03 aprile, 2022

Palermo verso le elezioni amministrative

 

Andrea Palladio, Teatro Olimpico, 1580, Vicenza

Epifania della città pedagogica

di Luigi Sanlorenzo (*)


Le drammatiche emergenze di Palermo sollecitano alcune riflessioni in ordine al tema della “città pedagogica” quale luogo di apprendimento individuale e collettivo di contenuti, valori e stili di vita.

Le città comunicano con  chi le abita non solo con la trasmissione della memoria affidata ai monumenti, alla toponomastica, all’iconografia, alle tradizioni. Esse sono a tutti gli effetti un grande teatro in cui si rappresentano desideri, aspirazioni, emozioni e frustrazioni.

Le città parlano nel quotidiano attraverso le scelte che compiono, ai valori che privilegiano, alle priorità che si danno. Ogni città ha un proprio genius loci sul piano simbolico e un proprio Statuto sul piano amministrativo e la combinazione virtuosa tra questi due potenti strumenti di comunicazione è funzione della coerenza che li pone in relazione.

Gli atti amministrativi, le scelte gestionali, le deliberazioni assunte in ogni settore della vita pubblica non nascono dall’arbitrio di questo o di quell’organo di governo ma rappresentano modi, percorsi, strumenti per realizzare i fini statutari il richiamo ai quali è, non a caso,  posto in epigrafe a ciascuna determinazione.

Non può dunque darsi la possibilità che gli atti di governo di una città si allontanino o addirittura contraddicano i principi dello Statuto e dove ciò accade,  è legittima non solo la protesta dei cittadini ma la rivendicazione degli stessi circa la revoca delle determinazioni assunte in difformità. 

Ovviamente ciò ha valore per l’Ente Comunale e per tutte le realtà operative che pur con Statuti specifici svolgono per conto dello stesso i servizi legati ai bisogni essenziali della cittadinanza che, peraltro, ne sostiene il costo attraverso il pagamento di specifici tributi.

Mentre il diritto amministrativo degli Enti Locali norma la quasi totalità degli atti posti in essere dal Governo cittadino, nessun ordinamento tiene in considerazione che la Città è anche uno spazio etico, politico  e pedagogico. La dimensione etica, prevalentemente presa in esame allorquando riguarda gli atti degli amministratori, consiste nell’adozione di comportamenti che abbiano come riferimento il Bene Comune, le risorse collettive, il patrimonio dell’Ente e la messa a frutto di tutto ciò secondo il principio antico del “buon padre di famiglia”. 

Si tratta allora di preservare, mantenere, valorizzare e rendere agibile alla fruizione collettiva tutto quello che ricade nella sfera pubblica, intesa come proprietà di tutti e che come tale ha la precedenza sul pur legittimo interesse privato.

Se tale concetto è pacificamente accettato come l’origine di ogni giudizio nei confronti degli Amministratori, sembra del tutto trascurato il fatto che analoga responsabilità è, seppur con modalità di esercizio diverse, in capo ad ogni singolo cittadino che non a caso è soggetto a sanzione laddove ponga in essere comportamenti che danneggino, sviliscano o pregiudichino il patrimonio comune.

Per tale ragione viene sanzionato chi sporca, chi occupa senza titolo uno spazio che è pubblico, chi si appropria di porzioni di Beni Comuni, sottraendole alla pubblica fruizione, chi evade le tasse o non paga i tributi. Eppure, per ragioni che provengono da lontano, sovente nelle medie e grandi città del Meridione tale responsabilità del singolo cittadino è considerata minore, se non addirittura tollerata e, in alcuni casi, diventa motivo di una sorta di ammirazione da parte di chi si rapporta all’ Ente Comune - da intendersi stavolta non solo come  soggetto amministrativo ma come   soggettualità collettiva - con un atteggiamento pregiudiziale di negazione, se non di conflitto.

Quando ciò si verifica attraverso fenomeni gravi e di vasta portata, la Città deve prendere atto che ha fallito i propri obiettivi etici perché poco, o affatto,  ha curato la propria funzione pedagogica. 

Essa cioè non si è posta rispetto ai singoli come un esempio da seguire, come una visione della vita e del mondo cui orientare le proprie azioni pubbliche e private, come un insieme di insegnamenti che provenendo da lontano le hanno donato, decennio dopo decennio, l’identità. Quando questo riconoscimento viene meno da parte dei cittadini, ad esso si sostituiscono sentimenti, più o meno consapevoli, di rivalsa, di rifiuto, se non di aperta ribellione.

Non si coglie così che un segnale stradale che vieta un transito o un segnale acustico è la rappresentazione amministrativa di un valore che in quel caso sarà la particolare natura di quel tratto di strada o la presenza di un ospedale. 

Non si assegna valore riconosciuto e condiviso ad un’aiuola appena seminata o fiorita, ad un’area appena risanata, ad un muro appena ridipinto. E, più una città è povera di risorse, di diritti, di opportunità - mentre all’opposto vede esaltato  il privilegio, l’immunità dei potenti, il loro essere al di sopra delle regole -   maggiore è l’astio che cova dentro il cittadino e inesistente il controllo delle proprie azioni. Il cittadino che sporca, vandalizza, distrugge il patrimonio collettivo è un cittadino che odia la propria città perché da essa non ha ricevuto nulla per cui esserle grato.

La riflessione allora si sposta dalla sfera pedagogica a quella politica su cui ricade la piena responsabilità, accresciutasi nei decenni,  di aver nascosto la propria deformità dietro l’imperium dell’imposizione normativa, della tassazione iniqua e sproporzionata, della repressione fondata sul potere. 

Non a caso i fenomeni di degrado sono infinitamente più ricorrenti nelle società più sfruttate, dove chi vi dimora vede calpestati i propri diritti elementari, irrise le garanzie costituzionali, disattese le prerogative che, in forza dello stato di cittadino, dovrebbe vedersi riconosciute. E non a caso, dalla classe politica di quelle città si tengono lontani i cittadini che maggiormente potrebbero contribuire a migliorarne la compagine.

Quando si raggiunge un simile livello di conflitto la responsabilità di chi governa aumenta esponenzialmente. Non basta più far rispettare la legge, i regolamenti, le prescrizioni, non basta aumentare il gravame delle sanzioni o l’intransigenza della repressione. Occorre ricominciare da zero costruendo dal basso un rapporto di fiducia che in una città come Palermo è sempre mancato, occorre ristabilire principi ferrei di pari opportunità per tutti, di contrasto al privilegio e all’arroganza, occorre restituire dignità a quanti avendola perduta, non si sentono più obbligati verso un patto di cittadinanza che li ha esclusi ed emarginati.

Se solo in questi anni alla retorica di certa – costosa -  antimafia si fossero affiancate azioni di promozione umana, di presenza quotidiana delle istituzioni nelle periferie, nelle zone più degradate, nelle scuole, negli ospedali e in altri luoghi dove le persone soffrono nell’anima e nel corpo, forse oggi avremmo sentimenti diversi tra la gente, tra quelle centinaia di migliaia di persone che sono state lasciate sole con il proprio destino, con le proprie tragedie familiari e sociali.

E gli appelli non cadrebbero oggi nel silenzio,  se non addirittura nel feroce dileggio con cui il popolo sfoga la propria secolare disperazione e ritira ogni residua fiducia anche nei confronti di quanti tra i candidati a sindaco,  che pur ereditando un così pesante fardello, non riusciranno a farsi amare e seguire.

E ciò,  ove essi non dimostrino concretamente che è possibile una Città diversa, più giusta e più caritatevole, dove il merito, l’impegno e il sacrificio personale sono gli unici passaporti per diventare capitale morale del nostro Paese, ribaltandone un’immagine appesantita da quel piombo nelle ali che ci impedisce di alzarci da un’eterna condizione di minorità e mostrarci al mondo, in un’epifania del riscatto, con la schiena dritta e lo sguardo fiero di chi ha pagato i propri debiti con il passato.


Umberto Galimberti, Il  piccolo uomo,  Carpi, 2014




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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA

 

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