24 aprile, 2022

Tempo di elezioni. Come sprecare una grande conquista di libertà


Immagine dal sito "La Repubblica"

 Un diritto pagato con il sacrificio o un  rito vuoto che si ripete ?

di Angelo Scuzzarella (*)


Pensavo una cosa e mi sono detto: “Parliamone”.

A Palermo fra poco ci saranno le elezioni per eleggere il nuovo sindaco e ovunque guardo mi sembra di vedere candidati. L’ultima volta hanno votato la metà delle persone rispetto a quelle che avrebbero potuto farlo.  

Perchè? 

Perché è un’innegabile opinione comune che votare non serve, che i candidati sono tutti uguali, sono scarsi e che comunque i politici non sono degni della nostra fiducia.

Ok, queste opinioni credo che siano abbastanza condivisibili e quindi ci vado al contrario, perché l’altra metà vota? Come fa, chi vince a farsi votare? Cioè, come fa chi vince a farsi attribuire competenza e fiducia?

Ricordiamo due cose.

La fiducia è quella sensazione che proviamo quando crediamo che il nostro comportamento determina nell’altro altrettanti comportamenti che soddisfano le nostre aspettative precedentemente dichiarate. Cioè,  io faccio una cosa perché così poi tu farai quello che hai promesso.

Io ti voto perché credo che poi tu farai quello che hai detto che avresti fatto.

E qui c’è la prima criticità: Che tipo di fiducia ti attribuisco? Penso che poi fai qualcosa per me o penso che puoi fare qualcosa per tutti, per la società e quindi pure per me?

Negli ultimi anni, molte persone avevano rinnovato la loro fiducia nella politica ma adesso sembra che anche gli ultimi slanci siano di nuovo compromessi. In ogni caso ci sono persone che votano perché credono nella visione e nelle prospettive organizzative proposte e ci sono persone che votano per interessi personali. 

Cioè se io ti voto poi tu farai qualcosa per me: “u puostu i travagghiu mu truovi?”

Oltre all’attribuzione di fiducia, resta comunque necessaria l’attribuzione di competenza: se ci si fida di qualcuno, contestualmente bisogna credere che quel qualcuno le cose le sappia fare e sia messo nelle condizioni di poterle fare.

Che tipo di competenza è necessario attribuire ai candidati per essere votati? Dipende. 

Se le aspettative sono semplici, gli attribuiamo competenze semplici, se le aspettative sono complesse gli attribuiamo competenze complesse. 

Se voglio un lavoro e il candidato mi dice che se vince mi fa assumere nell’azienda di suo cugino, allora la competenza attribuita non credo sia così complessa, al massimo deve essere un buon bugiardo o un buon cugino. Se penso invece che il candidato debba risolvere il cambiamento climatico globale o anni di malaffare e mala organizzazione, allora le aspettative non solo sono complesse ma anche deliranti sia da parte mia che ci credo sia da parte sua, soprattutto se è candidato al consiglio comunale dell’isola che non c’è.

Quindi, in che modo si esprime la competenza del candidato? E quando questa competenza può essere davvero utile?

Ora è necessaria un po’ di attenzione in più e forse tutto quello che ci siamo raccontati finora non serve così tanto, soprattutto in fase di selezione.

Ti sei mai candidato per un lavoro? Alla fine è quello che cerca un candidato, poter esprimere alcuni comportamenti in cambio di una retribuzione: sta cercando un lavoro.

Su quale competenza quindi fa leva un candidato politico? Per farsi scegliere dalla lista e per farsi scegliere da te?

Seguimi, è importante perché potrebbe essere il motivo per il quale votiamo male, scegliamo le persone sbagliate e soprattutto permettiamo alle persone sbagliate di poterci rappresentare, esattamente come un datore di lavoro qualsiasi in fase di selezione del personale sceglie i lavoratori sbagliati.

In psicologia del lavoro, intendiamo come competenza la capacità delle persone di ottimizzare risorse specifiche per raggiungere obiettivi specifici in contesti specifici.

Ripeto: ottimizzare risorse specifiche per raggiungere obiettivi specifici in contesti specifici.

La competenza quindi non è saper fare cose, quella è l’abilità, altrimenti magari non avremmo due parole. La competenza non è saper fare cose, ma saper mettere insieme cose per fare cose e queste cose che si mettono insieme sono le risorse.

Più la competenza da esprimere è complessa,  più le risorse devono essere diversificate e complete.

Per semplificare, se volessi  fare il fotomodello, la risorsa più importante sulla quale dovrei puntare, qual è? Il mio corpo. Un corpo dall’aspetto gradevole e in forma non basterebbe ma sicuramente rappresenterebbe la risorsa principale.

Se volessi fare il professore, su cosa dovrei puntare? Sulla mia mente, sulla mie conoscenze  dentro la mia testa. Stai cominciando a capire? Le risorse possono essere di un sacco di tipi.

Ci sono le risorse strumentali, perché per fare il falegname servono sicuramente gli attrezzi e le risorse economiche, i risparmi che servono all’imprenditore per cominciare la propria attività imprenditoriale.

Le risorse strutturali ad esempio non sono trascurabili per tutte quelle competenze che si esprimono attraverso la gestione di spazi destinati al servizio, primi fra tutti albergatori e ristoratori.

E quindi? Secondo te, quale risorsa preliminare deve possedere uno che vuole fare il politico? Una bella presenza? Aiuta. Un buon titolo di studio? Magari ma spesso i titoli di studio non sono pervenuti. 

Deve conoscere le leggi? Nemmeno. Sarebbe auspicabile che il candidato padroneggi le risorse normative perché con quelle si confronterà durante il suo mandato ma spesso non saranno il suo forte.

Sicuramente deve avere un po’ di soldi da investire per la campagna elettorale ma non è ancora questo.

Ognuno di noi per fare bene quello che deve fare, deve avere almeno un po’ di tutte le risorse.

Se volessi fare il cameriere, il ristorante lo mette il proprietario e i piatti pure, ma una camicia molto probabilmente sarò costretto a comprarla.

Te lo dico. Le risorse che in fase di selezione ottimizza il candidato sono le risorse sociali, le persone, il candidato perfetto deve conoscere persone e da queste essere creduto e considerato degno di fiducia. Per questo quando ti candidi ti dicono:“ma tu quanti voti porti”?

Perché alla fine,  le liste scelgono così. Cercano di far candidare con loro i candidati facilmente eleggibili grazie alla loro popolarità e alle loro relazioni pregresse.

La competenza tecnica o professionale in fase di selezione non è importante.

Conosci altri lavori che prendono in considerazione competenze diverse in fase di selezione ed in fase esecutiva? Cioè quello che mi serve quando devo essere scelto e quello che mi serve quando devo lavorare?

Mi piacerebbe credere che queste considerazioni possano essere utili nel processo decisionale che in ognuno di noi determina la scelta di voto, ma così non è e non sarà, nemmeno se questo contributo dovesse avere la massima diffusione.

Non è difficile avere questo tipo di consapevolezza ma raramente i comportamenti cambiano quando sappiamo come dovremmo comportarci. Un esempio su tutti è il comportamento alimentare.

Cambiare il comportamento di voto e di conseguenza la selezione della popolazione candidata è un atto complesso che dovrebbe far convergere cambiamenti multilivello e multisettoriali che richiederebbero approfondimenti considerevoli.

Ad esempio?

Ad esempio:

-          requisiti preliminari per la propria candidatura ad esempio introducendo parametri relativi alla propria formazione;

-          modifica dei regolamenti sulle liste ed i relativi premi di maggioranza con passaggi post elezioni da un orientamento all’altro;

-          ancoraggio dell’elezione a obiettivi di prestazione e risultato;

-          ridefinizione delle responsabilità;

-         

E altri mille. Per proporre questi cambiamenti cosa occorre? Essere eletti ai piani alti. Ma chi vince con le regole sbagliate, perché dovrebbe proporre regole nuove?

 

 
Dal canale YouTube: "Psicologia senza poesia"



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(*) Psicologo, psicoterapeuta. Progettista sociale.Socio PRUA.

https://www.associazioneprua.it/socio-angelo-scuzzarella/

 

 

 

16 aprile, 2022

Pasqua: un trauma che ci interroga e rinnova

 


Perché abbiamo bisogno di risorgere

di Luigi Sanlorenzo (*)

 “Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinchè nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli; pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città. Il sole riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini – gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutti gli esseri, quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo, all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano inventato per dominare gli uni sugli altri.”

Così Lev Nikolàevič Tolstoj nel celebre incipit di "Resurrezione" l’ultimo grande romanzo, scritto a Jasnaja Poljana tra il 1889 e il 1899. Ne riporto la trama, come mi sono impegnato a fare con i miei lettori, quale ultimo degli articoli sulla grande letteratura in lingua russa pubblicati a mia firma nei mesi scorsi ed elencati nelle note a piè di pagina.



Un giovane ufficiale rispettato, il principe Nechljudov, ritorna per un po' di tempo alla vita civile nella ricca provincia natale, nei pressi di Niznij Novgorod. Egli conduce una vita piacevole tutta dedita alle riunioni sociali con le sue variegate conoscenze; è imminente d'altronde il suo matrimonio, organizzato con una giovane di nobili natali, e con serenità pensa al brillante futuro che gli spetta facendo la carriera militare.

Proprio durante il suo soggiorno cittadino viene chiamato dal tribunale ad esercitare il proprio dovere facendo parte di una giuria popolare; ma quello che doveva passare come un semplice impegno civico, prende improvvisamente per il principe una piega del tutto inaspettata. Chiamato a decidere come membro della giuria della condanna di una prostituta, riconosce in lei la ragazza che aveva sedotto molti anni prima e poi abbandonata; dovette difatti andarsene dalla casa di Nechljudov dove lavorava come cameriera al fine di soddisfare le esigenze del loro bambino. Per poter sopravvivere diventa prostituta.

Dopo aver assistito alla sua ingiusta condanna, è stata difatti accusata di omicidio premeditato, tra magistrati ridicoli e avvocati giovani ed inesperti matura in lui  la volontà di salvarla e di sposarla.

Katjuša pare però rifiutare la proposta e le attenzioni del principe, il quale, divorato dal rimorso, decide di seguirla comunque ai lavori forzati in Siberia dove è stata deportata con l'immutato proposito di redimerla; compirà ogni sforzo per riscattare la propria colpa e riunirsi a lei. Egli assisterà infine alla "resurrezione" della ragazza, ma in maniera alquanto differente da come si proponeva; ella infatti rifiuterà di sposarlo, forse per l'amore d'un compagno di prigionia, forse perché non vuole che lui si rovini, e quindi per amor suo; comunque, come scelta di persona libera.

Il giovane uomo dovrà infine aprire gli occhi alla miseria spirituale del mondo e superare l'atroce delusione nei confronti della giustizia umana; ciò si risolverà non nella società del mondo, ma nella fede. La "resurrezione" di Nechljudov passa attraverso la riunione con Cristo: leggendo, una notte, il brano del Discorso della montagna trova egli stesso, attraverso il Vangelo, la via della redenzione e un nuovo indirizzo da dare alla propria vita.

Nel 1965 dal romanzo fu tratto un indimenticabile sceneggiato televisivo della RAI in sei puntate con Alberto Lupo, Valeria Moriconi, Sergio Tofano, Andrea Checchi e la regia di Franco Enriquez. 



Fu un grande successo e, grazie alla televisione in bianco e nero di allora, la maggior parte degli italiani, ancora afflitta da un consistente tasso di analfabetismo,  scoprì un mondo, fino ad allora sconosciuto o distorto dalla propaganda della Guerra Fredda e dalle sue propaggini nel nostro Paese. Altri tempi, altra RAI, altra responsabilità pedagogica del Servizio Pubblico !

Ricordo ancora il momento in cui lessi per la prima volta quelle pagine il cui odore è rimasto impresso nella parte più profonda di me stesso. Avevo 12 anni, forse non era la lettura più adatta per quell’età, ma fu il primo incontro con i temi della necessità interiore del riscatto morale e dell’ imperativo etico della giustizia sociale. Fu il primo passo di un’educazione sentimentale che si sarebbe sviluppata lungo l’intero corso della mia vitaNon vi è stata Pasqua, da allora, in cui al termine “resurrezione” io non abbia associato quell’antica esperienza sensoriale ed intellettuale.

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Perché avvertiamo periodicamente il bisogno di risorgere ? Probabilmente tale necessità è legata alla natura stessa degli esseri viventi che, in realtà, muoiono e rinascono costantemente attraverso il quotidiano ricambio cellulare che connota l’esistenza fisica per l’intera durata della vita codificata nel  DNA. Tuttavia,  mentre di questa dinamica cellulare non ci rendiamo pienamente conto, è sul piano culturale che il bisogno di rinascere esprime il massimo effetto.

Gli individui cambiano, a volte repentinamente, compiendo scelte inaspettate che sovente destano lo stupore di quanti li circondano; le società si trasformano e, seppur più lentamente, archiviano paradigmi e sistemi valoriali, sino a rendersi irriconoscibili nel volgere di pochi decenni; i popoli avvertono pulsioni inarrestabili di nuovi destini e si mettono in cammino verso terre promesse che variano secondo le epoche, fondando nuovi mondi o rigenerando quelli esistenti.

Ciascuna di queste azioni singole o collettive coincide con il grande rito del Passaggio, presente in tutte le religioni e nelle principali filosofie elaborate nei secoli; un “dies a quo” dopo il quale nulla è più come prima,  anche se il cammino è appena iniziato e la meta non è  certa né chiara. Ed è forse questo che conferisce ad ogni passaggio, il fascino dell’ignoto che prevale sulle certezze che si vogliono mettere in discussione, prima che ci soffochino ma al tempo stesso ci trova, come ogni trauma individuale e collettivo,  impreparati nel corpo o nello spirito.

E’ passaggio quello di Enea che si lascia alle spalle la patria ormai in fiamme e si incammina sulla strada dell’incertezza, portando nei lombi il seme di un impero, ma lo è anche quello di Ulisse che, tornato all’amata Itaca dopo vent’anni, avverte l’insopprimibile bisogno di varcare le colonne d’Ercole e di realizzare il sogno che ogni uomo ha di cercare incessantemente la radice di se stesso, superandosi. Sono passaggi il gesto di Martin Lutero che sfida la corruzione di una  Chiesa ostinata in un medio evo già finito, quello di Giordano Bruno che annuncia l’Universo fisico di cui siamo solo una parte infinitesima e quello di Francesco che si spoglia di ogni bene ed abbraccia il lebbroso. In ciascuno di questi passaggi c’è il conflitto con ciò che non si può più accettare e con l’ipocrisia di chi teme di lasciare “la comoda schiavitù d’Egitto”.

Sono "passaggi" l’Esodo biblico, l’Anabasi narrata da Senofonte che riscatta i Greci dall’esperienza mercenaria al soldo dei persiani, la durissima traversata atlantica dei Padri Pellegrini a bordo del Mayflower verso la libertà dall’intolleranza, la lunga marcia di Mao, l’esperienza tragica della Resistenza al nazifascismo, le grandi migrazioni di ieri e di oggi, la pandemia che ha sconvolto le esistenze individuali  e l'equilibrio, pur precario, del mondo intero.

E' passaggio il tempo di guerra che stiamo vivendo e che ci costringe a confrontarci con temi, fatti e sentimenti che pensavano confinati nel passato della Storia; stiamo assistendo ad eventi che riguardano singoli individui o interi popoli che si trovano nella necessità di rinascere ad una nuova origine, nell’aspirazione a dare un corso inedito al proprio destino che, comunque,  riguarderà, i vinti, i vincitori e quanti si illudono di essere solo spettatori.

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Durante il passaggio muore, come ci ricorda Paolo di Tarso, l’ uomo vecchio che è in noi e prende forma l’uomo nuovo che elaborerà se stesso proprio nel travaglio della trasformazione, vera e propria nuova nascita. Come quella fisica, anch’essa è originata e connessa al dolore e alla fatica immane di scrollarsi di dosso il passato superfluo, senza rinunciare alla propria identità, unica guida che consente di non smarrire se stessi tra i mille sentieri, spesso divergenti,  col cui volto il cambiamento si presenta.

Il passaggio non è immune da insidie. Lo sanno bene gli adolescenti che durante i riti tribali di iniziazione sono volutamente esposti ad ogni genere di rischio presente nella boscaglia esattamente come quelli che, con minore consapevolezza, devono affrontare i giovani delle società cosiddette  “evolute”. La principale insidia è sempre la tentazione di tornare indietro nella rassicurante condizione di un’impossibile replica dell’infanzia fisica o sociale. Persino il Cristo nell’Orto degli Ulivi implora il Padre di “allontanare il calice amaro” pur sapendo che, oltre l’umana – fin troppo umana – paura del dolore,  solo in quel calice c’è la Resurrezione.

Né minore è l’insidia di lasciare che altri guidino il passaggio, trasformando un individuo in un gregario impaurito dalla responsabilità e un popolo in un gregge terrorizzato dal mondo che cambia. L’unica possibile resurrezione è dentro noi stessi in quella solitudine amara che è la sola garanzia di libertà delle scelte che sappiamo essere necessarie per riscattare noi stessi. 

E’ solo conquistando in solitudine tale libertà che possiamo condividere il cammino con individui altrettanto liberi e con essi fondare Nuove Città, senza la presunzione di renderle ideali ed eterne, cioè, ancora una volta, di frenarne ulteriori e necessarie successive resurrezioni.

Carl Gustav Jung, padre della psicologia analitica che per la prima volta definì i concetti di inconscio collettivo e di inconscio individuale,  così scriveva nel 1911:

 "La rinascita, nelle sue varie forme di reincarnazione, resurrezione e trasformazione è una necessità che deve essere contata tra le prime affermazioni dell'uomo.”

Abbiamo bisogno di risorgere per non sopprimere il futuro, abbiamo bisogno di “passare” per non restare intrappolati in noi stessi, abbiamo bisogno di morire a qualcosa o a qualcuno per continuare a vivere in attesa del passaggio definitivo che ci restituirà al quel Tutto da cui proveniamo e di cui nutriamo una dolce e profonda nostalgia.

Buona Pasqua di Resurrezione !



Massimo Recalcati,  Il trauma, Connessioni, 2020


Note:

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/03/conoscere-lanima-russa-il-maestro-e.html

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/03/dialoghi-infernali-di-ieri-e-di-oggi.html

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/03/vera-e-falsa-liberta-il-potente.html

https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/02/ucraina-altre-narrazioni.html


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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA.

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/

 

 

 

 

 

 

10 aprile, 2022

Eleggere un sindaco. Scegliere un destino.


Immagine dal sito del periodico La vita del popolo

Elezione diretta: una magnifica occasione da non sprecare

di Luigi Sanlorenzo (*)


Si resta molto perplessi in questi giorni nel constatare che dopo ormai anni di insoddisfazione dei cittadini palermitani in merito alla condizione generale della Città su molteplici versanti e nella fase in cui ci si dovrebbe preparare a costruire le basi del prossimo decennio, il dibattito si accenda più sugli schieramenti politici, tutt'altro che compatti, che sulla figura e sulle competenze del candidato sindaco, fino a prova contraria oggetto di elezione diretta quale persona fisica che propone un proprio programma dettagliato su cui convergono successivamente liste civiche o di partito che lo supporteranno nel quinquennio.

Tralasciando la sovrapposizione con le elezioni regionali del prossimo autunno che sta viziando ulteriormente il dibattito, ci sarebbe da aspettarsi che il confronto avvenisse tra profili di competenza/esperienze amministrative e di capacità gestionali delle (poche) risorse, almeno paragonabili.

Chi scrive ha verificato il CV pubblico di alcuni candidati e candidate finora aspiranti a tale carica. In alcuni casi ha trovato "carriere" nei partiti o nelle assemblee legislative, in altri, pur benemerite posizioni apicali all'interno di "piccole " e specifiche istituzioni pubbliche, in altri ancora, infine, libere professioni di settore, elementi questi ultimi degni di riconoscimenti ed onorificenze della Repubblica ma, sia detto sommessamente, non abbastanza adeguati a governare una metropoli del terzo millennio poichè tale è la Città Metropolitana di Palermo.

Ora, per quanto un sindaco sia certamente anche una figura politica, egli è anche capo dell'amministrazione, sceglie i dirigenti degli Uffici e i presidenti delle Aziende partecipate, rappresenta la città in Italia e all'estero, è titolare di significative relazioni personali che spende a favore dell' Ente che amministra.

Dunque, nella stessa persona convivono il leader e il manager, si ha la sintesi tra visione e missione, si realizza la coerenza tra obiettivi strategici e strumenti normativi da porre in essere. Una visione "pedagogica" a 360 gradi di cui ho scritto pochi giorni fa https://nuoviapprodipress.blogspot.com/2022/04/palermo-verso-le-elezioni-amministrative.html

Per tale ragione, la legge assicura un "premio di maggioranza" - in caso di risultato vincente- alle liste che lo appoggiano e che abbiano superato la soglia del 5% , al fine di non rendere il sindaco "un'anatra zoppa" condizionato cioè da un Consiglio Comunale che, travalicando la legittima funzione di pianificazione e controllo, ne paralizzi o stravolga il programma, vanificando così il suffragio della maggioranza degli elettori.

Se nei piccoli centri, pertanto, è sufficiente la fiducia nel farmacista, nel postino o nella brava persona nota per essersi spesa nell'ambito sociale, nelle città complesse affidarsi ad esperti "solo" di politica è una scommessa molto pericolosa e alla fine dà ai partiti e non al sindaco la guida della Comunità, con i risultati che conosciamo. E' ciò è tanto più importante oggi quando le ideologie, come elementi che ispirano un programma, si sono di fatto assottigliate e trovano un valore residuale solo nelle elezioni politiche.

Quando si sente evocare per Palermo il "modello Draghi" per il quale chi scrive rivendica di essersi adoperato quasi quotidianamente nel corso di due lunghi anni sulla pagine de Linkiesta https://www.linkiesta.it/author/luigi-sanlorenzo/di fronte allo sfacelo dei primi due governi della XVIII Legislatura, si resta veramente disorientati poichè è invece l'indicatore più evidente dell'incapacità della politica di generare un governo e perfino di eleggere un Presidente della Repubblica.

Quindi esso non è un "modello" ma una scialuppa di salvataggio in precario galleggiamento per assicurare un minimo di stabilità al Paese in crisi economica, sociale e sanitaria, garantire le riforme a cui sono condizionati gli aiuti europei e portarlo infine alle prossime elezioni. Indicarlo come soluzione per Palermo è non solo di malaugurio ma anche un insulto ai tanti bisogni dei cittadini in cerca di soluzioni strutturali e durature.

Ai problemi delle città le risposte sono generalmente sempre le medesime: funzionamento della macchina amministrativa, decentramento, mobilità, servizi pubblici, sicurezza/legalità, promozione del territorio a fini economici e turistici e, ormai da alcuni anni, le politiche di accoglienza, di mediazione culturale e di integrazione.

Domande a cui in Europa le risposte sono date sul piano gestionale prima che politico "strictu sensu " affidando le grandi città anche a sindaci molto giovani ma provenienti dall' ENA, dall'INSEAD, dalla London School of Economics, dallo IESE di Barcellona o - in Italia - dalla Bocconi come nel caso del sindaco di Milano o docenti della Sapienza come per il sindaco di Roma o ex rettori e ministri come nel caso di Napoli, o accademici come Stefano Lo Russo a Torino, per la cui esperienza il settore privato pagherebbe qualsiasi stipendio.

Palermo è la quinta città: cosa l' aspetta ? Se poi la situazione finanziaria è drammatica per ragioni antiche e recenti, la soluzione non può essere sempre quella del "cappello in mano" o dei viaggi della speranza del sindaco a Roma magari confidando, non sempre con successo, in un "governo amico".

Il "patto" dunque , quello vero, consiste allora nella trasparenza dell'analisi offerta ai cittadini e e delle scelte conseguenti, nella consapevolezza dei sacrifici necessari ad arginare il disastro ed a voltare pagina "whatever it takes" .

Palermo non sarà mai Milano o Verona, nè Napoli o Bari e non potrà mai saturare la domanda di lavoro qualificato portata dalla maggior parte dei nostri giovani altamente scolarizzati, nonostante l'Università si affanni ad assicurare inediti collegamenti con il mondo del lavoro che, peraltro, in facoltà quali Ingegneria o Fisica ci sono sempre stati in Italia, in Europa e oltre. Nè trovano consistenti prospettive soluzioni più o meno durature di south working che consentirebbero un cospicuo rientro di lavoratori fuori sede, ma non certo l'attivazione di nuova occupazione.

Palermo dovrà piuttosto guardare al Mediterraneo per ri-trovare il suo ruolo di guida, di formazione, di porta dell'Europa dei diritti, viceversa resterà una città turistica come Il Cairo o l'antica Baghdad, piene di fascino ma del tutto marginali e tenute in nessuna considerazione da parte degli investitori privati, gli unici che, non se ne dispiacciano gli ultimi keynesiani, sono in grado di cambiare il volto e il destino di un territorio a patto che il medesimo sia ben governato in nome di valori non negoziabili quali, tra gli altri, la trasparenza e la tutela dell'ambiente.

In conclusione, una città ben gestita secondo il paradigma delle competenze è in grado di ottimizzare le risorse interne e quelle provenienti dal PNRR in modo tale da metterle a fattor comune, di scoprire giacimenti insospettabili di opportunità lavorative e di trarre vantaggio persino dai rifiuti.

Elementi questi che richiedono figure apicali all'altezza del compito e il cui vero risultato misureremo dallo scarto tra i voti al primo cittadino e quello delle liste, un indicatore che, ove ce fosse bisogno, è la conferma della validità dell'elezione diretta del Sindaco che, comunque la si pensi, va sempre considerata in ogni caso eminentemente civica, prima, durante e dopo l'ora di chiusura delle urne.


Greta Nasi, SDA Bocconi Il futuro è una metropoli da governare



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Giornalista e Saggista. Presidente PRUA

06 aprile, 2022

Ucraina 2022. Le Termopili del terzo millennio.

Immagine dal film 300, regia di Zack Snyder, USA, 2007


Leonida di Sparta e Serse I: l'alba dello scontro di civiltà

di Luigi Sanlorenzo (*)


Inquietanti analogie avvicinano il conflitto in corso in Ucraina con la Seconda guerra persiana e in particolare con l'episodio più famoso che vi ebbe luogo e fu tramandato ai posteri come Battaglia delle Termopili,  nel 480 a. C.  Le dinamiche tattiche e strategiche  dell'evento sono oggi tra i primi insegnamenti nelle accademie militari di tutto il mondo.

Non intendo annoiare il lettore con la genesi e le  caratteristiche di quel conflitto che potranno essere approfondite attraverso una quantità di fonti antiche ( Erodoto, Diodoro Siculo, Plutarco ed Eschilo)  per arrivare ai contemporanei Ernle Bradford, Thermopylae: The Battle for the West, Da Capo Press, 2004 e George Cawkwell, The Greco- Persian Wars, Oxford University Press, 2006, passando per la versione cinematografica offerta dal film "300" del 2007 con la regia di Zack Snyder,  tratto dalla graphic novel di Frank Miller e Lynn Varley.

Confiderò, pertanto, in antichi ricordi liceali - miei e dei lettori - per identificare alcune delle suddette analogie.

Personaggi e interpreti:

Serse I, re dei re, padrone del  più grande impero persiano, già umiliato dalla sconfitta inflitta al padre Dario a Maratona ad opera delle poleis greche dieci anni prima nel 490 a.C.e animato da viscerali sentimenti di rivalsa e di spietata vendetta.

Leonida I, il più noto dei due re di Sparta, protagonista della battaglia delle Termopili alla testa di trecento guerrieri, nonostante il divieto degli Efori di affrontare l'esercito persiano, non ritenendo il proprio e quello delle altre poleis ancora pronti allo scontro.

Gli Efori, la magistratura voluta da Licurgo per dirimere eventuali contrasti tra i due sovrani svolgendo un'eminente funzione politica e spesso luogo di intrighi e connivenze di ogni genere, anche con i nemici della città.

L'Oracolo di Delphi,  autore della celebre quanto ambigua  profezia che avrebbe convinto Leonida ad immolare se stesso e trecento spartani  per ritardare l'invasione persiana, dando tempo alle città greche di organizzare la difesa : "O voi, o abitatori di Sparta dalle larghe piazze: o la vostra grande gloriosissima città viene distrutta sotto i colpi dei discendenti di Perseo, oppure questo non avverrà; ma il paese di Sparta piangerà la morte d'un re della stirpe di Eracle."

Efialte, il traditore che rivelando ai persiani un sentiero noto a lui solo, consentì l'accerchiamento degli spartani e il loro annientamento.

I luoghi


Come mostra la mappa,  il passo delle Termopili rappresentava il luogo strategico dove costringere i persiani che giungevano dal mare a incanalarsi, riducendo così il vantaggio numerico delle truppe d'invasione stimante in oltre centomila guerrieri provenienti dai diversi regni orientali assoggettati nei secoli dalla dinastia Achemenide (Ciro il Grande, Dario I, Serse I, fino a Dario III)  che sarebbe stata poi definitivamente estinta da Alessandro Magno nel 330 a. C. ponendo fine alla minaccia che il grande impero orientale aveva costituito per l' Occidente di allora. 

Fu il primo grande scontro tra civiltà della Storia: da un lato, il dispotismo orientale e, dall'altro, il lento cammino verso la limitazione del potere attraverso le prime, arcaiche, istituzioni di partecipazione democratica. 
Sul piano culturale, maghi, sciamani e mistici da una parte, filosofi e legislatori dall'altra: le nostre radici europee.

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Senza avventurarsi in arditi confronti, oltre duemilacinquecento anni dopo la situazione si presenta abbastanza simile. Attraverso la mediazione delle rivoluzioni russe e cinesi del '900 presto trasformatesi in nuove forme di totalitarismo, l'Oriente del mondo è in eterna competizione con l'Occidente liberale e atlantico. 

Dove l'Illuminismo e la Ragione si sono affermati, contrastando attraverso la Riforma protestante anche il potere temporale della Chiesa Cattolica, l'evoluzione sociale, pur tra mille intoppi e contraddizioni, ha percorso la propria strada pervenendo a risultati di grande rilievo anche in tema di rispetto dei diritti umani e civili, di ripudio della guerra cui contrapporre la diplomazia e l'arte della mediazione, di cooperazione economica e sociale che in più di un'occasione hanno fatto barriera di contenimento a crisi economiche, sociali e sanitarie.

Gli accordi europei inizialmente solo economici e il Next Generation EU ne fanno oggi l'esempio di civiltà più avanzato ed alto sul Pianeta.

Dove, invece, hanno prevalso le logiche autoritarie ed imperialistiche in senso stretto, non è mai sorta una borghesia operosa, nessuno spazio è stato concesso al dissenso, la stessa dimensione spirituale è stata funzionale al Potere. Le società sono state prevalentemente dominate da Boiardi zaristi  o dai Mandarini prima, dai dirigenti di partito dopo, dagli oligarchi economici oggi. Vale per la Russia, vale per la Cina, non a caso oggi impegnate, con ruoli e toni diversi a proteggersi reciprocamene le spalle.

Tutto ciò che si interpone tra Oriente ed Occidente è oggi a rischio continuo di far la fine di una noce tra due ganasce. E' il caso di tante realtà ad est, come nel caso di Taiwan e di altre realtà territoriali meno note, e ad ovest nei territori un tempo tenuti insieme dall'Unione Sovietica ed oggi divisi al proprio interno tra il fiero orgogli di essere stati parte di una potenza nucleare e quello di compiere il salto definitivo verso la democrazia liberale.

Da ciò, il fenomeno delle democrazie "illiberali" quali Polonia e Ungheria nell' Unione  Europa, Federazione Russa,  Bielorussia e Ucraina fuori da essa e la Cina o l'Iran  in medio ed estremo oriente. 

Il termine di "democrazia illiberale" venne usato da Fareed Zakaria nel 1997 su Foreign Affairs; alcune sue caratteristiche erano già state individuate, nell'ambito della critica alla definizione meramente formale della democrazia

Il governo democratico illiberale ritiene di avere un mandato superiore per agire in qualunque linea e oltre le stesse elezioni popolari. L'assenza di alcune libertà come quella di parola o di assemblea rendono difficile qualsiasi tipo di opposizione. I governanti solitamente accentrano il loro potere sul governo centrale e il governo locale (non godendo della separazione dei poteri) si trova quasi escluso dal regime. I media  sono controllati dallo Stato e supportano per lo più l'informazione data,  la magistratura risponde al potere politico. Sono proibite le organizzazioni non di governo. Il regime può applicare anche pressione e violenza contro i critici.

Qualcosa di simile a certe affermazioni di esponenti politici italiani che hanno preteso di essere immuni da altre azioni, soprattutto giudiziarie, in quanto "eletti dal popolo" e ad esso solo chiamati a rispondere. Fortunatamente hanno sbattuto in malo modo contro l'argine della nostra Costituzione, che tuttavia essi hanno in animo di modificare se dovessero conseguire ulteriore consenso presso i cittadini. 

E' uno degli aspetti più rischiosi della cosiddetta democrazia diretta, il peggiore dei mondi possibile perchè aperto alla demagogia e al populismo che, come la Storia dovrebbe insegnarci,  sono l'anticamera della dittatura "in nome del popolo". Ma tale tema richiederà una trattazione a parte.

Torniamo, allora, alle possibili analogie con le Battaglia delle Termopili. Sostituendo ai protagonisti classici più sopra identificati, è facile rintracciare in Vladimir Putin il portabandiera in Europa della democrazia illiberale. La recente rielezione - contro ogni aspettativa europea -  di Victor Orban in Ungheria paese membro dell'Unione, il consolidamento del potere di Recep Tayyp Erdogan in una Turchia componente della NATO sono altrettanti esempi di quanto sia progressivo l'assedio alla "società aperta."

In tale scenario,  il presidente ucraino Volodymyr Zelens'kyj sembra interpretare il ruolo di Leonida alle Termopili, ponendosi come l'eroe che con il sacrificio proprio e del suo popolo rimprovera ai Paesi NATO l'eccesso di prudenza ed oppone il proprio petto all'invasione russa, con alcuni atteggiamenti che mentre ne fanno il campione della libertà, anche tra i concittadini presenti ormai da anni  in molti paesi occidentali, destano preoccupazioni in quanti giustamente non possono permettere l'estensione inevitabile del conflitto che seguirebbe alle sue richieste, con esiti globali e forse nucleari. 

Da "bravi" Efori, i politici europei cercano di giocare su due tavoli,  nell'intento di preservare, da un lato,  le proprie economie energivore dipendenti dal gas russo che, venendo meno e non ancora sostituibile da fonti alternative,  scatenerebbe enormi conflitti sociali interni e, dall'altro,  di assumere posizioni di crescente condanna della Russia, sperando in un tracollo del punitismo per il quale, anche se  non viene certo rivelato, sono all'opera forze più o meno ufficiali. Il quadro che ne viene fuori non è meno ambiguo della profezia dell'Oracolo di Delphi.

Un risultato ancora lontano vista la crescente popolarità dell'autocrate russo che ha saputo risvegliare l'orgoglio dei propri cittadini, frustrati da troppe e recenti sconfitte militari ed economiche e la cui età media molto elevata consente loro di ricordare ancora i fasti dell' URSS e le umiliazioni successive.

Tutte le parti in conflitto sembrano ora confidare in un Efialte, disposto a tradire una delle due per assicurarne il prevalere dell'altra. Sarà un sicario pronto a uccidere Putin, sperando di tagliare la testa al serpente , dimenticando che il sistema russo è pronto a sostituirlo con qualcuno della medesima "scuola" ? Sarà un battitore libero dell'Occidente, come potrebbe essere Boris Johnson su input di Joe Biden, pronto ad offrire a Putin la testa del presidente ucraino, pur di chiudere la partita rapidamente, lasciando un paese diviso a metà come il Vietnam di un tempo o la Corea di oggi ? E se ancora - ed è inquietante il solo pensiero - il presidente ucraino giocasse due parti in tragedia, per spingere l'Occidente ad intervenire sull'onda di intollerabili massacri,  giustificando così l'immediata  reazione della Russia in tutti i Balcani? La storia esonda di casus belli molto meno complicati da concepire !

Non possiamo saperlo, resta tuttavia il fatto che, mantenendo il proprio atteggiamento intransigente e non incline ad alcuna mediazione,  il destino dell'Ucraina - che non entrerà ancora per molti anni nell'Unione Europea essendo molto distante dall'Accordo Comunitario che  fissa i paletti di tale ingresso - sembra ormai segnato.

Alla fine, l'Occidente comunque prevarrà come accadde alle poleis greche che sconfissero i persiani prima a Platea nel 480 a.C ed a Salamina  l'anno successivo,  nonostante in entrambi i casi le forze di Serse per terra e per mare fossero infinitamente maggiori.

La Storia dimostra che, nonostante le fasi alterne dei singoli conflitti, la battaglia della tirannide contro la libertà è sempre stata vinta da quest'ultima perchè condotta da uomini liberi contro mercenari o soldati costretti a combattere da poteri che non amano.

Con un costo altissimo in termini di vite umane,  Serse prevalse sui Trecento alle Termopili e dilaniò il corpo di Leonida ma fu solo ciò che due secoli dopo sarebbe stata chiamata una "vittoria di Pirro". Fu l'inizio della parabola discendente della potenza persiana che sarebbe culminata a Gaugamela nel 331 a. C. con la fuga ignominiosa di Dario III, poi ucciso dalla sua stessa guardia imperiale.

Ci piace pensare che davanti al cadavere del più potente autocrate della Terra umiliato nella polvere e dal tradimento,   Alessandro Magno  abbia voluto ricordare le ultime parole rivolte da Leonida a Serse che gli chiedeva di inginocchiarsi davanti al suo potere: "Il mondo saprà che degli uomini liberi si sono opposti a un tiranno, che pochi si sono opposti a molti, e prima che questa battaglia sia finita, che persino un dio-re può sanguinare."





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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA.

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/


  

03 aprile, 2022

Palermo verso le elezioni amministrative

 

Andrea Palladio, Teatro Olimpico, 1580, Vicenza

Epifania della città pedagogica

di Luigi Sanlorenzo (*)


Le drammatiche emergenze di Palermo sollecitano alcune riflessioni in ordine al tema della “città pedagogica” quale luogo di apprendimento individuale e collettivo di contenuti, valori e stili di vita.

Le città comunicano con  chi le abita non solo con la trasmissione della memoria affidata ai monumenti, alla toponomastica, all’iconografia, alle tradizioni. Esse sono a tutti gli effetti un grande teatro in cui si rappresentano desideri, aspirazioni, emozioni e frustrazioni.

Le città parlano nel quotidiano attraverso le scelte che compiono, ai valori che privilegiano, alle priorità che si danno. Ogni città ha un proprio genius loci sul piano simbolico e un proprio Statuto sul piano amministrativo e la combinazione virtuosa tra questi due potenti strumenti di comunicazione è funzione della coerenza che li pone in relazione.

Gli atti amministrativi, le scelte gestionali, le deliberazioni assunte in ogni settore della vita pubblica non nascono dall’arbitrio di questo o di quell’organo di governo ma rappresentano modi, percorsi, strumenti per realizzare i fini statutari il richiamo ai quali è, non a caso,  posto in epigrafe a ciascuna determinazione.

Non può dunque darsi la possibilità che gli atti di governo di una città si allontanino o addirittura contraddicano i principi dello Statuto e dove ciò accade,  è legittima non solo la protesta dei cittadini ma la rivendicazione degli stessi circa la revoca delle determinazioni assunte in difformità. 

Ovviamente ciò ha valore per l’Ente Comunale e per tutte le realtà operative che pur con Statuti specifici svolgono per conto dello stesso i servizi legati ai bisogni essenziali della cittadinanza che, peraltro, ne sostiene il costo attraverso il pagamento di specifici tributi.

Mentre il diritto amministrativo degli Enti Locali norma la quasi totalità degli atti posti in essere dal Governo cittadino, nessun ordinamento tiene in considerazione che la Città è anche uno spazio etico, politico  e pedagogico. La dimensione etica, prevalentemente presa in esame allorquando riguarda gli atti degli amministratori, consiste nell’adozione di comportamenti che abbiano come riferimento il Bene Comune, le risorse collettive, il patrimonio dell’Ente e la messa a frutto di tutto ciò secondo il principio antico del “buon padre di famiglia”. 

Si tratta allora di preservare, mantenere, valorizzare e rendere agibile alla fruizione collettiva tutto quello che ricade nella sfera pubblica, intesa come proprietà di tutti e che come tale ha la precedenza sul pur legittimo interesse privato.

Se tale concetto è pacificamente accettato come l’origine di ogni giudizio nei confronti degli Amministratori, sembra del tutto trascurato il fatto che analoga responsabilità è, seppur con modalità di esercizio diverse, in capo ad ogni singolo cittadino che non a caso è soggetto a sanzione laddove ponga in essere comportamenti che danneggino, sviliscano o pregiudichino il patrimonio comune.

Per tale ragione viene sanzionato chi sporca, chi occupa senza titolo uno spazio che è pubblico, chi si appropria di porzioni di Beni Comuni, sottraendole alla pubblica fruizione, chi evade le tasse o non paga i tributi. Eppure, per ragioni che provengono da lontano, sovente nelle medie e grandi città del Meridione tale responsabilità del singolo cittadino è considerata minore, se non addirittura tollerata e, in alcuni casi, diventa motivo di una sorta di ammirazione da parte di chi si rapporta all’ Ente Comune - da intendersi stavolta non solo come  soggetto amministrativo ma come   soggettualità collettiva - con un atteggiamento pregiudiziale di negazione, se non di conflitto.

Quando ciò si verifica attraverso fenomeni gravi e di vasta portata, la Città deve prendere atto che ha fallito i propri obiettivi etici perché poco, o affatto,  ha curato la propria funzione pedagogica. 

Essa cioè non si è posta rispetto ai singoli come un esempio da seguire, come una visione della vita e del mondo cui orientare le proprie azioni pubbliche e private, come un insieme di insegnamenti che provenendo da lontano le hanno donato, decennio dopo decennio, l’identità. Quando questo riconoscimento viene meno da parte dei cittadini, ad esso si sostituiscono sentimenti, più o meno consapevoli, di rivalsa, di rifiuto, se non di aperta ribellione.

Non si coglie così che un segnale stradale che vieta un transito o un segnale acustico è la rappresentazione amministrativa di un valore che in quel caso sarà la particolare natura di quel tratto di strada o la presenza di un ospedale. 

Non si assegna valore riconosciuto e condiviso ad un’aiuola appena seminata o fiorita, ad un’area appena risanata, ad un muro appena ridipinto. E, più una città è povera di risorse, di diritti, di opportunità - mentre all’opposto vede esaltato  il privilegio, l’immunità dei potenti, il loro essere al di sopra delle regole -   maggiore è l’astio che cova dentro il cittadino e inesistente il controllo delle proprie azioni. Il cittadino che sporca, vandalizza, distrugge il patrimonio collettivo è un cittadino che odia la propria città perché da essa non ha ricevuto nulla per cui esserle grato.

La riflessione allora si sposta dalla sfera pedagogica a quella politica su cui ricade la piena responsabilità, accresciutasi nei decenni,  di aver nascosto la propria deformità dietro l’imperium dell’imposizione normativa, della tassazione iniqua e sproporzionata, della repressione fondata sul potere. 

Non a caso i fenomeni di degrado sono infinitamente più ricorrenti nelle società più sfruttate, dove chi vi dimora vede calpestati i propri diritti elementari, irrise le garanzie costituzionali, disattese le prerogative che, in forza dello stato di cittadino, dovrebbe vedersi riconosciute. E non a caso, dalla classe politica di quelle città si tengono lontani i cittadini che maggiormente potrebbero contribuire a migliorarne la compagine.

Quando si raggiunge un simile livello di conflitto la responsabilità di chi governa aumenta esponenzialmente. Non basta più far rispettare la legge, i regolamenti, le prescrizioni, non basta aumentare il gravame delle sanzioni o l’intransigenza della repressione. Occorre ricominciare da zero costruendo dal basso un rapporto di fiducia che in una città come Palermo è sempre mancato, occorre ristabilire principi ferrei di pari opportunità per tutti, di contrasto al privilegio e all’arroganza, occorre restituire dignità a quanti avendola perduta, non si sentono più obbligati verso un patto di cittadinanza che li ha esclusi ed emarginati.

Se solo in questi anni alla retorica di certa – costosa -  antimafia si fossero affiancate azioni di promozione umana, di presenza quotidiana delle istituzioni nelle periferie, nelle zone più degradate, nelle scuole, negli ospedali e in altri luoghi dove le persone soffrono nell’anima e nel corpo, forse oggi avremmo sentimenti diversi tra la gente, tra quelle centinaia di migliaia di persone che sono state lasciate sole con il proprio destino, con le proprie tragedie familiari e sociali.

E gli appelli non cadrebbero oggi nel silenzio,  se non addirittura nel feroce dileggio con cui il popolo sfoga la propria secolare disperazione e ritira ogni residua fiducia anche nei confronti di quanti tra i candidati a sindaco,  che pur ereditando un così pesante fardello, non riusciranno a farsi amare e seguire.

E ciò,  ove essi non dimostrino concretamente che è possibile una Città diversa, più giusta e più caritatevole, dove il merito, l’impegno e il sacrificio personale sono gli unici passaporti per diventare capitale morale del nostro Paese, ribaltandone un’immagine appesantita da quel piombo nelle ali che ci impedisce di alzarci da un’eterna condizione di minorità e mostrarci al mondo, in un’epifania del riscatto, con la schiena dritta e lo sguardo fiero di chi ha pagato i propri debiti con il passato.


Umberto Galimberti, Il  piccolo uomo,  Carpi, 2014




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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA