La narrazione in Psicologia nell’era della Cancel
culture e del Political
Correctness tra
categorie diagnostiche (vecchie e nuove) e modello dimensionale
di Salvatore Capodieci (*)
Il titolo di questo articolo inizia con la parola “narrazione”,termine particolarmente di moda in quest’epoca. Avrei potuto utilizzare anche il termine “storytelling” ma il suo utilizzo, che è prevalente nel digitale,ha finalità di marketing e commerciali rivolgendosi a dei clienti più che a dei lettori.
Il
termine narrazione si accompagna solitamente a un aggettivo (mitologica,
storica, fantastica, ecc.)e indica un singolo racconto trattato in forma
definitiva; questo vale anchenel caso in cui l’aggettivo sia “psicologica”.
Nella
retorica classica la narratio (in latino) è la parte dell’orazione che
segue l’esordio e serve all’esposizione obiettiva del fatto. Il fatto
psicologiconella fattispecie dovrebbe essere pertanto, oltre che definitivo,anche
obiettivo.
Se avessi scritto nel titolo “Il tema dell’articolo è …”, che è un’altra modalità diffusa di iniziare un’argomentazione, avrei utilizzato un termine che deriva dal greco themaovvero “ciò che viene posto” e avrei dovuto distinguere–nel contesto dell’enunciato–ciò di cui si parla (appunto il tema) da quanto su di esso viene detto in linea di massima:ovvero l’approccioin Psicologia (tema) è categoriale o dimensionale (rema)? Quest’ultimo termine (dal greco rhema) significa “parola”.
Ed è
proprio la parola, orale o scritta, la protagonista indiscussa dell’attività
dello psicoterapeuta che si trova a navigare, in quest’epoca, tra le onde dellapotically
correctness e la risacca della cancel culture.
Inizio,
adesso, il mio contributo ringraziandovi per l’attenzione che presterete alla
lettura del mio lavoro.Se avessi proposto questo articolonegli anni ’90,avreiscritto:
“Pregiatissimi lettori e gentilissime lettrici”dal momento che ci trovavamonell’epoca
del maschile sovraesteso. Qualche anno dopo, sulla scorta delle quote rosa
(entrate in vigore in Italia nel 2011) e della campagna “No women no panel”
dello scorso anno, mi sarei rivolto a voi con questo saluto: “Gentilissime lettrici
e pregiatissimi lettori”.
La
modalità più corretta con cui posso oggi introdurre il mio articolo,sentendomi più
inclusivo,è: Gentilissim*utilizzando asterisco o, ancora meglio,
scevà o schwa (la e rovesciata: ə)per concludere le parole, sostituendo la finale maschile o
femminile; una sorta di neutro contemporaneo che non indica le cose ma
l’assenza di genere o la polivalenza dei generi.
Fortunatamente“psicologo”
e “psicologa” hanno i termini sia al maschile che al femminile e va ancor
meglio con “psichiatra”e“psicoterapeuta” che sono “bisex”;si può così evitare,
come accade in altri contesti, di dover usare termini come“ingegnera”, “architetta”,
“assessora” e così via!
Si
tratta, in realtà, di una questione complessa, nata come reazione alla
predominanza del maschile durata secoli. È dai primi del ‘900 che è iniziata
una riflessione sull’identità femminile che avrà come obiettivo la specificità
femminile quale valore per l’umanità.
Mi
accorgo, come docente universitario, che le nuove generazioni prestano molta
attenzione alle differenti sensibilità di genere. C’è una domanda di
riconoscimento, in particolare nei più giovani e soprattutto nelle donne e, al
tempo stesso,la richiesta di un linguaggio meno esclusivo in grado di
accogliere la molteplicità delle identità.
Chi si
occupa di psicologia e di psicoterapia si trova così all’interno di un
movimento oscillatorio che si muove tra l’avvicinarsi all’uso di un linguaggio politicamente
corretto,che rischia però di attenuare l’immediatezza di una comunicazione
empatica attraverso l’utilizzo di sofismi linguistici a volte un po’ ipocriti,
e il percepire la sollecitazione a riflettere, come adulti, su questo bisogno
di riconoscimento e di ascolto espresso dalle persone più giovani.
Il quesito centrale rimane: “In che modo il politicamente corretto può influenzare il lavoro clinico e didattico di chi si occupa di Psicologia”?
Si potrebbe rispondere proponendo di ripensare al decennale lavoro compiuto da Bruno Bettelheim[1] sull’importanza delle fiabe nell’infanzia, conclusosi con la pubblicazione nel 1976 del libro “Il mondo incantato: Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe”. Fiabe che sono state riproposte come film di animazione dalla Disney e che vedono oggi una critica severa rivolta ai loro contenuti considerati portatori di messaggi fuorvianti. In ambito mediatico tutto ha ovviamente una risonanza sempre molto intensa.
Nelle favole di “Biancaneve” e della “Bella addormentata”, ad esempio, verrebbe raccontato un abuso sessuale, consistito per entrambe in un bacio ottenuto senza il consenso delle protagoniste.
Biancaneve, inoltre, con quella pelle ‘bianca
come la neve’,che nella fiaba viene così spesso elogiata e sottolineata, risulta
offensiva verso chi non possieda una carnagione così chiara.
Peter Pan, Dumbo e gli Aristogattisono stati accusati di “trasmettere stereotipi
e messaggi dannosi e razzisti”. In specifico, Peter Pan è giudicato offensivo perché
utilizza l’appellativo “pellirosse” parlando dei nativi americani.
E cosa avrà mai combinato il simpatico elefantino
Dumbo nel film del 1941? L’accusa nei suoi confronti fa riferimento ai versi di
una canzone “The song of
Roustabouts”, considerati
irrispettosi degli schiavi afroamericani che lavoravano nelle piantagioni[2]. Si tratta dell’unica
canzone del film a non essere stata tradotta o doppiata in italiano. Ecco la
traduzione di alcuni versi:
Lavoriamo tutto il giorno, lavoriamo tutta la notte,
non abbiamo mai imparato a leggere o scrivere.
Siamo degli operai dal cuore felice.
Quando gli altri sono andati a letto
lavoriamo come schiavi finché non siamo quasi morti.
Non sappiamo quando avremo la nostra paga
e quando la riceviamo, buttiamo via tutti i nostri soldi.
E gli Aristogatti nel loro film del 1970?Sono
colpevoli di aver raffigurato il gatto siamese Shun Gon con tratti
caricaturalmente asiatici: occhi spioventi, denti all’infuori e bacchette usate
anche per suonare il pianoforte; tutti aspetti poco rispettosi delle
popolazioni dell’Asia.
Il libro della giungla del 1967, tratto dal romanzo di Rudyard
Kipling, rappresenta Re Luigi come un orango pigro, con scarse capacità linguistiche
e che canta in uno stile jazz Dixieland. Il personaggio è stato criticato perché
risulta una caricatura razzista degli afroamericani.
La Disney ha rimosso i
titoli a pagamento dalla piattaforma nella sezione dedicata ai bambini sotto i
7 anni ed è prevedibile che verranno sospesi anche per le fasce di età
superiore.
Oltre che segnalare imprecisioni ed errori, la Disney
dichiara apertamente i suoi intenti: «Invece di rimuovere questo contenuto,
vogliamo ammetterne l’impatto dannoso, trarne insegnamento e stimolare il
dialogo per creare insieme un futuro più inclusivo».
Aggiunge
poi: «Non possiamo cambiare il passato, ma
possiamo riconoscerlo, imparare e andare avanti insieme per creare un domani
che oggi possiamo solo sognare”.
Con questo proponimento Disney+ corre nuovamente ai ripari
dal ripetersi di accuse di razzismo e di utilizzo di termini inadeguati.
La piattaforma, dedicata al pubblico più giovane, aveva già
inserito nelle schede di alcuni classici dell’animazione un avviso per “rappresentazioni
culturali superate” ma,in seguito, ha aggiornato ed esteso l’avvertenza in
modo da coprire qualsiasi eventuale scorrettezza compiuta in passato. E così a
introdurre classici dell'animazione, come Gli Aristogatti, Lilli
e il Vagabondo, Dumbo, Peter
Pan e il Libro della giungla, alla
voce “Dettagli” c’è
un riquadro su uno sfondo nero che avverte:
«Questo programma include rappresentazioni negative e/o
trattamenti errati nei confronti di persone o culture. Questi stereotipi erano
sbagliati allora e lo sono oggi».
Fino al momento della stesura dell’articolo non ho ricevuto notizie
che qualche associazione per la difesa degli animali abbia querelato la
principessa per aver baciato il ranocchio della fiaba dei fratelli Grimm!
Psicologi
e psicoterapeuti in che modo vivono la “political correctness”?
Quando
il principale strumento di lavoro è la parola è sufficiente dirne una
“sbagliata” per essere messi sotto processo; ovviamente personaggi famosi e
politici sono maggiormente esposti ma ormai non si salva più nessuno.Il rischio
è ovviamente che l’inclusione si riduca a un problema di linguaggio e non più ad
azioni mirate a favorirla.
Ecco
alcune testimonianze personali in ambito didattico universitario.
Per
numerosi anni, quando nel mio Corso di Psicopatologia introducevo l’argomento
dei disturbi alimentari, ero solito dire: «Al di là delle classificazioni, che
possiamo trovare nei Manuali, un clinico attento di fronte a una persona che
sia eccessivamente magra o in evidente sovrappeso, deve ipotizzare che si
tratti di un soggetto affetto da un disturbo alimentare». Negli ultimi anni mi
astengo dal suggerire questa osservazione di carattere clinico perché in aula
sono presenti studentesse molto magre e studenti o studentesse in evidente
sovrappeso e rischierei di risultare discriminante nei loro confronti sulla
base di una caratteristica fisica.
Qualche
anno fa, durante il Corso di Sessuologia, stavo introducendo la lezione sulle
parafilie quando vengo interrotto da una giovane donna che mi intima: «Stia
attento professore nella sua esposizione ai termini che utilizza perché
l’avverto:“appartengo alla comunità LGBTQ”». Rispondo tranquillamente che
tutto ciò che riporterò farà riferimento alle classificazioni internazionale che
trattano questo importante argomento della sessualità umana.
Mentre rispondevo
pensavo tra me e me che questa studentessa non era ancora nata quando con un
gruppo di colleghi sessuologi portavamo avanti le prime battaglie per
consentire l’applicazione della legge164 del 1982 e cercavamo di aiutare le prime
persone che dovevano intraprendere il processo di transizione affinché potessero
effettuare l’intervento negli ospedali pubblici senza dover pagare costosi
interventi in cliniche private.
Non è
immune dal politically correctness neppure il DSM (il Manuale Diagnostico e
Statistico dei Disturbi Mentali utilizzato dagli operatori della salute mentale
di tutto il mondo) che, nel 2000, utilizzava il termine Disturbo dell’Identità di
Genereper descrivere la condizione di un soggetto (senza
anomalie fisiche) che desiderasse vivere ed essere accettato come un membro del
sesso opposto e che mostrasse un’intensa e persistente identificazione con
l’altro sesso.
Il DSM 5, nel 2013, ha introdotto il concetto di Disforia di genere,che sostituiva il vecchio termine “disturbo”presente
nel DSM-IV-TR,per evidenziareil fenomeno
dell’“incongruenza di genere” vissuta dal soggetto,piuttosto che
l’identificazione con il sesso opposto come indicava la precedente diagnosi.
Riepilogando, il malessere che si accompagna alla disforia di
genere è legato all’incongruenza tra due precise dimensioni dell’identità
sessuale: l’identità di genere e il sesso biologico. La prima è
concettualizzata come il continuo e persistente senso di sé come maschio,
femmina, o altro genere, diverso dal binarismo sessuale; il sesso biologico,
invece, è definito dalle caratteristiche sessuali a livello cromosomico,
gonadico e/o genitali di una persona. Secondo gli Autori del DSM-5, l’aspetto
che caratterizza maggiormente la disforia di genere è un’angoscia clinicamente significativa”[3].
Un cambiamento ancora più radicale l’ha messo in
atto l’ICD (International Classification of Disease) dell’OMS
(l’Organizzazione Mondiale della Sanità)che, se nell’ICD-10 del 1993,utilizzavaTransessualismo,
disturbo codificato tra le malattie mentali, l’8 giugno del 2018,nella
undicesima edizione(ICD-11)entrata in vigore l’1 gennaio 2022,l’ha definito “Incongruenza
di genere” e l’haspostata dal capitolo dei disturbi mentali a un nuovo
capitolo, appositamente creato, relativo alla “salute sessuale” con la precipua
finalità di depatologizzare tale condizione.
Rimanere all’interno delle diagnosi consente, secondo gli
estensori del DSM-5, che siano assicuratele cure
psicologiche, ormonali e chirurgiche,agli individui con disforia di genere.
Essere transgender non è più quindi oggi una
patologia psichiatrica anche se gli studi in questa popolazione indicano un
aumentato rischio di depressione (dal 48 al 62%) specie nelle donna
transgender, di ansia (26-48%) e di comportamenti autolesivi e tentativi di suicidio
(26-48%), oltre che di abuso di sostanze, di disturbo post-traumatico da
stress, patologie alimentari e disturbo dissociativo.
Nella valutazione delle condizioni che possono favorire l’insorgenza di psicopatologia nella popolazione di genere non conforme o transessuale bisogna includere il “Minority Stress Model” di Meyer[4] ovvero eventi di vita come la discriminazione, l’eccessiva vigilanza nell’anticipare i fattori esterni e l’internalizzazione delle credenze negative esterne.
Andare da uno psichiatra o da uno psicoterapeuta
è visto da queste persone come stigmatizzante e psicopatologizzante.
Quale può essere allora il ruolo di uno psicoterapeuta?
Il suo intervento può agire su vari fronti:
-
esplorare l’identità di genere,
-
affrontare le conseguenze dello stigma sulla
salute mentale,
-
valutare adeguatezza e persistenza della
richiesta di transizione,
-
diagnosticare e trattare eventuali disturbi
psichici concomitanti che non precludono l’accesso al percorso di transizione,
-
sostenere il paziente e la sua famiglia durante
il lungo e complesso iter di transizione.
La lotta
allo stigma, sia in questo ambito sia in quello più ampio deidisturbi psichici,
è un dovere per tutti gli operatori della salute mentale eognuno deve
intervenire in base alla propria specificità professionale.
Rovesciando
la prospettiva, ci si può chiedere se, a loro volta, psichiatri e
psicoterapeuti siano vittima di uno “stigma”.
La
critica che viene mossa più spesso a chi si occupa di patologie psichiche è di
essere “categoriale”, di essere cioè professionisti che classificano le persone
in base alla diagnosi. In effetti la nosografia psichiatrica ha visto un
aumento esponenziale dei disturbi mentali con il passare del tempo.
La prima
edizione del DSM nel 1952 classificava 102 disturbi; nel 1968 il DSM-II ne
aveva individuati 182. Dodici anni dopo il DSM-III ne riporta 265, la versione
Rivista del 1987 ne classificava 292. Il DSM-IV nel 1994ne indicava 297, che
arriveranno a 365 nel 2000 con il DSM-IV-TR. In controtendenza, con lo scopo di
essere meno categoriale, il DSM-5 nel 2013 haclassificato 157 disturbi mentali, aggiungendo
in chiave dimensionale altri specificatori e diversi livelli di gravità che
portano a circa 300 le patologie psichiche.[5]
Nell’era
del politicamente corretto e del mainstream, in che modo si colloca il
dibattito sull’approccio categoriale e dimensionale alla luce di nuove espressività
psicopatologiche che stanno emergendo in questi ultimi anni?
Cerco di
dare una risposta raccontando la mia esperienza professionale di 38 anni di
attività come psichiatra e psicoterapeuta nel corso della quale ho avuto
l’opportunità di seguire alcuni pazienti per oltre 20 anni. In questo lungo
periodo di terapia ho visto le diagnosi modificarsi.Ad esempio, un soggetto che
era affetto inizialmente da un disturbo depressivo ha manifestato successivamente
un episodio ipomaniacale diventando così bipolare; dopo alcuni anni si è
evidenziata una fase caratterizzata da stati dissociativi del pensiero con depersonalizzazione
e, dopo un periodo di ricovero ospedaliero, è stato dimesso con la diagnosi di
disturbo schizoaffettivo. Nel corso degli anni ha presentato anche delle fobie
e dei pensieri ossessivi risultando, in base ai criteri diagnostici della nosografia
psichiatrica, un soggetto affetto da DOC (Disturbo Ossessivo Compulsivo). È
difficile quindi inquadrare nel lifetime un paziente all’interno di
un’unica e rigida categoria diagnostica;è indiscutibile altresì che ognuno di
noi è unico e irripetibile.
Questo
può consentire a un operatore della salute mentale di rinunciare all’approccio
categoriale nella cura delle patologie psichiche?
Ritengo
di no! È necessario avere un punto di partenza, costituito da una diagnosi, dove
“appoggiare” la propria competenza teorica e clinica in modo da organizzare un
progetto terapeutico specifico per quella persona. La capacità e l’intelligenza
del professionista della salute mentale dovranno poi guidarlo a ripensare in
modo critico la sintomatologia del paziente e a cimentarsi in un confronto con
l’equipe, i colleghi e/o i supervisori. Solo così sarà possibile comprendere
quando e in che modo la sintomatologia sia frutto di volta in volta di formazioni
reattive, meccanismi di difesa, spostamenti, ecc. per poter continuare ad accompagnare
il paziente nel suo percorso di riabilitazione, di recovery e, quando si
riesce, di guarigione.
Nancy
McWilliams nel suo libro “La diagnosi psicoanalitica”[6]
sottolinea come il processo diagnostico abbia una rilevanza centrale per
organizzare le informazioni relative al paziente e che la capacità
dell’operatore di formulare una diagnosi corretta si può rivelare un elemento
fondamentale per la presa in carico e la cura dei pazienti.
Inquadrare
in che categoria diagnostica si può inserire il paziente è utile nel
pianificare il trattamento e per capire se si ha di fronte a sé uno psicotico, un nevrotico o un borderline…e
quindi cosa proporre: una psicoterapia?una terapia di sostegno? una terapia
farmacologica? Fornisce, inoltre, informazioni implicite sulla prognosi, nel
caso ad esempio di un paziente antisociale o di un grave narcisista.
La diagnosi riduce, infine, la possibilità che il trattamento venga interrotto
se il paziente non capisce bene cosa aspettarsi dalla terapia.
Il dibattito sull’approccio categoriale o dimensionale è molto vasto e riguarda varie situazioni cliniche e psicoterapiche. Ritengo utile iniziare dal tema, come si scriveva all’inizio, cioè da quello di cui si parla per passare successivamente a quanto su di esso viene detto ovvero al rema: alla “parola” che guida il pensiero critico di chi si occupa della dimensione emotiva dell’essere umano sia con un ruolo clinico e assistenziale sia con un ruolo didattico e di formatore.
[1]Bruno Bettelheim (Vienna 1903 - Silver Spring 1990) è stato uno psicoanalista di origini ebraiche, emigrato negli USA dopo essere stato tenuto prigioniero per circa un anno nei campi di Dachau e di Buchenwald.Si è dedicato alla psicologia infantileoccupandosi in particolare di autismo.
[2]“Roustabout” è un termine che indica una persona non qualificata che svolge lavori pesanti, per lo più girovaghi in cerca di lavoro per pochi giorni e solitamente afroamericani.
[4]Meyer, I.H. Prejudice, social stress, and mental health in lesbian, gay and bisexual populations: Conceptual issues and research evidence. Psychological Bulletin, vol.129, 2003, pp. 674-697.
[5] https://peh-med.biomedcentral.com/articles/10.1186/1747-5341-7-2
[6] McWilliams, N. La diagnosi psicoanalitica, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 2012.
(*) Psichiatra, psicoanalista, docente universitario. Socio PRUA
https://www.associazioneprua.it/socio-salvatore-capodieci/
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RispondiEliminaSarò sincero: il politicamente corretto mi ha sempre fatto ribrezzo. E l'ipocrisia dei politicamente corretti ancora di più. Mi chiamassi Disney non avrei cambiato una virgola o aggiunto una nota ai miei cartoni.
RispondiEliminaInoltre, tutta la letteratura per bambini (quella importante) è intrisa di violenza, di terrore, di sangue, di azioni scorrette: senza queste, col cavolo che i bambini si sarebbero messi a leggere le favole. Pollicino (di Perrault) veniva letto perché i suoi genitori abbandonavano i loro 7 figli nel bel mezzo della foresta, mica perchè la famiglia di Pollicino fosse quella del Mulino Bianco. E l'Orco che li voleva mangiare li annusava ucci ucci sento odor di cristianucci! Che meraviglia era per le nostre menti, che suspence, che tensione, che voglia di continuare a leggere per sapere come finiva la storia. E di riprovare subito a leggerne un'altra, ancora più violenta e ancora più granguignolesca.
Adesso che leggono i bambini? Nulla: fiabe insulse, melense, noiose da frantumare i coglioni a chiunque, e via a vedere la televisione, con altri cartoni ancora più noiosi e melensi, ma almeno con il telecomando in mano possiamo goderci tette e culi dei balletti TV senza che papà e mamma rompano...
Che mondo triste abbiamo creato!
Ah... dimenticavo: ottimo articolo, complimenti.
Mi unisco al commento di Santino nel condividere l'articolo di Salvo che denuncia quanto si sia passato il segno. Per quanto riguarda i bambini poi, è notorio che la truculenza delle favole e il relativo happy end è un grande vaccino contro la paura che se non gestita in quella fase si presenta in modo patologico in età adulta. Grazie ad entrambi.
RispondiEliminaHo letto il contributo. Sono d'accordo con l'ingegnere Paternò, Il rispetto incondizionato a mio avviso prescinde dagli appellativi e su questa direzione ci stiamo oggettivamente muovendo. Il politicamente corretto è solo poesia e gli psicologi ne fanno anche troppa, non so gli psichiatri.
RispondiEliminaRingrazio Santino per il suo appassionato commento che ci sottolinea la necessità del buon senso piuttosto delle esasperazioni linguistiche. Ricordo che negli anni '80 un movimento educativo aveva deciso di pubblicare una collana di libri per bambini in cui l'orco era anche buono e la fatina invece anche un po' perfida. L'obiettivo pedagogico era che i bambini capissero che tutti siamo un po' buoni e un po' cattivi. Fu un completo fallimento perchè l'iniziativa negava quello che ci ricorda l'ingegnere e cioè che i bambini sono per loro sviluppo psichico dei fondamentalisti e vogliono sapere con chiarezza se un personaggio sia "bianco" o "nero".
RispondiEliminaLe fiabe del fratelli Grimm hanno invece centinaia di anni e godono sempre di un grande successo ...
La poesia è un aspetto fondamentale dell'animo umano e grazie agli psicologi che le interpretano.
Per quanto riguarda gli psichiatri mi piace questo conosciuto detto: il nevrotico costruisce castelli in aria, lo psicotico li abita e lo psichiatra ne riscuote l'affitto!