Lu Re re Re. Befè e i suoi compari.
di Marcella Burderi (*)
Uno dei protagonisti più interessanti nei racconti della tradizione popolare è il Re.
Affiora dalle narrazioni orali restituite ancora oggi dagli anziani siciliani, ma lo troviamo ben delineato nelle trascrizioni dei racconti raccolti da Giuseppe Pitrè. Si tratta di una figura tracciata con toni e sfumature che meritano una riflessione per la loro estrema diversità, riflessione che è all’esame di uno studio più approfondito e di cui questo breve articolo non è che un sunto.
A dispetto di ciò che il Re, sovrano, rappresentante del popolo, figura al di sopra del bene e del male, rappresenta nella comune percezione, a questo personaggio il narratore affibbia ogni sorta di comportamento e manifestazione di sentimento a volte non proprio edificante e in linea con il suo rango, dipingendolo spesso preda dei suoi cambiamenti d’umore.
I racconti che propongo qui di seguito sono solo un minimo esempio e di certo ciascuno dei lettori può rinvenire una caratteristica di questo personaggio che di volta in volta emerge da un cuntu o dall’altro custodito nella propria memoria. In particolar modo io vi propongo di riascoltare Lu cuntu di Re Befè befè viscotta e minè, Lu cuntu di San Giogio Cavaleri, Lu cuntu di Lonca vita o nuostru Re e per chiudere Lu cuntu di Re e li Carzarati.
Come vedremo in tutti questi racconti eccezion fatta che per l’ultimo, il Re viene descritto in un andamento verso il basso prima come autorevole, poi autoritario, ma nel corso del racconto si rivela pusillanime, si smentisce, si rimangia la parola data, lagnoso, voltafaccia, ladro, spendaccione.
Avremo a che fare con re vigliacchi, sovrani, re-padri che si dimenticano delle loro figlie, rinchiudono le mogli in un pozzo e le lasciano lì, mandano a morire uno dei figli perché si compia la loro guarigione, lasciano in povertà un figlio sugli altri senza ragione, si lasciano irretire da mogli orchesse, rincitrulliscono per la troppa bontà, o sono così cattivi da non poterli mai placare, e a volte pur di permettere che una strana e persino inutile profezia si avveri sono pronti a sposare la propria figlia incredula, come Pilusedda[1], non riconoscendola più come sangue del proprio sangue. Insomma perché la figura del sovrano non corrisponde mai a quella di una guida spirituale collettiva che ci si aspetta di incontrare nel corso del racconto?
Eppure March Bloch nel suo I re taumaturghi sostiene che i re, nel medio evo, in Inghilterra e in Francia, fossero tenuti in grande considerazione, al punto tale che li si ritenesse addirittura capaci di favorire guarigioni imponendo le loro mani sul malato. Come ci testimonia Jean Jouvenet, in una tela del ‘600, i re con il loro tocco, guarivano una malattia legata ai linfonodi del collo. Jouvenet accanto al re, alla sua destra dipinge san Marcouf, che nell’etimologia del suo nome, mar-mal, couf - cou collo, dichiara la sua capacità di guarire le problematiche legate al collo.
La presenza del santo altro non è che il riconoscimento della dignità di guaritore del re poiché il santo ne riconosce le capacità che gli vengono direttamente dalla divinità. E questa capacità gli veniva da un solo fatto: il re era ritenuto mago e guaritore soprattutto perché consacrato. Incoronato dopo aver ricevuto l’unzione dell’olio sacro questo rituale situava i sovrani in una sfera sacra consacrata dalla presenza di un sacerdote: quello stesso sacerdote che, durante il rituale dell'unzione, si poneva per un momento ad un livello superiore rispetto al monarca.
Il livello del “divino” che riconosceva l’umanità del sovrano ma lo elevava rispetto a tutti gli altri. Addirittura nel secolo XIV è risaputo che i sovrani inglesi fossero in grado di curare l’epilessia con un particolare rito noto con il nome cramp-rings rito degli anelli, alla lettera "anelli contro il crampo", capaci di alleviare dolori e spasmi muscolari. Questa funzione di guaritore però fu riconosciuta solo ai sovrani francesi e inglesi. Non accadde lo stesso per i sovrani tedeschi o austriaci e meno ancora per quelli italiani. In minima parte accadde per i sovrani spagnoli che furono sostituiti da una schiera di santi guaritori. In Sicilia, solo per fare un esempio, infatti, per curare l’epilessia si ricorreva a San Vito.
Il problema restava dunque. Si doveva ricorrere al sovrannaturale per far fronte a certe problematiche e se è vero quanto sostiene Jacques Le Gof nella prefazione al testo di M.Bloch: “il miracolo esiste a partire dal momento in cui ci si può credere e tramonta e poi sparisce quando non ci si può più credere”. Quel miracolo, che dalle nostre parti era merito ora di un santo ora dell’altro, in Francia e in Inghilterra era opera del sovrano poichè mancò ai sovrani, eccetto che a quelli inglesi e francesi, la credibilità, come sottolineava March Bloch, laddove, al contrario della Francia e dell'Inghilterra, nei secoli XI e XII, il sovrano riuscì a assumere la forma di un'istituzione precisa e stabile. In Francia e in Inghilterra si stabilì una sorta di equilibrio tra sovrano e popolo che secondo Bloch garantiva unità e compattezza.
Da un lato il sovrano, corpo dominatore, unto con l’olio sacro, dall’altra parte della barricata il popolo, corpo dominato, che in quanto fatto di soggetti più deboli, malati e bisognosi era assoggettato al re. Assoggettamento, non solo simbolico: il suo presunto potere di guarire gli assicurava la sua supremazia, influenza e la sua autorità sul suo popolo. Il sovrano era il suo popolo.
Nella frastagliata situazione geopolitica italiana la situazione era davvero complicata. E di certo non era il re a rappresentare l’unità del popolo. Tornando ai Cunta, come spesso accade la letteratura riporta ciò che la realtà propone. Di conseguenza in alcuni racconti la figura del re non ci fa proprio una gran bella figura. Ma possiamo rintracciare un capostipite? Possiamo rinvenire una prima forma di dissenso con l’Imperatore, con il sovrano? In una forma molto velata è proprio uno dei primi, così detti, poeti della scuola siciliana a porsi in contrasto con il suo sovrano.
Ciullo d’Alcamo in Rosa fresca aulentissima dissente proprio con una decisione presa da Federico II: uno stupratore che avesse pagato sul momento una grossa somma di denaro e avesse gridato la sua defensa pagando all’istante la multa e gridando "viva l'imperatore" non poteva essere né accusato di stupro né tanto meno aggredito, pena che invece toccava agli eventuali aggressori che non ottemperavano a tale norma e venivano puniti con l'immediata impiccagione sul posto. Era il 1231. Ma si sa, in fondo questa è la voce di un Jongleur, di un giullare, di un giocoliere, e quale credibilità può avere?
Afferma Edmond Faral in Les jongleurs en France au Moyen Age: “Une opinion vivace veut que, avant d'être des rhapsodes, des professionnels vivant d'industrie, sceptiques inventeurs de contes et évocateurs de légendes mortes, ces chanteurs aient été des hommes d'action, qui, faisant figure dans les batailles, célébraient ensuite les beaux coups qu'ils avaient vu frapper. Ils auraient été les témoins, et peut-être aussi, à l'occasion, les héros de leurs récits ; et ces récits, nés de combats, enflammaient ensuite, dans de nouveaux combats, le coeur des hommes de guerre”[2], uomini d’azione dunque.
Ma anche semplici consiglieri oltre che attori, musicisti, giocolieri, acrobati: “La danse, la musique, des contes, des chansons, toutes sortes d'inventions ingénieuses, voilà ce que les jongleurs apportaient, et voilà pourquoi ils comptaient parmi les plaisirs du dimanche et des fêtes. Voilà pourquoi on les aimait au point que les pouvoirs civils se crurent parfois obligés d'intervenir pour empêcher qu'on n'en abusât.[3]
Ci aiuta a definirne il profilo anche Salvatore Battaglia in Giullari (1933) : “Vivono dapprima in margine alla vita morale e rappresentano il divertimento e la dissipazione; nella loro esistenza vagabonda e stentata obbediscono al solo istinto del lucro e piegano la loro coscienza con la stessa abilità dei loro giuochi; le loro schiere sono accresciute dai goliardi (v.), preti di falsa vocazione, frati richiamati dal desiderio del mondo, vaganti, ribelli, maledici; a loro si uniscono le giullaresse o "soldadere" - che vivono cioè alla giornata - le quali all'arte dei primi aggiungono quella libertina e venale: e in uomini e donne la Chiesa vede per tempo - fin dal sec. VIII - licenza e corruzione, e condanna a più riprese il loro spirito mondano e dissoluto; nei concilî, nelle ordinanze vescovili, negli scritti degli ecclesiastici e dei moralisti, la loro opera è ritenuta diabolica”. [4]
Ma se ancora non bastasse a delineare la figura del Giullare per capirlo ci affidiamo una volta di più a Faral che proprio in apertura del sul lavoro si pone la questione di chi sia davvero un Giullare: “Qu'est-ce qu'un jongleur? C est la première question qui se pose au début d'un livre qui prétend être une histoire des jongleurs, et elle ne laisse pas d'être embarrassante. Supposons, en etïet, que nous répondions: un jongleur est un être multiple: c'est un musicien, un poète, un acteur, un saltimbanque ; c'est une sorte d'intendant des plaisirs attaché à la cour des rois et des princes ; c'est un vagabond qui erre sur les routes et donne des représentations dans les villages; c'est le vielleur qui, à l'étape, chante de «geste» aux pèlerins; c'est le charlatan qui amuse la foule aux carrefours; c'est l'auteur et l'acteur des «jeux» qui se jouent aux jours de fête, à la sortie de l'église; c'est le maître de danse qui fait u caroler… le jongleur, c'est tout cela, et autre chose encore”[5]
Soldati, poeti, saltimbanchi che siano i giullari ci restituiscono la voce del popolo a cui dà vita e dignità, intermediari tra la cultura di corte e quella popolare, dato che si muovevano tra castelli e piazze, il personaggio del saltimbanchi, o salta in panca, chiude quasi sempre con una formula che, pur cambiando in molte versioni, lo pone da una parte della barricata contro l’altra: “e tutti arristaru filici e cuntenti e a nui puvirieddi nun ni resuru nenti”.
È egli dunque un poveraccio senza speranza alcuna? Condannato per sempre a rimanere a bocca asciutta e con le mani vacanti? Sempre in pericolo di vita per le sue battute e per la sua ironia? eppure la letteratura ce lo restituisce sempre sorridente, un sorriso forse amaro, ma sempre armato di quell’umore che è la sua unica arma contro re, vescovi, ricchi e cardinali: “Il fatto è che noi villan, noi villan, e sempre alegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam, e sempre allegri bisogna stare”[6]. Non è un estratto di un componimento giullaresco medievale, ma il celebre finale di Ho visto un re, di Dario Fo. Con lui apprendiamo che la figura del giullare ride alla vita, alle avversità, ride in faccia ai potenti e persino a chi gli fa male anche in maniera trasversale, e la ragione è così semplice da disarmare: non ci sono vere ragioni per piangere se si è in vita. Ridere è una condizione di privilegio che solo pochi si possono permettere: chi ride possiede gioia di vivere.
Ma è con le Chancon de Geste che serpeggia il vero dissenso con la figura del sovrano imperatore. Tanto che come sottolinea Ignazio Buttitta in I pupi Siciliani memoria, tradizione e innovazione di un patrimonio artistico e culturale un uomo ricco e avaro che si lascia ingannare dai malvagi è un Carlo Magno.[7]
All’imperatore non verrà mai perdonato di esser la causa della disfatta di Roncisvalle e della conseguente morte di Orlando. La storia diverrà repertorio privilegiato dell’Opera dei Pupi. E proprio la battaglia in cui perde la vita Orlando è il momento più toccante, quel momento in cui si realizza non la magnificenza di Carlo Magno ma la sua disfatta causata dalla sua sete di potere fonte della tragedia.
È Pitrè che descrive la partecipazione della gente alla rappresentazione della disfatta cogliendo negli spettatori l’amarezza e l’incredulità; “all’apparir dell’angelo a Rinaldo, al benedir che fa Turpino il conte Orlando, tutti si scoprono il capo come la sera del Venerdì santo rappresentandosi il Mortorio di Cristo. Anzi tra il Mortorio di Cristo e la Morte dei paladini c’è tale riscontro, tale identità d’impressioni negli spettatori che mai la maggiore. Le due rappresentazioni sono egualmente grandi, luttuose, lagrimevoli…Il suono del conte Orlando scuote le fibbra di chicchessia, lo squillo della tromba che chiama all’ultima battaglia è orribile quale non fu mai durante l’anno”[8].
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E ora veniamo ai Cunta. Il primo racconto che pongo all’interesse di chi legge è Lu cuntu di Re Befè Befè Viscotta e Minè. Il Re Befè è inizialmente descritto come rappresentante della comunità tutta. Egli è il “Re”. Ma già nel suo nome c’è la sua storia. Befè! Che nome di re è? Il suo nome è non credibile seppure declamato in maniera altisonante. Nel corso della storia capiremo quanto questo personaggio sia insulso e senza valenza a partire dalla sua partecipazione al grande dolore della figlia che è quello di aver perso un uccellino il quale per sua fortuna ha ritrovato la libertà. Il Re però non si dà per vinto e visto che nulla ha da fare emana un editto: chi trova l’uccellino della figlia avrà in premio la figlia in sposa. Tutti lo vanno a cercare. Il narratore, personaggio fondamentale nelle narrazioni popolari, cita tutti coloro che lo vanno a cercare: il conte, il duca il marchese. Perché l’umanità che conta è tutta là.
Non si prevede che altri possano trovare l’uccellino. Ma sotto un albero a trovarlo è guarda un po’ un pecoraio. L’ultimo tra gli ultimi. Nella gerarchia sociale il pecoraio è solo. Dopo di lui nessuno. Il ragazzo corre a palazzo dove non lo vogliono neanche fare entrare. Ma quando dalla tasca tira fuori il suo uccellino il Re prima lo deride, poi si rimangia la parola data e infine lo caccia via. E nessuno si stupisce. Non si stupisce il pecoraio, non si stupisce il narratore, non si stupisce il pubblico. Tutti arristaru filici e cuntenti e ammia puvirieddu nun mi resuru nenti.
Il secondo racconto proposto è Lu cuntu di San Giorgio che di certo merita uno spazio e una riflessione più accurata ma che al momento ci interessa per la figura del sovrano. Molteplici sono le versioni scritte tutte risalenti agli inizi del secolo scorso. Le versioni scritte si presentano in ottave con rime alternate e il distico in rima baciata. Molti grandi anziani invece riferiscono un racconto che si sviluppa per assonanze in ottonari. Il re in questo racconto entra in scena più volte. E anche in questo caso il narratore ce lo presenta prima come una figura autorevole infatti lo vediamo a capo di un consiglio di cavalieri. Intorno a lui si riuniscono per trovare una soluzione al problema che assilla la comunità intera: un drago va divorando chiunque incontra. In un primo momento la comunità lo inganna dandogli pecore ma poi finito di divorare il gregge del paese il drago passa alla gente. E il consesso dei cavalieri capitanato dal valoroso e coraggiosissimo re trova una soluzione: “ognuno di noi gli dia in pasto un proprio figlio, e io do l’esempio per primo dandogli mia figlia Margherita”. Che idea fantastica. Certo non gli deve essere sembrata un’ottima idea neanche a lui dal momento che quando vede la ragazza prendere la via della sicura morte non gli resta che svenire. Già, Margherita si immola anche per lui e lui valoroso, coraggioso, impavido, e persin temerario sviene.
E del suo valore dà ancora prova quando Giorgio, prima di ingaggiare la lotta contro il drago chiede se per caso c’è tra loro qualche indeciso da battezzare. Ma il re interviene per tutti senza esitazione alcuna: San Giorgio: tutti cristiani siamo! pronto alla conversione pur di salvarsi. L’ultimo atto il re lo farà da padre quando cercherà di convincere Giorgio che la figlia è un buon partito da sposare e neanche in quel caso riuscirà nel suo compito dato che il giovane senza macchia e senza peccato resterà fedele al suo compito su questa terra: battezzare.
Il terzo racconto Lonca vita o nuostru re segna la caduta di ogni esitazione rispetto alla figura di questo personaggio. Un’anziana donna va augurando al re che non conosce di persona di avere lunga vita. La notizia arriva alle orecchie del re che incuriosito si traveste da cavaliere e la interroga. Perché auguri al re lunga vita se neanche lo conosci? Che t’ha fatto di bene questo re? E la donna dall’alto dell’immunità che la sua età le dona gli risponde che il nonno di questo re era incapace e malvagio, e quando morì tutti pensarono di essersi liberati ma il figlio era peggiore del padre. E quando morì quel sovrano tutti pensarono che il nuovo re, l’attuale re, dovesse essere migliore sia del padre che del nonno perché non si poteva essere peggio.
Ma si sbagliavano perché l’attuale re era ancora più incapace e malvagio sia del padre che del nonno perciò meglio questo che altri.
L’ultimo racconto, Lu re e li carzarati, riabilita la figura del Re.
Non tanto perché gli restituisca il ruolo di sovrano ma perché nel suo gesto finale egli si impone con scaltrezza e intelligenza sui carcerati, che offendendolo, hanno creduto di poterlo ingannare facilmente. Il re infatti si reca in visita presso il carcere e interroga i prigionieri. Tutti, uno per uno, interpellati sulla ragione della loro carcerazione si discolpano cercando di far ricadere su altri il loro delitto cercando di convincere il sovrano della loro innocenza. Solo l’ultimo carcerato ammette la sua colpa ma anche il suo pentimento. Il re, con un gesto improvviso e inaspettato, decide che quello, in mezzo a tutti quei “gentiluomini, innocenti e poveretti” non può essere il suo posto e lo libera premiandolo per la sua sincerità.
I racconti che si possono ascoltare nel sito https://www.memorieoralidegliiblei.it/ nella sezione I Cunta sono tratti dalla tradizione popolare orale che ancora oggi perpetua quelli raccolti da Giuseppe Pitrè e che si possono leggere liberamente online.
[1] Pitrè Giuseppe, Pilusedda, in Fiabe novelle e racconti popolari siciliani. Volume 1, http://www.e-text.it/ pag 602
[2] Faral Edmond, Les jongleurs en France au Moyen Age, Libraire Honoré Champion Éditeur, 1910. Pg 55
[3] Ibid pag 92
[4] Battaglia Salvatore, Giullari - Enciclopedia Italiana (1933) https://www.treccani.it/enciclopedia/giullari_%28Enciclopedia-Italiana%29/
[5] Faral Edmond, Les jongleurs en France au Moyen Age, Libraire Honoré Champion Éditeur, 1910, pag 1
[6] Fo Dario, Ciarchi Paolo, Ho visto un re, 1968.
[7] Buttitta Ignazio, I pupi Siciliani memoria, tradizione e innovazione di un patrimonio artistico e culturale pag 189 nota 12 in https://www.researchgate.net/journal/Moin-Moin-Revista-de-estudos-sobre-teatro-de-formas-animadas-
[8] Pitrè Giuseppe, Le tradizioni cavalleresche popolari en Sicilia pag 329 in https://www.persee.fr/doc/roma_
Bibliografia
Buttitta Ignazio, I pupi Siciliani memoria, tradizione e innovazione di un patrimonio artistico e culturale in https://www.researchgate.net/journal/Moin-Moin-Revista-de-estudos-sobre-teatro-de-formas-animadas-
Battaglia Salvatore, Giullari - Enciclopedia Italiana (1933) https://www.treccani.it/enciclopedia/giullari_%28Enciclopedia-Italiana%29/
Bloch Marc, I re taumaturghi, trad. it. Torino, Einaudi, 2007, (Les rois thaumaturges. Étude sur le caractère surnaturel attribué à la puissance royal particulièrement en France et en Angleterre, Max Leclerc et Cie, Paris 1961).
Faral Edmond, Les jongleurs en France au Moyen Age, Libraire Honoré Champion Éditeur, 1910.Fo Dario, Ciarchi Paolo, Ho visto un re, 1968.
Pitrè Giuseppe, Le tradizioni cavalleresche popolari en Sicilia in https://www.persee.fr/doc/roma_
Pitrè Giuseppe, Pilusedda, in Fiabe novelle e racconti popolari siciliani. Volume 1, http://www.e-text.it/
i quattro racconti si trovano in www.memorieoralidegliiblei.it sezione I Cunta
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