Andrea Palladio, Teatro Olimpico, 1580, Vicenza |
Epifania
della città pedagogica
di Luigi Sanlorenzo (*)
Le drammatiche emergenze di Palermo sollecitano alcune riflessioni in ordine al tema della “città pedagogica” quale luogo di apprendimento individuale e collettivo di contenuti, valori e stili di vita.
Le città comunicano con chi le abita non solo con la trasmissione
della memoria affidata ai monumenti, alla toponomastica, all’iconografia, alle
tradizioni. Esse sono a tutti gli effetti un grande teatro in cui si rappresentano desideri, aspirazioni, emozioni e frustrazioni.
Le città parlano nel quotidiano attraverso le
scelte che compiono, ai valori che privilegiano, alle priorità che si danno.
Ogni città ha un proprio genius loci sul piano simbolico e un proprio
Statuto sul piano amministrativo e la combinazione virtuosa tra questi due
potenti strumenti di comunicazione è funzione della coerenza che li pone in
relazione.
Gli atti amministrativi, le scelte gestionali,
le deliberazioni assunte in ogni settore della vita pubblica non nascono
dall’arbitrio di questo o di quell’organo di governo ma rappresentano modi,
percorsi, strumenti per realizzare i fini statutari il richiamo ai quali è, non
a caso, posto in epigrafe a ciascuna
determinazione.
Non può dunque darsi la possibilità che gli atti di governo di una città si allontanino o addirittura contraddicano i principi dello Statuto e dove ciò accade, è legittima non solo la protesta dei cittadini ma la rivendicazione degli stessi circa la revoca delle determinazioni assunte in difformità.
Ovviamente ciò ha valore per l’Ente Comunale e per tutte le realtà operative
che pur con Statuti specifici svolgono per conto dello stesso i servizi legati
ai bisogni essenziali della cittadinanza che, peraltro, ne sostiene il costo
attraverso il pagamento di specifici tributi.
Mentre il diritto amministrativo degli Enti Locali norma la quasi totalità degli atti posti in essere dal Governo cittadino, nessun ordinamento tiene in considerazione che la Città è anche uno spazio etico, politico e pedagogico. La dimensione etica, prevalentemente presa in esame allorquando riguarda gli atti degli amministratori, consiste nell’adozione di comportamenti che abbiano come riferimento il Bene Comune, le risorse collettive, il patrimonio dell’Ente e la messa a frutto di tutto ciò secondo il principio antico del “buon padre di famiglia”.
Si tratta allora di preservare, mantenere, valorizzare e rendere agibile alla
fruizione collettiva tutto quello che ricade nella sfera pubblica, intesa come
proprietà di tutti e che come tale ha la precedenza sul pur legittimo interesse privato.
Se tale concetto è pacificamente accettato
come l’origine di ogni giudizio nei confronti degli Amministratori, sembra del
tutto trascurato il fatto che analoga responsabilità è, seppur con modalità di
esercizio diverse, in capo ad ogni singolo cittadino che non a caso è soggetto
a sanzione laddove ponga in essere comportamenti che danneggino, sviliscano o
pregiudichino il patrimonio comune.
Per tale ragione viene sanzionato chi sporca,
chi occupa senza titolo uno spazio che è pubblico, chi si appropria di porzioni
di Beni Comuni, sottraendole alla pubblica fruizione, chi evade le tasse o non
paga i tributi. Eppure, per ragioni che provengono da lontano, sovente nelle
medie e grandi città del Meridione tale responsabilità del singolo cittadino è
considerata minore, se non addirittura tollerata e, in alcuni casi, diventa
motivo di una sorta di ammirazione da parte di chi si rapporta all’ Ente Comune
- da intendersi stavolta non solo come
soggetto amministrativo ma come
soggettualità collettiva - con un atteggiamento pregiudiziale di
negazione, se non di conflitto.
Quando ciò si verifica attraverso fenomeni gravi e di vasta portata, la Città deve prendere atto che ha fallito i propri obiettivi etici perché poco, o affatto, ha curato la propria funzione pedagogica.
Essa cioè non si è posta
rispetto ai singoli come un esempio da seguire, come una visione della vita e
del mondo cui orientare le proprie azioni pubbliche e private, come un insieme
di insegnamenti che provenendo da lontano le hanno donato, decennio dopo decennio,
l’identità. Quando questo riconoscimento viene meno da parte dei cittadini, ad
esso si sostituiscono sentimenti, più o meno consapevoli, di rivalsa, di
rifiuto, se non di aperta ribellione.
Non si coglie così che un segnale stradale che vieta un transito o un segnale acustico è la rappresentazione amministrativa di un valore che in quel caso sarà la particolare natura di quel tratto di strada o la presenza di un ospedale.
Non si assegna valore riconosciuto e condiviso ad
un’aiuola appena seminata o fiorita, ad un’area appena risanata, ad un muro
appena ridipinto. E, più una città è povera di risorse, di diritti, di
opportunità - mentre all’opposto vede esaltato
il privilegio, l’immunità dei potenti, il loro essere al di sopra delle
regole - maggiore è l’astio che cova
dentro il cittadino e inesistente il controllo delle proprie azioni. Il
cittadino che sporca, vandalizza, distrugge il patrimonio collettivo è un
cittadino che odia la propria città perché da essa non ha ricevuto nulla per
cui esserle grato.
La riflessione allora si sposta dalla sfera pedagogica a quella politica su cui ricade la piena responsabilità, accresciutasi nei decenni, di aver nascosto la propria deformità dietro l’imperium dell’imposizione normativa, della tassazione iniqua e sproporzionata, della repressione fondata sul potere.
Non a caso i fenomeni di degrado sono
infinitamente più ricorrenti nelle società più sfruttate, dove chi vi dimora
vede calpestati i propri diritti elementari, irrise le garanzie costituzionali,
disattese le prerogative che, in forza dello stato di cittadino, dovrebbe vedersi
riconosciute. E non a caso, dalla classe politica di quelle città si tengono
lontani i cittadini che maggiormente potrebbero contribuire a migliorarne la
compagine.
Quando si raggiunge un simile livello di
conflitto la responsabilità di chi governa aumenta esponenzialmente. Non basta
più far rispettare la legge, i regolamenti, le prescrizioni, non basta
aumentare il gravame delle sanzioni o l’intransigenza della repressione.
Occorre ricominciare da zero costruendo dal basso un rapporto di fiducia che in
una città come Palermo è sempre mancato, occorre ristabilire principi ferrei di
pari opportunità per tutti, di contrasto al privilegio e all’arroganza, occorre
restituire dignità a quanti avendola perduta, non si sentono più obbligati
verso un patto di cittadinanza che li ha esclusi ed emarginati.
Se solo in questi anni alla retorica di certa
– costosa - antimafia si fossero
affiancate azioni di promozione umana, di presenza quotidiana delle istituzioni
nelle periferie, nelle zone più degradate, nelle scuole, negli ospedali e in
altri luoghi dove le persone soffrono nell’anima e nel corpo, forse oggi
avremmo sentimenti diversi tra la gente, tra quelle centinaia di migliaia di
persone che sono state lasciate sole con il proprio destino, con le proprie
tragedie familiari e sociali.
E gli appelli non cadrebbero oggi nel silenzio, se non addirittura nel feroce dileggio con cui il popolo sfoga la propria secolare disperazione e ritira ogni residua fiducia anche nei confronti di quanti tra i candidati a sindaco, che pur ereditando un così pesante fardello, non riusciranno a farsi amare e seguire.
E ciò, ove essi non dimostrino concretamente che è possibile una Città diversa, più giusta e più caritatevole, dove il merito, l’impegno e il sacrificio personale sono gli unici passaporti per diventare capitale morale del nostro Paese, ribaltandone un’immagine appesantita da quel piombo nelle ali che ci impedisce di alzarci da un’eterna condizione di minorità e mostrarci al mondo, in un’epifania del riscatto, con la schiena dritta e lo sguardo fiero di chi ha pagato i propri debiti con il passato.
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