ucraina, ma che improvvisamente conoscono alla perfezione la storia e la geografia di quei paesi, le cause dei loro mali, e cercano di giustificare Putin.

Lo stesso Putin che in questi giorni a Mosca fa fermare dalla polizia le donne e i bambini al solo sospetto di manifestazioni contro il suo pensiero e contro la guerra.

E così escono fuori le diatribe interne al territorio ucraino, la storia delle regioni separatiste, il Donbass, di cui fino a ieri nessuno conosceva neanche la localizzazione geografica.

Tutti,sui social, improvvisamente bene informati, tutti con notizie di prima mano,che quasi sempre provengono da amici che si trovano in quei paesi e sul campo di battaglia.

Peccato che in molti casi siano gli stessi che fino a qualche tempo fa pensavano che Donbass fosse una sacerdote jazzista.

Il dato che consegno ad una interessante analisi sociologica è l’allineamento, in posizioni pro Putin e contro l’Ucraina e l’Unione Europea, dei no vax e dei no green pass italiani.

Sono tutti, incredibilmente e scientificamente, omologati e schierati, in maniera univoca, a cercare giustificazioni all’ingiustificabile, a dare la colpa della guerra ai dissidi interni dell’Ucraina, all’Unione Europea, alla NATO, al Presidente Zelensky, per cui la gente sta morendo a causa di altri, non di Putin e di quelli che bombardano le città.

Facile dissertare sulle disgrazie altrui, seduti in una comoda poltrona, mentre piovono bombe sulle città e sparano sui bambini a qualche migliaio di chilometri di distanza.

E come prima si ricercavano le tesi dei paladini dell’anti-scienza, gli improbabili premi Nobel“de noartri” che lanciavano proclami contro le raccomandazioni della medicina ufficiale di tutti i paesi del mondo, ora ci sono i nuovi anti-eroi della guerra, i nuovi portatori della “verità che molti sconoscono”, i nuovi santoni.

L’ultima perla, in ordine cronologico, presente nei profili social di molti novax, è un corrispondente italiano dal Donbass, di padre russo e di nonni russi, evidentemente schierato e non imparziale, e che fa vedere, dai teatri di guerra, solo ed esclusivamente quello che interessa a lui, solo i morti per mano ucraina, mentre a pochi chilometri di distanza le città sono assediate dai carri armati russi.

L’approccio di questa gente è sempre quello: mai credere all’evidenza, mai dare per certe le informazioni che ti vengono date dai media.

Il concetto è sempre lo stesso: voi siete il gregge e credete a quello che vi raccontano, noi, che invece pensiamo, sappiamo la verità che i poteri forti vi nascondono.

Del resto è lo stesso approccio di quelli che scrissero che il massacro di Charlie Hebdo a Parigi era finto e i morti ammazzati degli attori. Ricordo che qualcuno mi disse, rispetto alle immagini dei terroristi mentre sparavano con i mitra e finivano i poveri passanti a terra, che erano chiaramente mitra finti e che era evidente che nulla fosse reale. E tutto questo mentre la gente moriva.

Giustificare i crimini di guerra con dietrologie pseudo politiche è cosa che fa veramente orrore. Ridicolo anche, da parte di improvvisati statisti, richiamarsi ai precedenti dissidi interni alla Ucraina. Della serie: gli ucraini hanno discriminato quelli del Donbass, quindi ben gli sta.

Quindi,quando l’Italia del nord sarà attaccata da eserciti stranieri, questa gente, con la medesima coerenza, richiamerà la questione meridionale per giustificare l’invasione dei nostri territori?

Tornando, purtroppo, alla guerra, non entro nel merito delle passate scelte politiche dell’Ucraina, ma mi chiedo, e chiedo ai tanti che oggi cercano,instancabilmente, di trovare per forza giustificazioni all’ingiustificabile orrore scatenato da Putin, per quale motivo un paese libero, che ha fatto una scelta verso una direzione, l’occidente, dovrebbe essere convinto con la forza a tornare sui suoi passi e a tornare ad essere annesso al vecchio impero russo. Perché la logica aggressiva di Putin a questo mira, a controllare i paesi vicini e ad imporre in maniera ferrea uno status quo che non ammette dissidenti e/o voci fuori dal coro.

La guerra fa orrore e nessuno, ripeto, dice che la politica ucraina non abbia commesso gravi errori.Come pure che la NATO non si sia spinta un po’ troppo in là nella sua espansione logistica.

Però è evidente che è Putin che ha invaso l’Ucraina, ha portato 150.000 soldati e aerei e missili e morte in terra straniera per riannetterla alla Russia, come in passato. E’ questo è un fatto.

E mi chiedo chi siamo noi per giudicare l’Ucraina, paese libero, che ha scelto di non volere rimanere in una situazione che ripudia (il dominio russo) e di voler transitare verso l’Unione europea o verso l’occidente, e per questo è stato attaccato e bombardato a casa sua.

Rispetto alle esternazioni del tanto dileggiato Presidente Zelensky, sarà anche uno con un passato discutibile, un ex comico prestato alla politica, come del resto pare ormai sia una consuetudine, anche nostrana, ma in questo momento, con il suo paese bombardato e con Putin che ha già dichiarato, chiaramente, le sue intenzioni,l’unica scelta, dal suo punto di vista, per salvarsi, a mio avviso disperata e sbagliata, ma per certi versi comprensibile, è quella di provare a tirare dentro la NATO e l’Unione Europea, perché la guerra è chiaramente persa, ed il destino dell’Ucraina segnato.

Chi criticai nostri politici rispetto agli aiuti all’Ucraina dimentica che l’Italia fa parte della NATO, per cui non mi pare che possa permettersi posizioni particolarmente diverse dai propri alleati, specialmente in questo momento, dove tutti sono coesi sulle sanzioni contro Putin e sulle sue responsabilità. Una voce fuori dal coro sarebbe pericolosissima in questo contesto, ci indebolirebbe a livello internazionale, e comunque i nostri accordi non ce lo permettono.

Certamente bene ritengo stiano facendo Europa e USA a fare, invece, scelte esclusivamente di supporto difensivo, estendendo solo la logica dell’art. 5 del trattato del Nord Atlantico all’Ucraina, ancorchècon una forzatura, perché quest’ultima non può essere considerata annessa alla NATO stessa.

Anche l’appello al rispetto alla Costituzione, altra litania dei no vax pro Putin, appare poco conducente.

Posto che, come sopra scritto, le nostre alleanze internazionali non ci lasciano, secondo me, grande scelta, non può tacersi che noi non stiamo attaccando nessuno, non stiamo dichiarando guerra a nessuno, stiamo solo aiutando un paese invaso e bombardato, solo perchè aveva pensato di entrare in rapporti con l’occidente, che è cosa diversa.

E’ evidente che lo spirito della nostra Costituzione riguarda dichiarazioni di guerra dirette dell’Italia ad altri paesi, non ne farei un caso simile a quello dei trattamenti sanitari obbligatori, anch’essi contemplati dalla Costituzione, nonostante le letture restrittive dei “costituzionalisti novax”.

Resta il mistero di tutti questi cervelli italiani, coperti ed allineati sempre verso posizioni estreme, che negano la realtà e alimentano il fuoco invece di gettare l’acqua. Sempre pronti a scegliere, tra varie opzioni, quella più improbabile e di rottura. Sempre pronti a schierarsi e a sputare verità assolute, solo per il gusto di dare interpretazioni singolari ed alternative.

Legioni di….persone che senza i social perderebbero la loro identità e non avrebbero più a chi raccontare le loro sentenze, e che proprio come le pecore, che tanto dileggiano, fanno tutti esattamente, scientificamente, gli stessi ragionamenti, hanno tutti gli stessi schemi mentali, vanno tutti nella stessa direzione.

Con l’augurio che questa guerra finisca prima possibile, che cessi questo orribile spargimento di sangue, e si tolga l’opportunità a tanti signori di raccontare le proprie improbabili verità assolute con il copia e incolla.


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(*) Dirigente pubblico. Socio PRUA.

https://www.associazioneprua.it/socio-antonio-calandriello/

 

Il colore della guerra.La discriminazione dei profughi.


(Immagine dal sito farodiroma.it)

In Polonia trattamenti diversi a seconda del colore della pelle 

di Stefano Recchia (*)


Non tutti i profughi sono uguali e non tutte le guerre sono uguali. Sulla Polonia, l’Ungheria, la Romania e la Slovacchia (frontiere orientali dell’Unione Europea al confine con l’Ucraina), stanno piovendo accuse di discriminazione razziale, in particolare sulla Polonia, paese in prima linea in questo momento sul fronte dell’accoglienza dei profughi.

Le voci sono state raccolte dalla stampa internazionale e dai social media a cui però è seguita anche la smentita di Varsavia. Quanto si sta documentando, al momento, è soprattutto un diverso trattamento, a seconda del colore della pelle.

Vere e proprie manifestazioni di razzismo

Le denunce di razzismo si stanno diffondendo di ora in ora su Twitter e sugli altri social sotto l’hashtag #AfricansinUkraine. Si denuncia un trattamento differenti dei migranti a seconda della loro origine ed una discriminazione dei profughi di pelle scura.

“Sembra ci sia una gerarchia: prima gli ucraini, poi gli indiani e gli africani per ultimi”. La sintesi è a opera di una ragazza nera, che appare in un filmato pubblicato dal Guardian. Il video contiene una serie di testimonianze che arrivano dai confini dell’Ucraina. Qui la violenza è rivolta a cittadini africani, asiatici e caraibici, molti dei quali studiano in Ucraina, e che sono adesso in fuga dal paese. 

Gli addetti alla sicurezza li respingono dai treni e dai bus, costretti a rimanere senza assistenza tra le temperature gelide del giorno e della notte, dopo un viaggio durato anche giorni.

Discriminati solo per il colore della loro pelle

La questione è stata condannata dall’ ambasciatore del Sudafrica in Ucraina, dal presidente nigeriano e dalla stessa Unione Europea. Charles Michel, in un punto stampa in Polonia con il premier polacco, Mateusz Morawiecki, ha chiarito che l’accoglienza dell’Unione europea non deve fare discriminazioni.

Anche l’Unione africana si è detta turbata dalle notizie e in un comunicato sul sito web dell’organizzazione, ha esortato tutti i Paesi a rispettare il diritto internazionale e offrire assistenza a tutti coloro che fuggono dalla guerra, indipendentemente dalla loro razza.

Alla luce di queste testimonianze viene da pensare che forse non tutte le guerre e non tutti i profughi sono uguali. Ci sono guerre “vere”, che vengono considerate di serie A e guerre “diverse” che vengono considerate di serie B.

Ci sono i profughi siriani, di cui ci siamo dimenticati, bloccati nelle foreste tra Bielorussia e Polonia a cui viene impedito l’ingresso in Europa, considerati profughi di serie B in quanto musulmani e dalla pelle scura. 

Anche loro, però, fuggono da una guerra, una guerra “vera”, così come lo è la guerra in Ucraina.

In un momento così delicato per il mondo e per l’umanità dovremmo recuperare un po’ di saggezza e di solidarietà umana. Le guerre sono tutte devastanti e gravi per chi le combatte e per chi le subisce. 

Discriminare chi fugge dalla guerra per la religione o il colore della pelle non ci rende tanto diversi dai feroci aggressori che le guerre le scatenano e le alimentano.

L'articolo è stato pubblicato il 3 marzo 2022 dal quotidiano no profit 
"Il Faro di Roma"
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Dello stesso autore si segnalano il saggio "Guerra giusta e interventi umanitari"
http://www.stefanorecchia.net/1/137/resources/publication_1038_1.pdf  (in italiano) di cui si consiglia vivamente la lettura.

e il libro: "Just and Unjust Military Intervention: European Thinkers from Vitoria to Mill" co-edited, with Jennifer Welsh -  Cambridge University Press, 2013. (Il testo è disponibile soltanto in inglese)




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(*) Brunico (BZ) 1978

John G. Tower, Distinguished Chair  in International Politics e National Security 

Professore associato alla Southern Methodist University (SMU) 

Profilo accademico su  

http://www.stefanorecchia.net/1/137/resources/full_cv_2_1.pdf

08 marzo, 2022

Fuori dal coro. Contrastare la guerra con la pace.


Il Rivoltoso Sconosciuto di piazza Tienanmen, 1989
(foto di Jeff Widener, Associated Press).

Quel mondo incapace di liberarsi del Novecento

di Guido Meli (*)


In queste ore di progressiva escalation in Ucraina,  larga parte del pensiero occidentale pare abbia consistenti difficoltà a lasciarsi alle spalle il paradigma bellico che ha caratterizzato il '900,  prolungandolo in una pista di sangue anche nel XXI  secolo.

Secondo tale schema mentale e strategico,  alla guerra  si oppone la guerra, alle armi si aggiungono armi fino ad evocare la più terribile - ed inutile-  tra di esse: quella nucleare.

Una pericolosa amnesia, non sempre dettata da motivazioni trasparenti e spesso legata ad obiettivi reconditi e non dichiarati, ricopre alcune delle intuizioni che hanno creato una concreta alternativa al modello tradizionale di resistenza. Senza andare troppo indietro nel tempo, ricordando i successi ottenuti dalla strategia non violenta del Mahatma Gandhi, basterebbe pensare al processo di pacificazione posto in essere da Nelson Mandela e da Desmond Tutu, recentemente scomparso, per evitare che si innescassero nei confronti dei bianchi sudafricani vendette di ogni genere. Un approccio dell'antica tradizione africana noto a molti come "Ubuntu" di cui Luigi Sanlorenzo ha scritto su queste pagine nel dicembre scorso 

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2021/12/la-scomparsa-di-desmond-tutu.html

Le domande che mi sono posto e che ripropongo in chiave problematica  ai lettori di "Nuovi Approdi" non hanno nulla a che fare con il pacifismo tout court nè con la rinuncia a priori nei confronti della guerra che anche la nostra Costituzione ammette,  pur in un' ottica esclusivamente difensiva e confidando nella NATO - alleanza ormai anacronistica dopo la nascita dell'Unione Europea -  di cui fa parte,  all'articolo 52 e che insieme all'art 11  che la ripudia come soluzione dei conflitti internazionali, definisce la questione in modo chiaro e comprensibile a tutti.

Detto ciò, trovo che insieme ai principi inviolabili,  debbano accompagnarsi anche elementi di razionalità che, se omessi, introducono nel tema della guerra anche difensiva, elementi di irrazionalità ed emotività che spesso hanno presa sugli animi più semplici. 

Il mondo infatti è pieno di individui che vanno in cerca di conflitti, anche i più lontani e dimenticati, per soddisfare il proprio bisogno di aggressività, magari non disgiunto da un cospicuo ritorno economico. Un tempo furono i mercenari, poi nacque la Legione Straniera - che intervenne nel mondo non sempre sotto il controllo diretto della Repubblica Francese - oggi si chiamano contractors o foreign fighters e l'Ucraina li sta attirando come il miele le mosche. Tutti patrioti internazionali e difensori della democrazia contro la tirannide? Questo conflitto non è la Guerra Civile Spagnola !

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Ma ecco alcune delle perplessità di cui ho trovato pochissimi riscontri nelle decine di dibattiti che si stanno svolgendo in queste ore.

La prima questione riguarda la necessità di comprendere perchè l'Ucraina abbia deciso di combattere una guerra contro gli invasori, rispondendo con i mezzi di guerra? Non era forse già chiaro che la proporzione non era equa? Probabilmente si immaginava che a difesa sarebbero accorsi La Nato o l'Unione Europea, un convincimento che rivela un qualche dilettantismo della classe dirigente ucraina o forse qualche mezza - e impossibile -  promessa sussurrata in modo incosciente e superficiale. 

La seconda questione pone la domanda del perchè l'Unione Europea stia inviando armi Ucraina, sapendo bene che anche con questi ausili non si può fermare l'armata russa, infinitamente più potente per mezzi, addestramento e capacità strategiche. Una scelta che sta esacerbando il conflitto proiettandone i confini su tutto il continente e impedendo la mediazione autorevole che, in caso contrario,  sarebbe potuta giungere da Roma, da Parigi, da Berlino che ormai non possono più sostenere due parti in commedia.

La terza questione riguarda il presidente ucraino Volodymyr Zelens'kyj classe 1978, che si veste da eroe e incita i suoi al combattimento illudendo il popolo che l'Ucraina possa vincere. I risultati sono la gente in fuga dal loro paese, i morti militari, i morti civili, le città distrutte e la Russia che avanza! Perché chiede alla Nato la no fly zone, sapendo che non può essere concessa salvo a scatenare una guerra mondiale? 

Non sempre gli eroismi sono atti di altruismo e chiunque, potendolo fare, non si adoperi per salvare anche una singola vita umana è complice del massacro. Poichè mentre alle questioni internazionali si può porre rimedio, prima o poi, nulla si può invece quando muore anche un solo bambino e con esso il futuro dell'Umanità.

Che senso ha tutto questo! Mi domando: ma non era meglio seguire gli insegnamenti di una grande anima russa come Lev Tolstoj? Non era meglio seguire la pratica del Satyagraha, la teoria etico-politica elaborata dal Mahatma Gandhi ? L'espressione è tradotta di solito come "resistenza passiva", ma il suo significato letterale è "insistenza per la verità" ed è alla base della prassi della disobbedienza civile, integrando l'altro principio, di origine indiana e buddista, dell'ahimsa o non-violenza. 

Non era meglio ispirarsi a Martin Luther King che con la sola forza della parola sconfisse ciò che ancora allignava negli Stati Uniti in termini di razzismo fattuale ? Pagò con la propria vita ma ne salvò migliaia e il suo sogno cambiò il mondo americano.

Mi domando: se il popolo ucraino invece di fuggire si fosse riversato in centinaia di migliaia di giovanni, vecchi e bambini sulle strade dove avanzavano i convogli di Mosca, come avrebbero reagito i carristi i russi? E se i militari ucraini avessero avuto l'ordine di non intervenire ed accanto ai civili avessero alzato le mani non in segno di resa ma di resistenza passiva ?

O forse "Resistenza e Resa"  è soltanto il titolo di un libro scritto dal pastore luterano  Dietrich Bonhoeffer dal 1943 al 1945 nel carcere berlinese di Tegel e  su cui la mia generazione si è formata ? 

Se l'Ucraina avesse denunciato al mondo la propria volontà di volere la pace e di  contrastare la guerra con la forza disarmata della propria gente,   stendendosi come un tappeto umano sulle strade dell'invasione, i carri armati li avrebbero schiacciati ? Non lo crederò mai !

Se l'Ucraina avesse risposto con atti di pace alla violenza. cosa avrebbe fatto Putin? Avrebbe potuto bombardare in queste condizioni? Cosa avrebbe detto il mondo di fronte a questa rivoluzione silenziosa? La Chiesa Ortodossa di Mosca che fa capo al Patriarca Kirill  che  sostiene la Russia dicendo: "Guerra giusta, è contro le lobby gay" ,  avrebbe  assolto in confessione gli eventuali macellai prima della Grande Pasqua Russa? 

Persino il pagano Attila si fermò davanti alla processione guidata da Papa Leone Magno armato solo della Croce, correva l'anno 452 ! Oggi a Leopoli, invece,  si nasconde il Cristo in un bunker !

Immaginate i carri armati russi, sconvolti dall'inaspettata reazione di un popolo "fratello" nella cultura e nella fede cristiana,   con una clamorosa "inversione a U" tornare a Mosca, decretando la fine dell'era autocratica inaugurata venti anni fa da Vladimir Putin ora caduto nel delirio neo zarista  che già fu di Stalin !

Se una potenza insospettata viene evocata e liberata quando un solo individuo si oppone ai carri cinesi in Piazza Tienanmen e commina alla Cina sanzioni d'immagine ben più gravi di quelle economiche (peraltro equivoche come quelle inflitte ora dall'Unione Europea alla Russia)  figuriamoci cosa possa accadere quando un intero popolo, guidato da statisti illuminati,  decide di farlo. 

Nel mondo animale di cui siamo parte, anche se spesso di illudiamo del contrario, il lupo sconfitto che offre la gola a quello vincente,ottiene, intanto,  la fine immediata della lotta. Il resto seguirà.

Nei giorni scorsi la Comunità di Sant'Egidio si è dissociata dall'invio di armi in Ucraina ed ha invitato il presidente ucraino a proclamare Kiev "Città aperta" uno status internazionale che non equivale ad una resa ma sospende i combattimenti per salvaguardare popolazioni civili e  patrimonio artistico e culturale. https://www.agi.it/cronaca/news/2022-02-27/appello-kiev-citta-aperta-san-egidio-15789606/ Una mossa che durante la seconda guerra mondiale salvò Roma, Parigi, Atene, Il Cairo. 

La bellezza salverà il mondo ? Crederlo e praticarlo sarebbe già un primo passo per iniziare finalmente il nuovo millennio.


La resistenza passiva (dal film "Gandhi" di Richard Attenborough, 1982 )



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(*) Architetto. Socio Prua

05 marzo, 2022

Cent'anni di solitudine. La vita e la morte di Pier Paolo Pasolini.


Foto di Sandro Becchetti, Roma, 1971 (dal sito Skyart)

Qual barocco che sa di carne, il Big Sur di Pasolini

di Luigi Sanlorenzo (*)

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ha voluto così ricordarne la figura dell'uomo e il ruolo dell'intellettuale che tanto manca alla società italiana:

"Pier Paolo Pasolini ha impresso un segno importante nella cultura italiana e la sua lezione continua a parlarci con il linguaggio affilato dei suoi scritti e delle sue immagini, con l’assoluta originalità delle sue visioni, con quell’attenzione alle marginalità - cifra distintiva della sua opera - che in lui esprimeva un desiderio di pienezza umana.

Ricordarlo a cento anni dalla nascita, con il ricco programma di iniziative predisposte, ci pone di fronte a un patrimonio di intuizioni e valori che ancora possono aiutarci nel confronto con la modernità, suo rovello, oltre che bersaglio del suo pensiero critico.
Pasolini aveva le sue radici nel Novecento. In quel dopoguerra, in cui si è affermata l’idea di uguaglianza sostanziale, unitamente a quelle di libertà e democrazia. Gli è appartenuta la dimensione dell’impegno civile dell’intellettuale, a servizio della società.

È stato un uomo di cultura poliedrico. Pochi, come Pasolini, si sono conquistati spazi così rilevanti nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nella saggistica, nel giornalismo. La poesia è stata forse il tratto espressivo che più lo ha distinto.
Il linguaggio e le idee di Pasolini, così come l’intera sua vita, hanno continuamente messo alla prova convenzioni consolidate, provocando polemiche che non di rado gli sono costate emarginazioni ed esclusioni. La sua voce, che voleva mettere in guardia sulle ambivalenze del progresso e della contemporaneità, che intendeva segnalare i possibili impoverimenti per l’umanità, travestiti da maggiori ricchezze, rappresenta tuttora una testimonianza su cui riflettere.

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Al solenne riconoscimento del Capo dello Stato e in omaggi ad entrambi, voglio affiancare il racconto che Pasolini fece del suo viaggio in Sicilia alla fine degli anni '50.

Nel 1959 un autorevole gruppo di intellettuali vicini al Partito Comunista Italiano si reca in visita a Scicli, centro barocco della provincia di Ragusa (oggi Patrimonio dell’Umanità Unesco) , su invito della locale sezione, per toccare con mano le condizioni di vita degli abitanti delle grotte di Chiafura, complesso abitativo di grotte in cui abitavano centinaia di famiglie, in condizioni fuori dalla modernità.

In quella assolata giornata di maggio arrivarono da Roma nel centro ibleo Renato Guttuso con la moglie Mimise, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Antonello Trombadori, Paolo Alatri e Maria Antonietta Macciocchi.

A sollecitare la visita degli intellettuali romani fu Giancarlo Pajetta, leader del PCI, che qualche mese prima era stato a sua volta invitato dai suoi compagni sciclitani, per illustrare loro la delicata situazione degli ”aggrottati” di Chiafura, quel lato occidentale della collina di San Matteo, dove tante nuclei familiari vivevano in condizioni identiche a quelle dei loro avi trogloditi.

Dal viaggio tra grotte, pecore, galline, bambini scalzi e anziani dignitosi di Pasolini e degli altri intellettuali ne uscì fuori un atto parlamentare che permise la costruzione delle case popolari al quartiere di Jungi, dove i “trogloditi di Chiafura” furono trasferiti in solido.

Pasolini rimase molto colpito da ciò che vide nell’assolato paesino del profondo Meridione, e scrisse la sua lettura di Scicli in un testo apparso su "Vie Nuove":


"Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli, attraverso cento e più chilometri di Sicilia verde; deserta, araba, greca, gesuitica, coperta di fiori e di pietre, con mucchi di città incolori, raggrumate, senza periferia, come le città dei quadri, sui fronti delle colline, nelle vallate – un gruppo di gente era ad aspettarci nella piazzetta giallognola di Scicli.[…] eravamo nell’ultimo angolo della Sicilia, ancora un po’ di campagna, carrubi, mandorle, villette estive di baroni, poi il mare, il mare africano.[…]

Che cosa dovevo vedere a Scicli? E cosa invece ho visto? È presto detto. Le caverne: immaginate una valletta, dentro la quale, compatta si sparge Scicli: senza periferia e case moderne; un po’ fuori, un enorme cimitero, un enorme ospedale, tutto color giallo-rosa, cadaverico; al centro la piazzetta e la strada barocca, dei baroni, dei gesuiti. Da questa vallata si diramano, tutte dalla stessa parte, altre tre piccole valli, dalle pareti quasi a picco, bianche di pietre: da lontano non si nota nulla: ma salendo per sentieri che sono letticciuoli di torrenti; sopra le ultime casupole di pietra della cittadina, si sale una specie di montagna del purgatorio, con i gironi uno sull’altro, forati dai buchi delle porte delle caverne saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre o dei cartelloni di film alle pareti di sassi, e lì vive, ammassata, qualche volta col mulo.

In cima alla valle centrale, Chiafura, c’è un castellaccio diroccato, e una vecchia chiesa, giallo-rosa, barocca, gesuitica, distrutta da un terremoto e piena di erba. Da lassù in alto potei vedere tutta Scicli. Come un vecchio giocattolo, sul calcare, la città di uno scolorito ex voto. Nella piazza affollata di uomini neri, solo uomini, stavano facendo un pazzesco girotondo alcune giardinette della Dc, urlando slogans in polemica dagli altoparlanti. […]

Visto così, da lontano e dall’alto, Scicli era quello che si dice la Sicilia. Una comunità di gente ricca di vita, compressa, atterrita, deformata da secoli di dominazione, che troppa intesa a succhiarne il sangue, non ne ha potuto succhiare la vita: e l’ha lasciata viva, e quanto viva, a soffrire, a dibattersi, a uccidere, anziché a operare, a pensare e a amare. Quanto al resto, al ritmo intimo e quotidiano della vita, ben poca differenza mi pare ci sia con un paese ciociaro o magari piemontese.

La storia italiana e quella siciliana, tutto sommato si equivalgono. C’è una sostanziale differenza tra i Savoia, i Papi e i Borboni? Qui, a una repressione certo più disperata e massiccia corrisponde ora un risveglio più stupefatto e clamoroso. Ed è questo ciò che ho visto a Scicli."

La rivista "Successo" pubblicherà il reportage  accompagnato dalle foto di Paolo Di Paolo, in tre puntate nel medesimo anno, poi riunite  e rieditate da Guanda bel 2017 in un unico volume "La lunga strada di sabbia"

Il testo rappresenta uno dei primi ritratti sociali sulla nuova moda delle vacanze, specchio dell’Italia che cambiava e che cominciava ad assaporare il gusto tutto piccolo borghese del boom economico; lo sguardo è come sempre attento, premonitore, lucido e lirico. 

Spiaggia dopo spiaggia, Pasolini, incontra amici intellettuali e personaggi noti, si lascia incantare dalla gente semplice dei paeselli più remoti (a Portopalo «la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce») e, portandosi in giro l’ entusiasmo per la scoperta, lo sguardo emozionato e insieme acuto di futuro regista, annota scorci e impressioni tanto potenti da restituirci un quadro della Sicilia di allora  in cui la rinascita industriale dell’Italia aveva solo il volto dell’emigrazione verso Torino e Milano. Città dove campeggiava il cartello “non si affitta ai meridionali” e le vittime delle precarie condizioni di sicurezza nei cantieri edili, lavoratori in nero come oggi molti migranti di altra e più lontana provenienza, erano lasciate sull’asfalto da rapaci imprenditori e registrate come tragico esito di “incidenti stradali”

Nelle periferie dell’Isola che si spopolavano sui litorali più estremi come nei campi dell’interno, era percepibile il sogno pasoliniano dell’innocenza di una società rurale non ancora corrotta dal demone della televisione che lo scrittore avversò per tutta la vita.

Pasolini percorse la costa italiana al volante di una Fiat Millecento. Il brano che segue racconta la tappa da Messina a Pachino.

«Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come cantò David H. Lawrence di Ravello, ma di gioia.

Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: come niente qui, potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annunzio, alla Gide. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. Lascio andare Taormina, che è indubbiamente una cosa d’una bellezza suprema (ma dove, come a Positano e a Maratea, io non mi sono trovato bene): posso però affermare che il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire.

Lo dico così, da turista. Approfondendo, conoscendo meglio, non solo con gli occhi, con le narici, le ragioni di un così improvviso amore devono risultare ben vere e ben profonde.»

Pasolini cerca in Sicilia il Big Sur,   come già Jack Keourac nella California del 1950 di cui ho scritto https://www.linkiesta.it/2021/02/beat-generation-lawrence-ferlinghetti-stati-uniti/ancestrale e disadorno di opere umane ma ricolmo di quelle della natura e della spontaneità dei pochi e isolati abitanti, che restò a lungo quasi come una giungla inaccessibile. Sino agli anni 1920 nessun abitante aveva l’elettricità e anche quando arrivò, essa fu disponibile soltanto in due abitazioni in tutta la regione, generata localmente da mulini ad acqua e a vento. La maggior parte della popolazione visse senza elettricità finché non fu stabilita la connessione con la rete della California durante gli anni 1950.  

Medesimo destino, quando si rammenti che in Sicilia il pilone dell’Enel che consentì l’allacciamento elettrico al continente era stato realizzato solo in quel decennio.

L’Autostrada del Sole, da Salerno a Reggio Calabria sarebbe stata inaugurata nel 1964 e la A19 Palermo – Catania nel 1970,  ma solo nel breve tratto da Palermo a Buonfornello e da Motta Sant’Anastasia a Catania. Per il resto, precarie strade statali e provinciali su antichi tracciati romani e, verso le spiagge e i centri minori polverose ma regie trazzere.

Dove oggi sbarcano i migranti illusi di trovare nell’ Europa, messa in ginocchio dalla pandemia e che teme per il proprio benessere, una risposta al proprio bisogno di futuro o giungono frotte di turisti rintronati dall’affannosa ricerca della casa immaginaria del Commissario Montalbano, erano allora coste “africane” punteggiate di rari fari e di antiche torri di avvistamento, con spiagge deserte lambite da acque incontaminate.

"Ma il mio viaggio mi spinge nel Sud, sempre più a Sud: come un’ossessione deliziosa, devo andare in giù, senza lasciarmi tentare.

Lascio gli enormi lidi di Catania, è notte, giungo a Lentini. Scendo per la cena: ma lì un profumo di limoni, una luna grossa come non l’ho mai vista, della gente che non aspetta altro che parlare, mi arresta. Fino dopo mezzanotte non mi so decidere a lasciare i nuovi amici che mi sono fatto, che mi salutano come ci conoscessimo da anni, uno dicendo: “Iddu ‘u core bono l’ave!”: e solo perché ho parlato un po’ con loro, dei loro problemi, del loro futuro.

Pachino, luglio Più a Sud di così, è impossibile. Passo Noto, passo Avola. Giungo a Pachino, ch’è una cittadina piena di vita, di gente stupenda: ma non mi fermo, vado ancora più a Sud, arrivo a Capo Passero: una lingua di terra gialla con un faro bianco: e una selva di fichi d’India intorno, oltre le file di muriccioli sgretolati. E non mi fermo ancora: vado più giù, a Porto Palo, ch’è un paesetto miserando, acquattato dietro quella lingua di terra, con delle file di casucce rosse, e l’acqua degli scoli che passa in canaletti perpendicolari alle strade: la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce. E non mi fermo ancora: arrivo al porticciolo di Porto Palo, dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India, con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: «Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama?». «Isola di Porto Palo!» mi fa, sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia."

A Siracusa, luglio: «Poi lasciamo l’Arenella, con le sue famiglie d’avvocati, e corriamo in giro: nemmeno a farlo apposta sulla nostra strada scorre l’Anapo. Figurarsi se ce lo lasciamo sfuggire.

Ci incamminiamo per una stradina polverosa, lungo un campo di liquirizia che odora acutamente, ed ecco, seguito da una fila di ulivi, di carrubi, di fichi d’India, l’Anapo che sciacqua via verde, caldo, con la corrente zeppa di papiri. «I papiri, i papiri! – grida Adriana (l’attrice A. Asti sua compagna di viaggio n.d.r) felice – Ci sono solo qui e in Egitto, te ne rendi conto?». La sente un ragazzo, che passa di lì: e, no, non esagero, ha una faccia antica, veramente, non so bene se fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale, e quelle schiene con le spalle sporgenti come si vedono dipinte solo nei vasi. Questo ragazzo, senza dir niente corre giù per la riva verdissima dell’Anapo, e strappa tre lunghe canne di papiro, con la loro frangia verde e sottile sulla cima. Le dà a Adriana, che tutta felice le afferra, se le stringe in mano. Davvero le donano."

Quel viaggio non fu soltanto suggestione e incantamento. La relazione tra Pasolini e la Sicilia fu insieme la tappa esistenziale e l’ispirazione creativa che ritroviamo nelle riprese di "Comizi d’Amore" (1963) ne "Il Vangelo secondo Matteo" (1964), Teorema (1968), Porcile (1969), I Racconti di Canterbury (1970); la storica messa in scena dell’Orestea, al Teatro greco di Siracusa nel 1960 con Vittorio Gassman.

Di questa fascinazione fece parte il rapporto di stima e di amicizia con Leonardo Sciascia  risalente ai primi anni cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì sulla rivista romana "La libertà" il primo scarno libello del maestro di Racalmuto "Le Favole della dittatura" di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale che Sciascia avrebbe poi ricordato in “Nero su nero” nel 1980.

«… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi.

C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto -come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.

E voglio ancora dire una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero de "Il Mondo", una lettera a Italo Calvino."

Quanto manca oggi Pasolini all’Italia? Quali editoriali avremmo letto negli anni delle stragi di terrorismo e di mafia che seguirono alla sua morte, ad opera di chi aveva scritto nel novembre del 1974 sul Corriere della Sera:

"Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero."

Quale sarebbe stato oggi il suo grido disperato davanti alle immagini dei bambini in fuga dalle città assediate dell'Ucraina, dove, come in tutte le guerre di ogni epoca,  sono le persone più semplici a pagare il prezzo più alto anche negli anni successivi? 

Quanto gli sarebbero stati odiosi gli speciosi ragionamenti sulla guerra, le frettolose analisi strategiche, i mille luoghi comuni officiati sul palcoscenico di quella televisione che mai amò e a cui ascrisse sempre l'impoverimento delle masse,  condannate all'omologazione culturale e sociale ? 

Dacia Maraini  nell'aprile dello scorso anno ha ricordato l'isolamento che progressivamente cominciò a circondare Pasolini come un presagio di morte: "Un giorno io e lui eravamo al teatro Quirino e, durante l’intervallo, siamo usciti a prendere un caffè. La gente si allontanava come se fosse un appestato. Era il pubblico del teatro, la borghesia romana. Lo evitavano come se avesse i bubboni della peste. Succede sempre così, quando si lasciano le persone socialmente isolate e sole: si indicano come colpevoli e poi qualcuno tira fuori il coltello”.


La deposizione (Immagine da Sicilia Network)

P.P.P. (un acronimo che ricorda quello di Padre Pino Puglisi martire della determinazione di strappare alla mafia i più deboli tra i "ragazzi di vita" nel quartiere Brancaccio di Palermo) fu trucidato sulla spiaggia di Ostia, meno di un anno dopo con le modalità più bestiali che la cronaca nera recente abbia mai registrato. 

Ancora oggi i mandanti del delitto sono ignoti, mentre si è dato in pasto alla pubblica opinione il frusto copione riservato a molti delitti apparentemente dello stesso genere: incontri occasionali finiti male. Resta uno dei tanti ed irrisolti misteri d’Italia. Di quei giorni mantengo un ricordo indelebile anche a motivo di una scazzottatura, forse l' unica della mia vita, con l'autore di un commento sprezzante e volgare sull'omosessualità mai nascosta del poeta. 

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Quanti abbiamo amato la poetica e l’impegno civile di Pier Paolo Pasolini e la sua strenua difesa delle “persone buone” possiamo solo distinguerne la sagoma sfocata ed irrequieta che dinanzi ai tanti drammi del nostro Paese dall’ innocenza ormai perduta, sembra fremere, senza pace, senza riposo. 

A noi, timidi accattoni di residue speranze, resta il compito in cui ci fu maestro: rifuggire la retorica e il frastuono del conformismo di questa contraddittoria terra siciliana, la cui "linea della palma" ha ormai risalito da decenni tutto il Paese,  per andare a cercare nella notte dove ancora sopravvivono, e si amano, le lucciole.


L'orazione funebre pronunciata da Alberto Moravia a Roma il 5 novembre del 1975



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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA.