07 febbraio, 2022

Cancel culture e Political Correctness

 


La narrazione in Psicologia nell’era della Cancel culture e del Political Correctness tra categorie diagnostiche (vecchie e nuove) e modello dimensionale

di Salvatore Capodieci (*)


Il titolo di questo articolo inizia con la parola “narrazione”,termine particolarmente di moda in quest’epoca. Avrei potuto utilizzare anche il termine “storytelling” ma il suo utilizzo, che è prevalente nel digitale,ha finalità di marketing e commerciali rivolgendosi a dei clienti più che a dei lettori.

Il termine narrazione si accompagna solitamente a un aggettivo (mitologica, storica, fantastica, ecc.)e indica un singolo racconto trattato in forma definitiva; questo vale anchenel caso in cui l’aggettivo sia “psicologica”.

Nella retorica classica la narratio (in latino) è la parte dell’orazione che segue l’esordio e serve all’esposizione obiettiva del fatto. Il fatto psicologiconella fattispecie dovrebbe essere pertanto, oltre che definitivo,anche obiettivo.

Se avessi scritto nel titolo “Il tema dell’articolo è …”, che è un’altra modalità diffusa di iniziare un’argomentazione, avrei utilizzato un termine che deriva dal greco themaovvero “ciò che viene posto” e avrei dovuto distinguerenel contesto dell’enunciatociò di cui si parla (appunto il tema) da quanto su di esso viene detto in linea di massima:ovvero l’approccioin Psicologia (tema) è categoriale o dimensionale (rema)? Quest’ultimo termine (dal greco rhema) significa “parola”.

Ed è proprio la parola, orale o scritta, la protagonista indiscussa dell’attività dello psicoterapeuta che si trova a navigare, in quest’epoca, tra le onde dellapotically correctness e la risacca della cancel culture.

Inizio, adesso, il mio contributo ringraziandovi per l’attenzione che presterete alla lettura del mio lavoro.Se avessi proposto questo articolonegli anni ’90,avreiscritto: “Pregiatissimi lettori e gentilissime lettrici”dal momento che ci trovavamonell’epoca del maschile sovraesteso. Qualche anno dopo, sulla scorta delle quote rosa (entrate in vigore in Italia nel 2011) e della campagna “No women no panel” dello scorso anno, mi sarei rivolto a voi con questo saluto: “Gentilissime lettrici e pregiatissimi lettori”.

La modalità più corretta con cui posso oggi introdurre il mio articolo,sentendomi più inclusivo,è: Gentilissim*utilizzando asterisco o, ancora meglio, scevà o schwa (la e rovesciata: ə)per concludere le parole, sostituendo la finale maschile o femminile; una sorta di neutro contemporaneo che non indica le cose ma l’assenza di genere o la polivalenza dei generi.

Fortunatamente“psicologo” e “psicologa” hanno i termini sia al maschile che al femminile e va ancor meglio con “psichiatra”e“psicoterapeuta” che sono “bisex”;si può così evitare, come accade in altri contesti, di dover usare termini come“ingegnera”, “architetta”, “assessora” e così via!

Si tratta, in realtà, di una questione complessa, nata come reazione alla predominanza del maschile durata secoli. È dai primi del ‘900 che è iniziata una riflessione sull’identità femminile che avrà come obiettivo la specificità femminile quale valore per l’umanità.

Mi accorgo, come docente universitario, che le nuove generazioni prestano molta attenzione alle differenti sensibilità di genere. C’è una domanda di riconoscimento, in particolare nei più giovani e soprattutto nelle donne e, al tempo stesso,la richiesta di un linguaggio meno esclusivo in grado di accogliere la molteplicità delle identità.

Chi si occupa di psicologia e di psicoterapia si trova così all’interno di un movimento oscillatorio che si muove tra l’avvicinarsi all’uso di un linguaggio politicamente corretto,che rischia però di attenuare l’immediatezza di una comunicazione empatica attraverso l’utilizzo di sofismi linguistici a volte un po’ ipocriti, e il percepire la sollecitazione a riflettere, come adulti, su questo bisogno di riconoscimento e di ascolto espresso dalle persone più giovani.

Il quesito centrale rimane: “In che modo il politicamente corretto può influenzare il lavoro clinico e didattico di chi si occupa di Psicologia”? 

Si potrebbe rispondere proponendo di ripensare al decennale lavoro compiuto da Bruno Bettelheim[1] sull’importanza delle fiabe nell’infanzia, conclusosi con la pubblicazione nel 1976 del libro “Il mondo incantato: Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe”. Fiabe che sono state riproposte come film di animazione dalla Disney e che vedono oggi una critica severa rivolta ai loro contenuti considerati portatori di messaggi fuorvianti. In ambito mediatico tutto ha ovviamente una risonanza sempre molto intensa.

Nelle favole di “Biancaneve” e della “Bella addormentata”, ad esempio, verrebbe raccontato un abuso sessuale, consistito per entrambe in un bacio ottenuto senza il consenso delle protagoniste.

Biancaneve, inoltre, con quella pelle ‘bianca come la neve’,che nella fiaba viene così spesso elogiata e sottolineata, risulta offensiva verso chi non possieda una carnagione così chiara.

Peter Pan, Dumbo e gli Aristogattisono stati accusati di “trasmettere stereotipi e messaggi dannosi e razzisti”. In specifico, Peter Pan è giudicato offensivo perché utilizza l’appellativo “pellirosse” parlando dei nativi americani.

E cosa avrà mai combinato il simpatico elefantino Dumbo nel film del 1941? L’accusa nei suoi confronti fa riferimento ai versi di una canzone The song of Roustabouts”, considerati irrispettosi degli schiavi afroamericani che lavoravano nelle piantagioni[2]. Si tratta dell’unica canzone del film a non essere stata tradotta o doppiata in italiano. Ecco la traduzione di alcuni versi:


Lavoriamo tutto il giorno, lavoriamo tutta la notte,
non abbiamo mai imparato a leggere o scrivere.
Siamo degli operai dal cuore felice.
Quando gli altri sono andati a letto
lavoriamo come schiavi finché non siamo quasi morti.
Non sappiamo quando avremo la nostra paga
e quando la riceviamo, buttiamo via tutti i nostri soldi.

E gli Aristogatti nel loro film del 1970?Sono colpevoli di aver raffigurato il gatto siamese Shun Gon con tratti caricaturalmente asiatici: occhi spioventi, denti all’infuori e bacchette usate anche per suonare il pianoforte; tutti aspetti poco rispettosi delle popolazioni dell’Asia.

Il libro della giungla del 1967, tratto dal romanzo di Rudyard Kipling, rappresenta Re Luigi come un orango pigro, con scarse capacità linguistiche e che canta in uno stile jazz Dixieland. Il personaggio è stato criticato perché risulta una caricatura razzista degli afroamericani.

La Disney ha rimosso i titoli a pagamento dalla piattaforma nella sezione dedicata ai bambini sotto i 7 anni ed è prevedibile che verranno sospesi anche per le fasce di età superiore.

Oltre che segnalare imprecisioni ed errori, la Disney dichiara apertamente i suoi intenti: «Invece di rimuovere questo contenuto, vogliamo ammetterne l’impatto dannoso, trarne insegnamento e stimolare il dialogo per creare insieme un futuro più inclusivo».

Aggiunge poi: «Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo riconoscerlo, imparare e andare avanti insieme per creare un domani che oggi possiamo solo sognare”.

Con questo proponimento Disney+ corre nuovamente ai ripari dal ripetersi di accuse di razzismo e di utilizzo di termini inadeguati.

La piattaforma, dedicata al pubblico più giovane, aveva già inserito nelle schede di alcuni classici dell’animazione un avviso per “rappresentazioni culturali superate” ma,in seguito, ha aggiornato ed esteso l’avvertenza in modo da coprire qualsiasi eventuale scorrettezza compiuta in passato. E così a introdurre classici dell'animazione, come Gli Aristogatti, Lilli e il Vagabondo, Dumbo, Peter Pan e il Libro della giungla, alla voce “Dettagli” c’è un riquadro su uno sfondo nero che avverte:

«Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono oggi».

Fino al momento della stesura dell’articolo non ho ricevuto notizie che qualche associazione per la difesa degli animali abbia querelato la principessa per aver baciato il ranocchio della fiaba dei fratelli Grimm!

Psicologi e psicoterapeuti in che modo vivono la “political correctness”?

Quando il principale strumento di lavoro è la parola è sufficiente dirne una “sbagliata” per essere messi sotto processo; ovviamente personaggi famosi e politici sono maggiormente esposti ma ormai non si salva più nessuno.Il rischio è ovviamente che l’inclusione si riduca a un problema di linguaggio e non più ad azioni mirate a favorirla.

Ecco alcune testimonianze personali in ambito didattico universitario.

Per numerosi anni, quando nel mio Corso di Psicopatologia introducevo l’argomento dei disturbi alimentari, ero solito dire: «Al di là delle classificazioni, che possiamo trovare nei Manuali, un clinico attento di fronte a una persona che sia eccessivamente magra o in evidente sovrappeso, deve ipotizzare che si tratti di un soggetto affetto da un disturbo alimentare». Negli ultimi anni mi astengo dal suggerire questa osservazione di carattere clinico perché in aula sono presenti studentesse molto magre e studenti o studentesse in evidente sovrappeso e rischierei di risultare discriminante nei loro confronti sulla base di una caratteristica fisica.

Qualche anno fa, durante il Corso di Sessuologia, stavo introducendo la lezione sulle parafilie quando vengo interrotto da una giovane donna che mi intima: «Stia attento professore nella sua esposizione ai termini che utilizza perché l’avverto:“appartengo alla comunità LGBTQ”». Rispondo tranquillamente che tutto ciò che riporterò farà riferimento alle classificazioni internazionale che trattano questo importante argomento della sessualità umana.

Mentre rispondevo pensavo tra me e me che questa studentessa non era ancora nata quando con un gruppo di colleghi sessuologi portavamo avanti le prime battaglie per consentire l’applicazione della legge164 del 1982 e cercavamo di aiutare le prime persone che dovevano intraprendere il processo di transizione affinché potessero effettuare l’intervento negli ospedali pubblici senza dover pagare costosi interventi in cliniche private.

Non è immune dal politically correctness neppure il DSM (il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali utilizzato dagli operatori della salute mentale di tutto il mondo) che, nel 2000, utilizzava il termine Disturbo dell’Identità di Genereper descrivere la condizione di un soggetto (senza anomalie fisiche) che desiderasse vivere ed essere accettato come un membro del sesso opposto e che mostrasse un’intensa e persistente identificazione con l’altro sesso.

Il DSM 5, nel 2013, ha introdotto il concetto di Disforia di genere,che sostituiva il vecchio termine “disturbo”presente nel DSM-IV-TR,per evidenziareil fenomeno dell’“incongruenza di genere” vissuta dal soggetto,piuttosto che l’identificazione con il sesso opposto come indicava la precedente diagnosi.

Riepilogando, il malessere che si accompagna alla disforia di genere è legato all’incongruenza tra due precise dimensioni dell’identità sessuale: l’identità di genere e il sesso biologico. La prima è concettualizzata come il continuo e persistente senso di sé come maschio, femmina, o altro genere, diverso dal binarismo sessuale; il sesso biologico, invece, è definito dalle caratteristiche sessuali a livello cromosomico, gonadico e/o genitali di una persona. Secondo gli Autori del DSM-5, l’aspetto che caratterizza maggiormente la disforia di genere è un’angoscia clinicamente significativa”[3].

Un cambiamento ancora più radicale l’ha messo in atto l’ICD (International Classification of Disease) dell’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità)che, se nell’ICD-10 del 1993,utilizzavaTransessualismo, disturbo codificato tra le malattie mentali, l’8 giugno del 2018,nella undicesima edizione(ICD-11)entrata in vigore l’1 gennaio 2022,l’ha definito “Incongruenza di genere” e l’haspostata dal capitolo dei disturbi mentali a un nuovo capitolo, appositamente creato, relativo alla “salute sessuale” con la precipua finalità di depatologizzare tale condizione.

Rimanere all’interno delle diagnosi consente, secondo gli estensori del DSM-5, che siano assicuratele cure psicologiche, ormonali e chirurgiche,agli individui con disforia di genere.

Essere transgender non è più quindi oggi una patologia psichiatrica anche se gli studi in questa popolazione indicano un aumentato rischio di depressione (dal 48 al 62%) specie nelle donna transgender, di ansia (26-48%) e di comportamenti autolesivi e tentativi di suicidio (26-48%), oltre che di abuso di sostanze, di disturbo post-traumatico da stress, patologie alimentari e disturbo dissociativo.

Nella valutazione delle condizioni che possono favorire l’insorgenza di psicopatologia nella popolazione di genere non conforme o transessuale bisogna includere il “Minority Stress Model” di Meyer[4] ovvero eventi di vita come la discriminazione, l’eccessiva vigilanza nell’anticipare i fattori esterni e l’internalizzazione delle credenze negative esterne.

Andare da uno psichiatra o da uno psicoterapeuta è visto da queste persone come stigmatizzante e psicopatologizzante.

Quale può essere allora il ruolo di uno psicoterapeuta?

Il suo intervento può agire su vari fronti:

-       esplorare l’identità di genere,

-       affrontare le conseguenze dello stigma sulla salute mentale,

-       valutare adeguatezza e persistenza della richiesta di transizione,

-       diagnosticare e trattare eventuali disturbi psichici concomitanti che non precludono l’accesso al percorso di transizione,

-       sostenere il paziente e la sua famiglia durante il lungo e complesso iter di transizione.

La lotta allo stigma, sia in questo ambito sia in quello più ampio deidisturbi psichici, è un dovere per tutti gli operatori della salute mentale eognuno deve intervenire in base alla propria specificità professionale.

Rovesciando la prospettiva, ci si può chiedere se, a loro volta, psichiatri e psicoterapeuti siano vittima di uno “stigma”.

La critica che viene mossa più spesso a chi si occupa di patologie psichiche è di essere “categoriale”, di essere cioè professionisti che classificano le persone in base alla diagnosi. In effetti la nosografia psichiatrica ha visto un aumento esponenziale dei disturbi mentali con il passare del tempo.

La prima edizione del DSM nel 1952 classificava 102 disturbi; nel 1968 il DSM-II ne aveva individuati 182. Dodici anni dopo il DSM-III ne riporta 265, la versione Rivista del 1987 ne classificava 292. Il DSM-IV nel 1994ne indicava 297, che arriveranno a 365 nel 2000 con il DSM-IV-TR. In controtendenza, con lo scopo di essere meno categoriale, il DSM-5 nel 2013 haclassificato 157 disturbi mentali, aggiungendo in chiave dimensionale altri specificatori e diversi livelli di gravità che portano a circa 300 le patologie psichiche.[5]

Nell’era del politicamente corretto e del mainstream, in che modo si colloca il dibattito sull’approccio categoriale e dimensionale alla luce di nuove espressività psicopatologiche che stanno emergendo in questi ultimi anni?

Cerco di dare una risposta raccontando la mia esperienza professionale di 38 anni di attività come psichiatra e psicoterapeuta nel corso della quale ho avuto l’opportunità di seguire alcuni pazienti per oltre 20 anni. In questo lungo periodo di terapia ho visto le diagnosi modificarsi.Ad esempio, un soggetto che era affetto inizialmente da un disturbo depressivo ha manifestato successivamente un episodio ipomaniacale diventando così bipolare; dopo alcuni anni si è evidenziata una fase caratterizzata da stati dissociativi del pensiero con depersonalizzazione e, dopo un periodo di ricovero ospedaliero, è stato dimesso con la diagnosi di disturbo schizoaffettivo. Nel corso degli anni ha presentato anche delle fobie e dei pensieri ossessivi risultando, in base ai criteri diagnostici della nosografia psichiatrica, un soggetto affetto da DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo). È difficile quindi inquadrare nel lifetime un paziente all’interno di un’unica e rigida categoria diagnostica;è indiscutibile altresì che ognuno di noi è unico e irripetibile.

Questo può consentire a un operatore della salute mentale di rinunciare all’approccio categoriale nella cura delle patologie psichiche?

Ritengo di no! È necessario avere un punto di partenza, costituito da una diagnosi, dove “appoggiare” la propria competenza teorica e clinica in modo da organizzare un progetto terapeutico specifico per quella persona. La capacità e l’intelligenza del professionista della salute mentale dovranno poi guidarlo a ripensare in modo critico la sintomatologia del paziente e a cimentarsi in un confronto con l’equipe, i colleghi e/o i supervisori. Solo così sarà possibile comprendere quando e in che modo la sintomatologia sia frutto di volta in volta di formazioni reattive, meccanismi di difesa, spostamenti, ecc. per poter continuare ad accompagnare il paziente nel suo percorso di riabilitazione, di recovery e, quando si riesce, di guarigione.

Nancy McWilliams nel suo libro “La diagnosi psicoanalitica”[6] sottolinea come il processo diagnostico abbia una rilevanza centrale per organizzare le informazioni relative al paziente e che la capacità dell’operatore di formulare una diagnosi corretta si può rivelare un elemento fondamentale per la presa in carico e la cura dei pazienti.

Inquadrare in che categoria diagnostica si può inserire il paziente è utile nel pianificare il trattamento e per capire se si ha di fronte a sé uno psicotico, un nevrotico o un borderline…e quindi cosa proporre: una psicoterapia?una terapia di sostegno? una terapia farmacologica? Fornisce, inoltre, informazioni implicite sulla prognosi, nel caso ad esempio di un paziente antisociale o di un grave narcisista.

La diagnosi riduce, infine, la possibilità che il trattamento venga interrotto se il paziente non capisce bene cosa aspettarsi dalla terapia.

Il dibattito sull’approccio categoriale o dimensionale è molto vasto e riguarda varie situazioni cliniche e psicoterapiche. Ritengo utile iniziare dal tema, come si scriveva all’inizio, cioè da quello di cui si parla per passare successivamente a quanto su di esso viene detto ovvero al rema: alla “parola” che guida il pensiero critico di chi si occupa della dimensione emotiva dell’essere umano sia con un ruolo clinico e assistenziale sia con un ruolo didattico e di formatore.

 


[1]Bruno Bettelheim (Vienna 1903 - Silver Spring 1990) è stato uno psicoanalista di origini ebraiche, emigrato negli USA dopo essere stato tenuto prigioniero per circa un anno nei campi di Dachau e di Buchenwald.Si è dedicato alla psicologia infantileoccupandosi in particolare di autismo.

[2]Roustabout” è un termine che indica una persona non qualificata che svolge lavori pesanti, per lo più girovaghi in cerca di lavoro per pochi giorni e solitamente afroamericani.

[4]Meyer, I.H. Prejudice, social stress, and mental health in lesbian, gay and bisexual populations: Conceptual issues and research evidence. Psychological Bulletin, vol.129, 2003, pp. 674-697.

[5] https://peh-med.biomedcentral.com/articles/10.1186/1747-5341-7-2

[6] McWilliams, N. La diagnosi psicoanalitica, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2012.


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(*) Psichiatra, psicoanalista, docente universitario. Socio PRUA

https://www.associazioneprua.it/socio-salvatore-capodieci/

 

 

 

 

 

 



04 febbraio, 2022

La nuova geometria dell'Italia che rinasce

 

Matt Moore, National Collections Centre at the Science
 Museum Group, Wroughton, England, UK


Dall'inquietante cerchio magico al triangolo salvifico

di Luigi Sanlorenzo (*)


Con la cerimonia di insediamento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il nuovo vertice della Corte Costituzionale con Giuliano Amato e il ruolo rafforzato - perchè tale sarà -  del Presidente del Consiglio Mario Draghi, dimessosi doverosamente nella mani del nuovo Capo dello Stato  e invitato a continuare il proprio mandato fino al termine della legislatuira tra il giubilo del Parlamento, si configura un nuovo triangolo istituzionale sotto il cui segno si aprono anni cruciali per l'Italia.

Un breve inciso: figura di origine antichissima, il triangolo appare sotto forma di struttura nelle antiche immagini della triskeles, tanto cara ai siciliani,  simbolo solare dei culti celtici e mediterranei.

Intanto erano già stati individuati dei triangoli con delle proprietà particolari: il triangolo equilatero (adatto a creare delle maglie regolari), quello rettangolo (i cui lati avevano dei particolari rapporti numerici tali da poter essere calcolati con il teorema di Pitagora o con calcoli trigonometrici) e il triangolo aureo (triangolo isoscele nel quale base e lati sono in rapporto aureo). 

La triangolazione, lo sanno bene boy scout e topografi,  divenne presto un sistema per rilevare e ridisegnare il territorio e successivamente delle reti di comunicazione.  In epoca gotica il triangolo divenne anche il modulo costruttivo delle facciate delle grandi cattedrali, spesso associato a simbologie esoteriche.Intanto, nell’arte islamica, il triangolo era diventato la base di numerosi pattern geometrici.

Tornando a poligoni più reali, occorre ricordare come il triangolo sia l’unica figura geometrica indeformabile: se i vertici fossero snodi il triangolo non cambierebbe la sua forma mentre il quadrato potrebbe deformarsi e diventare un rombo, un rettangolo tramutarsi in un parallelogramma. Questo ne consente un uso in architettura come elemento di irrobustimento per le cosiddette “travi reticolari” o come modulo per coperture e cupole geodetiche. il triangolo ha un suo fascino al quale non sono stati  immuni artisti  contemporanei quali Kandinskij, Escher e il giovane Matt Moore.

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Con  l' avvento del tempo del triangolo, andranno in soffitta i tanti, quanto fragili, cerchi magici che,  a destra come a sinistra,  hanno caratterizzato la politica recente mettendo nelle mani di segretari di partito, non sempre adeguati, il destino del Paese?

Con quella che passerà alla storia delle elezioni presidenziali come "la rivolta dei peones" si chiude l'epoca delle conventicole, non sempre asseverate dal voto popolare, che hanno legato il proprio avvenire alla volontà dei capi partito, consegnandosi mani e piedi all'obbedienza cieca ed assoluta da cui era e sarebbe dipesa la propria permanenza nel Palazzo.

Con gli eventi di questo giorni ed i risultati dell'impietosa autopsia di cui ho raccontato su queste pagine https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/01/la-morte-della-politica.html  si sbriciolano leadership inconsistenti che tuttavia hanno condizionato la velocità di quel cammino tanto necessario a traghettare l'Italia nell' era del Next Generation Eu. 

Una fragile generazione di capi partito tra i quaranta e i sessant'anni, che altrove in Europa rappresenta la punta di lancia della progettualità nazionale, è andata a sbattere contro tre granitiche figure di ottuagenari rivelatisi più giovani, più vitali e più visionari di coloro di cui sarebbero potuti essere padri e, in qualche caso, nonni.

Parole serene ma severe come quelle pronunciate da Sergio Mattarella e rivolte al Parlamento hanno bruciato come sale sulle ferite,  più degli espliciti rimproveri che nella medesima circostanza furono pronunciate da un indispettito Giorgio Napolitano, rieletto non per alta ma per gretta necessità e "a tempo determinato".

Il dovere della responsabilità  "Il mio pensiero in questo momento - ha detto Mattarella, - è rivolto a tutte le italiane e a tutti gli italiani: di ogni età, di ogni Regione, di ogni condizione sociale, di ogni orientamento politico. E, in particolare, a quelli più in sofferenza, che si attendono dalle istituzioni della Repubblica garanzia di diritti, rassicurazione, sostegno e risposte concrete al loro disagio. Queste attese sarebbero state fortemente compromesse dal prolungarsi di uno stato di profonda incertezza politica e di tensioni, le cui conseguenze avrebbero potuto mettere a rischio anche risorse decisive e le prospettive di rilancio del Paese impegnato a uscire da una condizione di grandi difficoltà. "

Il richiamo rivolto ai partiti a collegarsi con il Paese reale : "L’Italia è un grande Paese. Lo spirito di iniziativa degli italiani, la loro creatività e solidarietà, lo straordinario impegno delle nostre imprese, le scelte delle istituzioni ci hanno consentito di ripartire. Hanno permesso all’economia di raggiungere risultati che adesso ci collocano nel gruppo di testa dell’Unione. Ma questa ripresa, per consolidarsi e non risultare effimera, ha bisogno di progettualità, di innovazione, di investimenti nel capitale sociale, di un vero e proprio salto di efficienza del sistema-Paese."

Il monito sereno ma severo alla necessità della visione del futuro rispetto alla difesa degli interessi personali e di parte: "I tempi duri che siamo stati costretti a vivere ci hanno lasciato una lezione: dobbiamo dotarci di strumenti nuovi per prevenire futuri possibili pericoli globali, per gestirne le conseguenze, per mettere in sicurezza i nostri concittadini. 

Il dovere verso le nuove generazioni : "Un’Italia impegnata nella tutela dell'ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi, consapevole della responsabilità nei confronti delle future generazioni."

La visione dell' Europa non come fortezza che respinga gli assalti del mondo, ma  protagonista globale per la promozione della dignità umana "I popoli dell’Unione Europea devono esser consapevoli che ad essi tocca un ruolo di sostegno ai processi di stabilizzazione e di pace nel martoriato panorama mediterraneo e medio-orientale. Non si può sfuggire alle sfide della storia e alle relative responsabilità."

Il rispetto delle prerogative del Parlamento attraverso rapporti leali di collaborazione e non di puro vassallaggio al Potere Esecutivo "Quel che appare comunque necessario – nell’indispensabile dialogo collaborativo tra Governo e Parlamento è che - particolarmente sugli atti fondamentali di governo del Paese – il Parlamento sia sempre posto in condizione di poterli esaminare e valutare con tempi adeguati. "

L'urgenza della Magistratura di riguadagnare la fiducia del popolo: "In sede di Consiglio Superiore ho sottolineato, a suo tempo, che indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza."

Articolato e programmatico,  il lungo e mai completo elogio della Dignità

Dignità di cultura e scuola nel tempo in cui di esse si fatto strame, dignità del lavoro le cui tutele sembrano essere tornate a quelle degli anni cinquanta, dignità nell'opporsi senza ambiguità ad ogni forma di razzismo, di antisemitismo, di violenza sulle donne e sui minori, di emarginazione degli anziani. In una parola, dignità di contrastare la cultura dello scarto e dell'indifferenza ribadendo la grande sintonia laica e repubblicana con il Magistero di Papa Francesco.

Quanta differenza con le parole avide e boriose di certi cerchi magici che hanno afflitto il Paese con toni ora melliflui ora arroganti, scomparsi da tempo del cuore degli italiani e da oggi spazzati via da un potente esorcismo che li riconsegna al nulla da cui sono sorti.

Infine: "Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, dalla complicità di chi fa finta di non vedere" e il ricordo di David Sassoli che, forse, un giorno avrebbe occupato a pieno titolo quell'altissima carica. 

"La sua testimonianza di uomo mite e coraggioso - ha ricordato Mattarella - sempre aperto al dialogo e capace di rappresentare le istituzioni democratiche ai livelli più alti, è entrata nell’animo degli italiani. «Auguri alla nostra speranza» sono state le sue ultime parole in pubblico. Aveva appena detto: «La speranza siamo noi»."

E la speranza, aggiunge chi scrive,  tirando in ballo Sant' Agostino, "ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle.”

Ce ne ricorderemo dei prossimi sette anni !





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(*) Giornalista e Saggista. Presidente PRUA

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/




01 febbraio, 2022

A scuola di democrazia

 

Ambrogio Bontadini,  Allegoria ed Effetti del Buon Governo, 1338 
Palazzo Pubblico di Siena


 La partecipazione dialogica-deliberativa

di  Antonella Marascia (*)


Me We

(Muhammad Ali / Cassius Clay)


Introduzione

Credo che la poesia più breve del mondo (“Me we”: io, noi), di Muhammad Ali o Cassius Clay possa ben introdurci al tema della democrazia partecipativa, all’interno della quale si colloca, come forma più circoscritta e definita, la democrazia di segno dialogico-deliberativo.

Come scrive Lewanski (2007) “la partecipazione certamente si basa su processi discorsivi: vi sono discussioni, scambi verbali più o meno aggressivi, talvolta negoziati e mediazioni. Ma non necessariamente si tratta di processi dialogico-deliberativi [...]. La «deliberazione» è invece un processo che mira a generare un consenso informato attraverso un metodo dialogico (in greco«discorso tra persone») che porti a comunicazioni interpersonali significative, a una progressiva comprensione delle ragioni altrui (senza rinunciare aprioristicamente alle proprie), a uno spostamento verso valutazioni più bilanciate, condivise, ragionate e orientate al cambiamento”.

Le principali caratteristiche della partecipazione di segno dialogico-deliberativa

La legittimazione di questa particolare forma di democrazia partecipativa avviene nell’ambito di un circolo virtuoso caratterizzato dai seguenti elementi:

1. Inclusione

Chi partecipa? Robert Putman nel suo libro Bowling Alone, parla di due tipologie apparentemente contrastanti di capitale sociale (quel corpus di regole che facilitano la collaborazione all'interno dei gruppi o tra essi) che egli chiama “bonding vs.bridging”. Nella democrazia deliberativa tutte le voci debbono poter farsi sentire ed essere ascoltate. 

Non stiamo parlando di tutti gli individui ma di tutti i punti di vista rispetto alla questione oggetto del processo che dovrebbe pertanto includere i portatori di interessi “diffusi” e non semplicemente gli stakeholders (che hanno normalmente accesso e influenza nelle negoziazioni istituzionali), gli individui, anche singoli, espressione di identità sociale in una società plurale ed eterogenea, i comuni, i cittadini attivi e/o i rappresentanti di microcosmi sociologicamente significativi.

2. Informazione

Affinché il processo sia efficace, occorre mettere a disposizione dei partecipanti non già informazioni “grezze”, ma dati rilevanti sia sul piano oggettivo che soggettivo,enfatizzando gli aspetti cognitivi così da pervenire ad un’opinione informata, come avviene ad esempio nei cosiddetti “sondaggi deliberativi” (deliberative poll). E’ importante facilitare la costruzione di ponti fra saperi “esperti” e saperi “comuni”, per ridurre il divario tra bisogni e soluzioni. Interessante, a proposito, l’esempio di“ingegneria popolare” della Gronda di Genova, dove il dialogo ha fatto emergere tutte quelle conoscenze e informazioni che, portate a fattor comune, hanno condotto alla migliore delle soluzioni possibili.

3. Dialogo

Ci riferiamo ad un dialogo “strutturato”, ad un’interazione discorsiva e comunicativa su questioni significative tra soggetti liberi e uguali, sia che avvenga in prossimità, sia che avvenga a distanza, attraverso l’utilizzo delle tecnologie. Non si tratta pertanto di avviare una conversazione spontanea sull’argomento, ma di poter esprimere la propria opinione e conoscere quella degli altri, in condizioni appropriate e, appunto,strutturate, nelle quali venga data a ciascuno la possibilità di parlare ma anche di ascoltare e di comprendere le ragioni altrui. Si tratta, pertanto, di processi dialogici in qualche maniera garantiti, neutrali, protetti, facilitati, svolti in un clima di rispetto reciproco, attraverso l’utilizzo di specifiche metodologie e tecniche che variano per numero di partecipanti, durata, utilizzo di tecnologie, come, ad esempio:

L’Open Space Technology (OST): è una tecnica adatta a coinvolgere ampi gruppi di persone in eventi pubblici che abbiano come obiettivo non solo la partecipazione ma anche la costruzione di risultati ampiamente condivisi. In diverse città d’Italia si sono realizzati nel corso degli ultimi anni OST spesso finalizzati alla costruzione condivisa del Piano strategico della Città. In questi casi viene chiesto ai partecipanti di rispondere ad una domanda semplice e al tempo stesso complessa: “Quale futuro vogliamo per la nostra Città?”.

Attraverso le risposte si definiscono gli argomenti di discussione, si formano gruppi di lavoro e, nel corso di un’intera giornata, si costruisce insieme un programma di sviluppo per la città, prospettando visioni e scenari futuri e discutendo liberamente sulle strategie di intervento, le proposte progettuali, le priorità da affrontare. I risultati vengono immediatamente restituiti a tutti i partecipanti all’interno di un instant report. 

L’OST presuppone un luogo abbastanza ampio da contenere tutti coloro che vogliano prendervi parte, l’utilizzo di PC, stampanti e altri strumenti tecnologici per restituire in diretta il lavoro dei gruppi e, ovviamente, una buona squadra d facilitatori.

La “Valutazione civica”: è un processo democratico di analisi critica e sistematica dell’azione delle amministrazioni pubbliche che coinvolge direttamente i cittadini e le associazioni nelle varie fasi di gestione dei servizi. Nel 2010 alcuni comuni italiani hanno sperimentato la Valutazione civica della qualità urbana, nell’ambito del progetto PON Governance 2007-2013 promosso dal Dipartimento della Funzione Pubblica e dal Formez, in collaborazione con Cittadinanzattiva e Fondaca.

In questo caso pubblica amministrazione e cittadini costruiscono insieme un percorso di valutazione oggettiva della qualità di un quartiere o dell’intera città, condividendo informazioni, sulla scorta di un percorso metodologico strutturato, con l’obiettivo di offrire ai decisori pubblici dati e informazioni condivise, per indirizzare nel migliore dei modi le politiche di miglioramento della qualità urbana, evidenziando le priorità rispetto alle risorse disponibili.

L’ Appreciative inquiry (letteralmente: l’intervista apprezzativa, l’inchiesta elogiativa): è un metodo di diagnosi che privilegia l’intelligenza collettiva, soffermandosi, in via preliminare, sugli ambiti di azione connotati da fattori stimolanti e da positività. Questa metodologia è stata sperimentata, ad esempio, in Catalogna nell’analisi dei fabbisogni formativi per la costruzione di strategie condivise di apprendimento delle persone e delle organizzazioni

Uno dei progetti più famosi di community planning che ha usato l'Appreciative Inquiry è “Imagine Chicago”  (www.imagechicago.org). Il World cafè: il caffè è, storicamente, un luogo in cui si parla e si comunica in modo diretto, colloquiale, piacevole ed informale. 

Nell’ ambito della democrazia deliberativa, il World Café è una metodologia che si ispira ai vecchi caffè, creando un ambiente di lavoro che facilita la libera discussione del tipo “Eravamo quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo...”. I partecipanti, a prescindere dal numero, si dividono in piccoli gruppi di 4/5 persone, sedute attorno ad un tavolino e vengono stimolati a discutere in autogestione, all’interno di un quadro comune, sotto la guida di alcune domande di riferimento. In questo modo si creano conversazioni importanti, in modo creativo e non convenzionale e si ragiona concretamente su progetti complessi, divertendosi ma anche producendo.

Il World Cafè deve essere ben organizzato e governato, lavorando sulle domande da porre e formulandole in modo tale da stimolare le persone a discutere, ragionare, proporre soluzioni, condividerle. I Circoli di ascolto organizzativo: sono un modo per sviluppare le risorse di un’organizzazione e gestire i processi di cambiamento strategico e di miglioramento continuo. Il metodo è stato messo a punto nel 2007 nell’ambito di una sperimentazione ministeriale su vasta scala ed è stato in seguito utilizzato in alcune realtà della PA e in organizzazioni private italiane. 

Consente di condividere esperienze, analisi, ipotesi di miglioramento, progetti di sviluppo, aumentando il livello di partecipazione di tutta l’organizzazione rispetto a una nuova visione. A livello più ampio può essere utilizzato per creare progetti di cittadinanza partecipata, com’è avvenuto a Trieste con l’iniziativa “Appuntamenti”.

La sperimentazione e il modello vengono raccontati nel volume I Circoli di ascolto organizzativo, pubblicato da Rubbettino nel 2007 e disponibile per il download gratuito all’indirizzo: 

http://dofcounseling.com/wp-content/uploads/2012/06/I_circoli_dascolto.pdf


4. Deliberazione

Il cuore del processo partecipativo è, appunto, la deliberazione che non è una decisione ma è il punto di arrivo, il risultato di un bilanciamento (la parola “delibera” viene dal latino libra = bilancia) tra i pro e i contro dei diversi possibili corsi d’azione nelle scelte collettive. Il processo deliberativo si fonda pertanto sulla responsabilizzazione dei partecipanti attraverso un confronto dialogico, sulla scorta delle opportune informazioni e conoscenze, per la migliore soluzione possibile di un problema collettivo, per una deliberazione di qualità.


5. Scelte condivise/consenso

Lo scopo della partecipazione di segno dialogico-deliberativo è un risultato condiviso, attraverso la ricerca di un consenso effettivo, su un terreno comune, che comporta l’accettazione della diversità ed affronta i conflitti in maniera costruttiva, sulla scorta dell’assunto che è possibile cambiare opinione grazie all’ascolto di nuovi punti di vista ed all’acquisizione di tutte le necessarie informazioni. La partita non si gioca pertanto sul terreno della negoziazione o dello scambio, ma su quello della condivisione e del consenso.


6. Influenza/Empowerment

Il processo dialogico-deliberativo comporta un impegno motivato, come la sottoscrizione di un protocollo o la redazione delle linee guida di un piano strategico o la scelta di alcune attività formative o socio-culturali piuttosto che altre, ecc... Si tratta di avviare un circolo virtuoso in cui chi partecipa non esprime un parere (più o meno obbligatorio, più o meno vincolante), ma contribuisce a scrivere la scelta che influenzerà l’attività dell’autorità che ha avviato il processo. 

Se guardiamo alla Regione Toscana, pioniera in questo ambito, vediamo che, in quattro anni, sono stati affrontati ben 116 processi dialogico-deliberativi che hanno coinvolto migliaia di cittadini, con un impegno di risorse economiche pari e € 700.000,00 annui. I risultati vanno dalla crescita del senso di appartenenza alla definizione di risposte efficaci a problemi che appaiono difficilmente gestibili e risolvibili con le modalità classiche della democrazia rappresentativa, rivelatesi spesso insufficienti, e che richiedono invece l’apporto di risorse anche da parte della società civile.

Per concludere...

...Torniamo al punto di partenza: Io, Noi. L’importanza della persona, il valore del gruppo. Il bisogno del singolo, la soluzione collettiva. Il capitale sociale complessivo,che unifica i legàmi sociali (bonding), i valori condivisi (bridging), il senso di appartenenza tra cittadini e istituzioni (linking), perché “da soli si corre più veloci, ma insieme si arriva più lontano”.

 

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(*) Segretario Generale Città Metropolitana di Palermo. Socia PRUA

https://www.associazioneprua.it/socio-antonella-marascia/