05 marzo, 2022

Cent'anni di solitudine. La vita e la morte di Pier Paolo Pasolini.


Foto di Sandro Becchetti, Roma, 1971 (dal sito Skyart)

Qual barocco che sa di carne, il Big Sur di Pasolini

di Luigi Sanlorenzo (*)

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ha voluto così ricordarne la figura dell'uomo e il ruolo dell'intellettuale che tanto manca alla società italiana:

"Pier Paolo Pasolini ha impresso un segno importante nella cultura italiana e la sua lezione continua a parlarci con il linguaggio affilato dei suoi scritti e delle sue immagini, con l’assoluta originalità delle sue visioni, con quell’attenzione alle marginalità - cifra distintiva della sua opera - che in lui esprimeva un desiderio di pienezza umana.

Ricordarlo a cento anni dalla nascita, con il ricco programma di iniziative predisposte, ci pone di fronte a un patrimonio di intuizioni e valori che ancora possono aiutarci nel confronto con la modernità, suo rovello, oltre che bersaglio del suo pensiero critico.
Pasolini aveva le sue radici nel Novecento. In quel dopoguerra, in cui si è affermata l’idea di uguaglianza sostanziale, unitamente a quelle di libertà e democrazia. Gli è appartenuta la dimensione dell’impegno civile dell’intellettuale, a servizio della società.

È stato un uomo di cultura poliedrico. Pochi, come Pasolini, si sono conquistati spazi così rilevanti nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nella saggistica, nel giornalismo. La poesia è stata forse il tratto espressivo che più lo ha distinto.
Il linguaggio e le idee di Pasolini, così come l’intera sua vita, hanno continuamente messo alla prova convenzioni consolidate, provocando polemiche che non di rado gli sono costate emarginazioni ed esclusioni. La sua voce, che voleva mettere in guardia sulle ambivalenze del progresso e della contemporaneità, che intendeva segnalare i possibili impoverimenti per l’umanità, travestiti da maggiori ricchezze, rappresenta tuttora una testimonianza su cui riflettere.

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Al solenne riconoscimento del Capo dello Stato e in omaggi ad entrambi, voglio affiancare il racconto che Pasolini fece del suo viaggio in Sicilia alla fine degli anni '50.

Nel 1959 un autorevole gruppo di intellettuali vicini al Partito Comunista Italiano si reca in visita a Scicli, centro barocco della provincia di Ragusa (oggi Patrimonio dell’Umanità Unesco) , su invito della locale sezione, per toccare con mano le condizioni di vita degli abitanti delle grotte di Chiafura, complesso abitativo di grotte in cui abitavano centinaia di famiglie, in condizioni fuori dalla modernità.

In quella assolata giornata di maggio arrivarono da Roma nel centro ibleo Renato Guttuso con la moglie Mimise, Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini, Antonello Trombadori, Paolo Alatri e Maria Antonietta Macciocchi.

A sollecitare la visita degli intellettuali romani fu Giancarlo Pajetta, leader del PCI, che qualche mese prima era stato a sua volta invitato dai suoi compagni sciclitani, per illustrare loro la delicata situazione degli ”aggrottati” di Chiafura, quel lato occidentale della collina di San Matteo, dove tante nuclei familiari vivevano in condizioni identiche a quelle dei loro avi trogloditi.

Dal viaggio tra grotte, pecore, galline, bambini scalzi e anziani dignitosi di Pasolini e degli altri intellettuali ne uscì fuori un atto parlamentare che permise la costruzione delle case popolari al quartiere di Jungi, dove i “trogloditi di Chiafura” furono trasferiti in solido.

Pasolini rimase molto colpito da ciò che vide nell’assolato paesino del profondo Meridione, e scrisse la sua lettura di Scicli in un testo apparso su "Vie Nuove":


"Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli, attraverso cento e più chilometri di Sicilia verde; deserta, araba, greca, gesuitica, coperta di fiori e di pietre, con mucchi di città incolori, raggrumate, senza periferia, come le città dei quadri, sui fronti delle colline, nelle vallate – un gruppo di gente era ad aspettarci nella piazzetta giallognola di Scicli.[…] eravamo nell’ultimo angolo della Sicilia, ancora un po’ di campagna, carrubi, mandorle, villette estive di baroni, poi il mare, il mare africano.[…]

Che cosa dovevo vedere a Scicli? E cosa invece ho visto? È presto detto. Le caverne: immaginate una valletta, dentro la quale, compatta si sparge Scicli: senza periferia e case moderne; un po’ fuori, un enorme cimitero, un enorme ospedale, tutto color giallo-rosa, cadaverico; al centro la piazzetta e la strada barocca, dei baroni, dei gesuiti. Da questa vallata si diramano, tutte dalla stessa parte, altre tre piccole valli, dalle pareti quasi a picco, bianche di pietre: da lontano non si nota nulla: ma salendo per sentieri che sono letticciuoli di torrenti; sopra le ultime casupole di pietra della cittadina, si sale una specie di montagna del purgatorio, con i gironi uno sull’altro, forati dai buchi delle porte delle caverne saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre o dei cartelloni di film alle pareti di sassi, e lì vive, ammassata, qualche volta col mulo.

In cima alla valle centrale, Chiafura, c’è un castellaccio diroccato, e una vecchia chiesa, giallo-rosa, barocca, gesuitica, distrutta da un terremoto e piena di erba. Da lassù in alto potei vedere tutta Scicli. Come un vecchio giocattolo, sul calcare, la città di uno scolorito ex voto. Nella piazza affollata di uomini neri, solo uomini, stavano facendo un pazzesco girotondo alcune giardinette della Dc, urlando slogans in polemica dagli altoparlanti. […]

Visto così, da lontano e dall’alto, Scicli era quello che si dice la Sicilia. Una comunità di gente ricca di vita, compressa, atterrita, deformata da secoli di dominazione, che troppa intesa a succhiarne il sangue, non ne ha potuto succhiare la vita: e l’ha lasciata viva, e quanto viva, a soffrire, a dibattersi, a uccidere, anziché a operare, a pensare e a amare. Quanto al resto, al ritmo intimo e quotidiano della vita, ben poca differenza mi pare ci sia con un paese ciociaro o magari piemontese.

La storia italiana e quella siciliana, tutto sommato si equivalgono. C’è una sostanziale differenza tra i Savoia, i Papi e i Borboni? Qui, a una repressione certo più disperata e massiccia corrisponde ora un risveglio più stupefatto e clamoroso. Ed è questo ciò che ho visto a Scicli."

La rivista "Successo" pubblicherà il reportage  accompagnato dalle foto di Paolo Di Paolo, in tre puntate nel medesimo anno, poi riunite  e rieditate da Guanda bel 2017 in un unico volume "La lunga strada di sabbia"

Il testo rappresenta uno dei primi ritratti sociali sulla nuova moda delle vacanze, specchio dell’Italia che cambiava e che cominciava ad assaporare il gusto tutto piccolo borghese del boom economico; lo sguardo è come sempre attento, premonitore, lucido e lirico. 

Spiaggia dopo spiaggia, Pasolini, incontra amici intellettuali e personaggi noti, si lascia incantare dalla gente semplice dei paeselli più remoti (a Portopalo «la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce») e, portandosi in giro l’ entusiasmo per la scoperta, lo sguardo emozionato e insieme acuto di futuro regista, annota scorci e impressioni tanto potenti da restituirci un quadro della Sicilia di allora  in cui la rinascita industriale dell’Italia aveva solo il volto dell’emigrazione verso Torino e Milano. Città dove campeggiava il cartello “non si affitta ai meridionali” e le vittime delle precarie condizioni di sicurezza nei cantieri edili, lavoratori in nero come oggi molti migranti di altra e più lontana provenienza, erano lasciate sull’asfalto da rapaci imprenditori e registrate come tragico esito di “incidenti stradali”

Nelle periferie dell’Isola che si spopolavano sui litorali più estremi come nei campi dell’interno, era percepibile il sogno pasoliniano dell’innocenza di una società rurale non ancora corrotta dal demone della televisione che lo scrittore avversò per tutta la vita.

Pasolini percorse la costa italiana al volante di una Fiat Millecento. Il brano che segue racconta la tappa da Messina a Pachino.

«Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come cantò David H. Lawrence di Ravello, ma di gioia.

Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: come niente qui, potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annunzio, alla Gide. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. Lascio andare Taormina, che è indubbiamente una cosa d’una bellezza suprema (ma dove, come a Positano e a Maratea, io non mi sono trovato bene): posso però affermare che il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire.

Lo dico così, da turista. Approfondendo, conoscendo meglio, non solo con gli occhi, con le narici, le ragioni di un così improvviso amore devono risultare ben vere e ben profonde.»

Pasolini cerca in Sicilia il Big Sur,   come già Jack Keourac nella California del 1950 di cui ho scritto https://www.linkiesta.it/2021/02/beat-generation-lawrence-ferlinghetti-stati-uniti/ancestrale e disadorno di opere umane ma ricolmo di quelle della natura e della spontaneità dei pochi e isolati abitanti, che restò a lungo quasi come una giungla inaccessibile. Sino agli anni 1920 nessun abitante aveva l’elettricità e anche quando arrivò, essa fu disponibile soltanto in due abitazioni in tutta la regione, generata localmente da mulini ad acqua e a vento. La maggior parte della popolazione visse senza elettricità finché non fu stabilita la connessione con la rete della California durante gli anni 1950.  

Medesimo destino, quando si rammenti che in Sicilia il pilone dell’Enel che consentì l’allacciamento elettrico al continente era stato realizzato solo in quel decennio.

L’Autostrada del Sole, da Salerno a Reggio Calabria sarebbe stata inaugurata nel 1964 e la A19 Palermo – Catania nel 1970,  ma solo nel breve tratto da Palermo a Buonfornello e da Motta Sant’Anastasia a Catania. Per il resto, precarie strade statali e provinciali su antichi tracciati romani e, verso le spiagge e i centri minori polverose ma regie trazzere.

Dove oggi sbarcano i migranti illusi di trovare nell’ Europa, messa in ginocchio dalla pandemia e che teme per il proprio benessere, una risposta al proprio bisogno di futuro o giungono frotte di turisti rintronati dall’affannosa ricerca della casa immaginaria del Commissario Montalbano, erano allora coste “africane” punteggiate di rari fari e di antiche torri di avvistamento, con spiagge deserte lambite da acque incontaminate.

"Ma il mio viaggio mi spinge nel Sud, sempre più a Sud: come un’ossessione deliziosa, devo andare in giù, senza lasciarmi tentare.

Lascio gli enormi lidi di Catania, è notte, giungo a Lentini. Scendo per la cena: ma lì un profumo di limoni, una luna grossa come non l’ho mai vista, della gente che non aspetta altro che parlare, mi arresta. Fino dopo mezzanotte non mi so decidere a lasciare i nuovi amici che mi sono fatto, che mi salutano come ci conoscessimo da anni, uno dicendo: “Iddu ‘u core bono l’ave!”: e solo perché ho parlato un po’ con loro, dei loro problemi, del loro futuro.

Pachino, luglio Più a Sud di così, è impossibile. Passo Noto, passo Avola. Giungo a Pachino, ch’è una cittadina piena di vita, di gente stupenda: ma non mi fermo, vado ancora più a Sud, arrivo a Capo Passero: una lingua di terra gialla con un faro bianco: e una selva di fichi d’India intorno, oltre le file di muriccioli sgretolati. E non mi fermo ancora: vado più giù, a Porto Palo, ch’è un paesetto miserando, acquattato dietro quella lingua di terra, con delle file di casucce rosse, e l’acqua degli scoli che passa in canaletti perpendicolari alle strade: la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce. E non mi fermo ancora: arrivo al porticciolo di Porto Palo, dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India, con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: «Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama?». «Isola di Porto Palo!» mi fa, sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia."

A Siracusa, luglio: «Poi lasciamo l’Arenella, con le sue famiglie d’avvocati, e corriamo in giro: nemmeno a farlo apposta sulla nostra strada scorre l’Anapo. Figurarsi se ce lo lasciamo sfuggire.

Ci incamminiamo per una stradina polverosa, lungo un campo di liquirizia che odora acutamente, ed ecco, seguito da una fila di ulivi, di carrubi, di fichi d’India, l’Anapo che sciacqua via verde, caldo, con la corrente zeppa di papiri. «I papiri, i papiri! – grida Adriana (l’attrice A. Asti sua compagna di viaggio n.d.r) felice – Ci sono solo qui e in Egitto, te ne rendi conto?». La sente un ragazzo, che passa di lì: e, no, non esagero, ha una faccia antica, veramente, non so bene se fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale, e quelle schiene con le spalle sporgenti come si vedono dipinte solo nei vasi. Questo ragazzo, senza dir niente corre giù per la riva verdissima dell’Anapo, e strappa tre lunghe canne di papiro, con la loro frangia verde e sottile sulla cima. Le dà a Adriana, che tutta felice le afferra, se le stringe in mano. Davvero le donano."

Quel viaggio non fu soltanto suggestione e incantamento. La relazione tra Pasolini e la Sicilia fu insieme la tappa esistenziale e l’ispirazione creativa che ritroviamo nelle riprese di "Comizi d’Amore" (1963) ne "Il Vangelo secondo Matteo" (1964), Teorema (1968), Porcile (1969), I Racconti di Canterbury (1970); la storica messa in scena dell’Orestea, al Teatro greco di Siracusa nel 1960 con Vittorio Gassman.

Di questa fascinazione fece parte il rapporto di stima e di amicizia con Leonardo Sciascia  risalente ai primi anni cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì sulla rivista romana "La libertà" il primo scarno libello del maestro di Racalmuto "Le Favole della dittatura" di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale che Sciascia avrebbe poi ricordato in “Nero su nero” nel 1980.

«… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi.

C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso. Credo che mi ritenesse alquanto -come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.

E voglio ancora dire una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero de "Il Mondo", una lettera a Italo Calvino."

Quanto manca oggi Pasolini all’Italia? Quali editoriali avremmo letto negli anni delle stragi di terrorismo e di mafia che seguirono alla sua morte, ad opera di chi aveva scritto nel novembre del 1974 sul Corriere della Sera:

"Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero."

Quale sarebbe stato oggi il suo grido disperato davanti alle immagini dei bambini in fuga dalle città assediate dell'Ucraina, dove, come in tutte le guerre di ogni epoca,  sono le persone più semplici a pagare il prezzo più alto anche negli anni successivi? 

Quanto gli sarebbero stati odiosi gli speciosi ragionamenti sulla guerra, le frettolose analisi strategiche, i mille luoghi comuni officiati sul palcoscenico di quella televisione che mai amò e a cui ascrisse sempre l'impoverimento delle masse,  condannate all'omologazione culturale e sociale ? 

Dacia Maraini  nell'aprile dello scorso anno ha ricordato l'isolamento che progressivamente cominciò a circondare Pasolini come un presagio di morte: "Un giorno io e lui eravamo al teatro Quirino e, durante l’intervallo, siamo usciti a prendere un caffè. La gente si allontanava come se fosse un appestato. Era il pubblico del teatro, la borghesia romana. Lo evitavano come se avesse i bubboni della peste. Succede sempre così, quando si lasciano le persone socialmente isolate e sole: si indicano come colpevoli e poi qualcuno tira fuori il coltello”.


La deposizione (Immagine da Sicilia Network)

P.P.P. (un acronimo che ricorda quello di Padre Pino Puglisi martire della determinazione di strappare alla mafia i più deboli tra i "ragazzi di vita" nel quartiere Brancaccio di Palermo) fu trucidato sulla spiaggia di Ostia, meno di un anno dopo con le modalità più bestiali che la cronaca nera recente abbia mai registrato. 

Ancora oggi i mandanti del delitto sono ignoti, mentre si è dato in pasto alla pubblica opinione il frusto copione riservato a molti delitti apparentemente dello stesso genere: incontri occasionali finiti male. Resta uno dei tanti ed irrisolti misteri d’Italia. Di quei giorni mantengo un ricordo indelebile anche a motivo di una scazzottatura, forse l' unica della mia vita, con l'autore di un commento sprezzante e volgare sull'omosessualità mai nascosta del poeta. 

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Quanti abbiamo amato la poetica e l’impegno civile di Pier Paolo Pasolini e la sua strenua difesa delle “persone buone” possiamo solo distinguerne la sagoma sfocata ed irrequieta che dinanzi ai tanti drammi del nostro Paese dall’ innocenza ormai perduta, sembra fremere, senza pace, senza riposo. 

A noi, timidi accattoni di residue speranze, resta il compito in cui ci fu maestro: rifuggire la retorica e il frastuono del conformismo di questa contraddittoria terra siciliana, la cui "linea della palma" ha ormai risalito da decenni tutto il Paese,  per andare a cercare nella notte dove ancora sopravvivono, e si amano, le lucciole.


L'orazione funebre pronunciata da Alberto Moravia a Roma il 5 novembre del 1975



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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA.


 


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