Antonio Perego, L'Accademia dei Pugni, 1762, Collezione Sormani Andreani, Milano |
Tra luoghi comuni e abusate definizioni, che cos'è il Riformismo ?
di Luigi Sanlorenzo (*)
"In genere, ogni metodo d’azione politica che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico sociale esistente solo attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme."
(da Enciclopedia Treccani)
Non conosco partiti che non si
definiscano riformisti. Nessuno, infatti,
ad accezione forse degli ultimi giapponesi rimasti tra gli aderenti al
Movimento Cinque Stelle, ritiene che la via verso il potere possa passare da
una tappa rivoluzionaria, poiché tale è il suo contrario.
Il termine “riformismo” ha un’origine storica ben precisa. Fu introdotto in Inghilterra, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nel corso della campagna per l’allargamento del suffragio universale culminata nel “Great reform bill” del 1832.
La sua nascita, dunque, è legata alla storia della democrazia rappresentativa. Successivamente venne usato in contrapposizione al massimalismo rivoluzionario, per designare le politiche di welfare state delle socialdemocrazie europee.
La prospettiva di un’economia pianificata e di una società senza classi cede così il passo a una concezione secondo cui il capitalismo non va abbattuto, ma “civilizzato” attraverso correzioni graduali delle sue storture e delle sue disuguaglianze. In questo senso, uno dei padri della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, diceva che “il movimento è tutto e il fine è nulla”. E sarà proprio l’SPD nel 1959 a celebrare l’abiura definitiva del marxismo-leninismo nel celebre Congresso di Bad Godesberg.
Il Partito Comunista Italiano di Achille Occhetto ci sarebbe arrivato, più o meno in buona fede, trent’anni dopo con la svolta della Bolognina: “andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato durante la Resistenza (...) Gorbaciov prima di dare il via ai cambiamenti in URSS incontrò i veterani e gli disse: voi avete vinto la seconda guerra mondiale, ora se non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni”.
Una direzione di marcia poi approvata nel XX Congresso del partito a Rimini il 31 gennaio del 1991 in cui si stabilì tra mille polemiche di cambiare nome: il PCI di Amedeo Bordiga e di Antonio Gramsci era nato settant’anni prima a Livorno, dalla nota scissione dal Partito Socialista Italiano, riformista per antonomasia, senza abbandonare l’idea massimalista del cambiamento della società attraverso una rivoluzione popolare sul modello sovietico.
Evocando quello spettro, l’ex socialista Benito Mussolini avrebbe trovato sgombra, l’anno successivo, la strada verso Palazzo Chigi e cambiato drammaticamente il corso dell’Italia liberale, precipitandola nella dittatura. Il seguito è noto.
La mozione congressuale di Achille Occhetto, appoggiata, tra gli altri, da Massimo D'Alema, Walter Veltroni e Piero Fassino, risultò vincente, ed il 3 febbraio nasceva il Partito Democratico della Sinistra; come emblema una quercia e, notevolmente ridotto, il vecchio simbolo del PCI della falce e martello posto simbolicamente alla base del tronco dell'albero, vicino alle radici. L'8 febbraio venne eletto lo stesso Occhetto come primo segretario del PDS, con 376 voti di preferenza contro i 127 voti contrari. Primo presidente del partito fu Stefano Rodotà.
Tale identità, al contrario, va rielaborata e ricostruita facendo coraggiosamente i conti con le nuove sfide di un mondo nuovo, in cui tutto è rimesso in discussione: equilibri planetari, sovranità statali, blocchi sociali, forme di accumulazione, modi di formazione della coscienza individuale e collettiva.
E ciò vale per le tre correnti fondamentali del riformismo domestico: quella socialista, in tutte le sue famiglie; quella laico-democratica, a cui di fatto è collegato il movimento ambientalista; quella cattolico-popolare.
La rivoluzione a cui egli alludeva è la “rivoluzione liberale” di Piero Gobetti, e quindi precisava: “rivoluzione non violenta e interamente democratica di chi cerca consenso e governo per mutare radicalmente, nel segno delle opportunità sociali e della pienezza delle libertà, l’ordine di cose presente”.
L’intenzione era commendevole, ma “l’amalgama è mal riuscito” secondo l’icastica profezia di Massimo D’Alema. E il Pd nel tempo presente si presenta come un involucro informe dove coesistono confusamente tutte le cianfrusaglie retoriche di cui i suoi fondatori non si sono mai liberati mediante severi bilanci critici.
Una palese dimostrazione del caos politico-culturale in cui versa Largo del Nazareno è stata offerta dal passato dibattito sul referendum costituzionale. Non rileva qui esaminare le diverse posizioni allora in campo. Può essere utile, invece, sottolineare l’idea di riformismo che predicano in questa vicenda i sedicenti “veri riformisti”.
Un appellativo usato fino agli settanta come ingiuria politica. Nel film del 2009 “Baaria” di Giuseppe Tornatore, l’accusa fa vergognare del proprio padre il giovanissimo Michele Torrenuova che i propri compagni tacciano di essere divenuto uno “sporco riformista”.
Alla domanda del figlio su quale sia il significato del termine, Peppino, il militante comunista figlio di un bracciante innamorato della politica e che pure ha avuto il privilegio di frequentare la scuola di Frattocchie e di visitare il “paradiso dei lavoratori” tornandone deluso e depresso, risponde: “ Riformista e chi non sbatte la testa contro un muro, perchè sa che è la testa a rompersi e non il muro. Riformista è chi vuole cambiare il mondo col buonsenso : il "secolo breve" raccontato in due ore di narrazione poetica attraverso tre generazioni, con le indimenticabili emozioni suscitate dalle musiche di Ennio Morricone.
Pensando a quella babele delle lingue che oggi è il Pd in cui è approdato da poco Enrico Letta innalzando senza timore da terra dove era finito lo stendardo sacrosanto dello ius soli, si tratta di condizioni a dir poco aleatorie. Ma, obiettano i veri riformisti, non bisogna avere paura di sporcarsi le mani. Perché il riformismo è questo: una combinazione di audacia tattica e realismo politico che deve caratterizzare una forza di governo.
Ed ecco il punto: può una forza riformista vivere senza princìpi e senza una cultura politica che orienti le sue grandi scelte? Forse così può anche tirare a campare, sapendo però che la sua azione, come diventa propaganda vuota se non tiene conto della realtà effettuale, senza un progetto di cambiamento apre inevitabilmente le porte all’opportunismo più disinvolto: per cui si può scoprire, in base alle convenienze del momento, favorevole o contraria indifferentemente al bicameralismo perfetto, proporzionalista o maggioritaria, ecologista o industrialista, federalista o centralista, liberista o statalista.
Il dovere del riformismo — termine dalla consistenza semantica, peraltro, ancora oggi assai incerta — è quello di fare le riforme, sociali, economiche e istituzionali, non di stare a Palazzo Chigi, whatever it takes. Altrimenti ciò indica un semplice recapito, un cognome che certifica l’albero genealogico: racconta da dove si viene, non dove si vuole andare.
In Europa il riformismo è stato a lungo la strada per la modernizzazione, per nuovi patti sociali tra capitale e lavoro, per l’affermazione dei diritti civili, per il contrasto al terrorismo politico e fondamentalista, al punto da diventare il vero nemico per chi intendeva far indietreggiare la storia.
Le socialdemocrazie scandinave hanno tenuto a bada per decenni l’Unione Sovietica rappresentando un baluardo e un’ alternativa in termini di modelli sociali che a lungo abbiamo invidiato; la Francia di François Mitterrand ha contenuto gli appetiti della destra nazionalista ed antisemita del Front National fondato nel 1972 da Jeam-Marie Le Pen, e della gauche filosovietica di Georges Marchais e poi di quella antieuropeista guidata da Jean-Luc Melenchon, l’Inghilterra della Thatcher ha creato i presupposti per la terza via del cattolico Tony Blair il cui diverso destino politico avrebbe scongiurato il successivo avvento dei conservatori, Brexit e quella ferita che a lungo resterà aperta in Europa.
Negli Stati Uniti le amministrazioni Kennedy, Clinton, Obama ed oggi Biden/Harris hanno frenato i lati peggiori della società americana, superando il maccartismo, arginando il segregazionismo, combattendo il terrorismo islamico ed oggi i resti di quel trumpismo che ha osato attaccare il tempio della democrazia americana non più tardi di un anno fa, anche se sembra sia passato un secolo da allora.
Paradossalmente, anche la Chiesa Cattolica ha dato il meglio di sé con il Concilio Vaticano II, la cospicua eredità riformista ricevuta e praticata dal travagliato Paolo VI che, con tutto il rispetto dovuto dal credente che confida nell’onniscienza dello Spirito Santo, si lasciò alle spalle le opacità di Pio XII e le sante ingenuità di Giovanni XXIII ed a cui sarebbero seguite le grandi capacità di leadership universale di Giovanni Paolo II, il sofferto integralismo di Benedetto XVI suo mentore e il terzomondismo di Papa Francesco.
Pontificati che tanto hanno fatto e fanno discutere come, soprattutto nel primo e nel secondo caso, l’esplicita opposizione del teologo svizzero Hans Kung scomparso novantatreenne proprio il 6 aprile dello scorso anno, quella umile e volutamente nascosta nel silenzio del Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini e, nel terzo caso, la malcelata opposizione di numerosi vescovi statunitensi a molte delle posizioni, percepite come più rivoluzionarie che riformiste, del gesuita Papa Bergoglio.
Dura strada dunque quella del riformismo destinato ad avere numerosi nemici sia “a destra” ed “a sinistra” ma unica soluzione delle grandi questioni globali non più affrontabili con ideologie che hanno fatto il proprio tempo e milioni di vittime ed antidoto essenziale all’imperialismo cinese, oggi vera minaccia, multiforme e proteiforme, per il mondo libero il cui Partito Comunista, despota collettivo di un paese immenso, ha celebrato il proprio centenario in un delirio di onnipotenza.
“L'avanzata di un « modello cinese» in vaste zone del mondo (fino all’Africa e all’America Latina) apre interrogativi inquietanti sul futuro della democrazie e dei diritti umani.” Così ha scritto Federico Rampini, da anni il più acuto osservatore di quel mondo a partire da “Il Secolo cinese” pubblicato da Mondadori del 2005 e seguito da lungo elenco di saggi che hanno trasformato il giornalista genovese, ora anche cittadino statunitense, in un illustre sinologo in grado di orientare tra i “cantieri della storia” alla ricerca delle fondamenta di nuove piramidi del potere globale che il futuro potrebbe riservare.
Tuttavia, di una cosa possiamo essere certi: il timore del pericolo cinese potrà svolgere la stessa funzione levatrice che, quale contrasto all’Unione Sovietica, ebbe nella nascita dei fascismi durante il XX secolo. Un rischio simile si profila di nuovo all’orizzonte e solo l’affermazione di un concreto, robusto e consapevole riformismo potrà contrastarlo prima che, come un veleno letale, la paura si diffonda nelle vene del mondo libero che teme di non esserlo più negli anni a venire.
Indro Montanelli, assurto stavolta alla dignità di storico, ha voluto lasciarci, insieme a tanti altri, anche l’avvertimento che segue:
“Cos’era la Repubblica di Weimar? Era l’impotenza del potere esecutivo, cioè del Governo. […] La Germania rimase nel disordine, nel caos, nella Babele dei partiti che non riuscivano a trovare mai delle maggioranze stabili, quindi dei governi efficaci. Ecco perché Hitler vinse, perché il nazismo vinse. I costituenti nostri partirono dal presupposto contrario, cioè dissero: «Cos’era il fascismo? Il fascismo era il premio dato a un potere esecutivo che governava senza i partiti, senza controlli eccetera. Quindi noi dobbiamo esautorare completamente il potere esecutivo, [negando] la possibilità di dare ai governi una stabilità, eccetera». Per rifare che cosa? Weimar. Cioè, mentre i tedeschi partivano dalla negazione di Weimar, noi arrivavamo [a Weimar] senza dirlo. Nessuno lo disse, ma questo fu il risultato. […] Non fu possibile nemmeno introdurre quella solita linea di sbarramento che invece fu introdotta in Germania, per cui i partiti che non raggiungevano non ricordo se il 5 o il 3%, non avevano diritto a una rappresentanza. No, tutti i partiti dovevano esserci e tutti avevano un potere di ricatto sulle maggioranze, che erano per forza di cose di coalizione”. (da "Dall’ assemblea costituente alla vigilia delle elezioni del 1948" in Storia d’Italia, Rizzoli, 1965-2000)
_______________
Francesco Guicciardini (1483 - 1540) |
Concludo con una domanda cruciale: l'Italia può definirsi un paese riformista ? Se si considera il ritardo strutturale con cui sotto tale profilo il confronto è con i membri storici dell'Unione Europea, la risposta di chi scrive è no !
Se si riflette sul fatto che è stata necessaria una pandemia devastante che ha messo in ginocchio il Paese al punto da ottenere, sulla base dei numeri - e non di questo o di quel demiurgo - la quota più cospicua del Next Generation EU, condizionata però all'accelerazione del processo riformatore, la risposta è, ancora una volta, no !
Oltre le dichiarazioni di prammatica, i partiti italiani non possono definirsi riformisti, ancorati come sono ad una visione corporativa, quando non clientelare, del potere in nome della quale si "riforma" contro qualcuno o a favore di qualcun altro e quasi mai nell'interesse generale, come nel caso eclatante dei sistemi elettorali o delle tante ferite nel corpo della Magistratura e, più in generale, del servizio di giustizia.
L'Italia è stata finora, piuttosto, il Paese che ha perso le grandi occasioni per rivisitare il proprio funzionamento istituzionale e burocratico, negandosi per puro contrasto nei confronti di Silvio Berlusconi prima e di Matteo Renzi dopo, all'appuntamento con la Storia. Nè possono costituire valide esimenti la biografia personale e giudiziaria del primo e l' eccessivo protagonismo del secondo.
Un popolo umorale e volubile, disposto a credere che si possa abolire la povertà con l'erogazione di un sussidio universale, senza intervenire sulle cause profonde del fenomeno o che è stato sul punto di darsi per la terza volta un governo presieduto da un illustre sconosciuto insensibile ad ogni opzione valoriale, pur di mantenere la poltrona o che, ancora, ha dimenticato il proprio passato di emigrante per plaudire ai "decreti sicurezza" - tuttora in vigore - e che ancora esita a varare lo jus soli, mostra di non possedere una coscienza riformista in senso universale.
Un Paese che sembra ancorato a quello descritto da Francesco Guicciardini nel XVI secolo che definendo il "particulare" identifica la molla che fa scattare tutte le azioni umane: esso il più delle volte corrisponde al benessere materiale, al potere, ma può anche nobilitarsi corrispondendo all'interesse dello Stato, alla gloria, alla fama.
Per realizzare il "particulare", sia in senso politico che in senso domestico, non è possibile rifarsi alla storia e trarre insegnamenti da fatti già accaduti per risolvere i fatti del presente, perché nella storia i fatti non si ripetono mai: anche quando una circostanza presente sembra riflettere un episodio della storia passata, in effetti la situazione attuale è ben diversa, diversi essendo gli uomini che si trovano ad affrontarla.
Quindi non c'è da sperare in una scienza della politica, ma contare esclusivamente sulla propria "discrezione", cioè una qualità innata nell'uomo, ma che solo pochi posseggono in misura rilevante, che fornisce la capacità di intuire di volta in volta la scelta da operare, la strada da percorrere, per realizzare il proprio vantaggio e difendersi dai pericoli della vita.
"Muovonsi gli uomini leggermente per ogni vano sospetto, per ogni vano romore; non discernono, non distinguono, e con la medesima leggerezza tornano alle deliberazione che avevano prima dannate, a odiare quello che amavano, a amare quello che odiavano; però non sanza cagione è assomigliata la moltitudine alle onde del mare, le quale secondo e' venti che tirano vanno ora in qua ora in lá sanza alcuna regola, sanza alcuna fermezza. In somma e' non si può negare che uno popolo per sé medesimo non sia una arca di ignoranzia e di confusione; però e' governi meramente populari sono stati in ogni luogo poco durabili, ed oltre a infiniti tumulti e disordini, di che mentre hanno durato sono stati pieni, hanno partorito o tirannide o ultima ruina della loro cittá." ( da "Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la Prima Deca di Tito Livio" 1527)
Non stupisca, allora che nella limitata memoria scolastica degli italiani abbiano trovato più spazio la Fortuna di Machiavelli e il fascino perverso del suo "Principe".
Ma quella è un'altra storia.
(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA
https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/
Nessun commento:
Posta un commento