14 febbraio, 2022

Niesci tu puocu manciuni, trasi tu sarda salata, vienu tu ronna risiata.


La processione pasquale della Maronna Vasa Vasa (foto Meridonenews)


Un anno di feste religiose nell'antica Contea di Modica 

di Marcella Burderi (*)


I festeggiamenti del carnevale nell’antica contea di Modica a detta di Serafino Amabile Guastella non cominciavano mai prima del 12 gennaio poiché la comunità intera commemorava quel nefasto avvenimento accaduto all’unnici ri innaru a vintun ura quando tuttu lu munnu si misi an-ruvina, se nun era pi Maria la Gran signura tutti forrumu muorti ri tannu ar-ora. 11 gennaio 1693 alla ventunesima ora, alle quindici, un terribile terremoto sconquassò il Vallo di Noto imprimendo una ferita mortale all’intera comunità. 

Solo dopo quella data dunque iniziava il Carnevale normato dalle sue ferree regole: i giorni dei tre giovedì, gli ultimi tre giorni denominati “sdirri” e poi i travestimenti, le maschere, i piatti della festa, le recite degli indovinelli, i nnivinagghia, e le “parti” del carnevale. 

Vale la pena soffermarsi sulle “parti” del Carnevale. Si trovano raccolte dal Guastella ne L’antico Carnevale della Contea di Modica, il cui contenuto pone l’accento sull’aperto conflitto tra i contadini, le maestranze e i nobili che si manifestava apertamente, senza veli, né giri di parole, nei giorni del Carnevale. Basta leggere e i contenuti di questa antica diatriba sono nettamente delimitati.

Solo in questo momento dell’anno, infatti, così come alle donne veniva concesso di lasciarsi andare in scurrili e licenziosi detti, i nnivinagghia appunto, ai contadini era permesso prendersi gioco di quelle classi economicamente più agiate, considerate per questo privilegiate.

Le “parti” del Carnevale erano dunque una sorta di rivincita degli ultimi, una sorta di affermazione del primato dei derelitti. Ma poi i giorni passavano e dopo la sdirrisira iniziava la Quaresima: niesci tu puocu manciuni: il Carnevale è cacciato. Trasi tu sarda salata il momento dell’astinenza. È il momento più difficile dell’anno lavorativo. Quello della rinuncia, della mortificazione della carne, della penitenza. Gloria e patri nun ci nn è ca u signuri muortu è. È il momento in cui la fatica dell’anima si prende lo spazio nelle giornate, insieme alla preghiera, alla privazione, alla negazione. Fino ad arrivare alla settimana santa.

Inizia dal lunedì la nenia che ricorda, passo dopo passo, ogni giorno della settimana santa, ri luni s’accumincia a fari ciantu, ciantu ca rura tutta la simana ma che condurrà alla resurrezione: vieni tu ronna risiata! Dal lunedì alla domenica è un susseguirsi di processioni, preghiere, racconti, che costituiscono il racconto sia corale che individuale, sia fisico che mentale, della Passione di Cristo. 

A lu jovi di la sira lu pigghiaru –n casa ranni, lu purtaru trasciuniuni, e Maria rarrieri a li porti ca sintìa li riscusciati siamo entrati nel girone più stretto della passione di Cristo, lui verrà incatenato e seviziato e la madre non smetterà di pregare l’uomo che non sa ascoltare: rati aciddu, n-rati forti, su carnuzzi rilicati, colpitelo delicatamente, non dategliele troppo violentemente: le sue sono carni delicate. Ma la tensione non è ancora al massimo. 

Il venerdì è tutto un negare: le campane vengono ammutolite, al posto loro la campana di legno chiamerà a raccolta i fedeli, i cani vengono rinchiusi al buio e lasciati digiuni, gli specchi coperti, le barbe lunghe, i volti non lavati, intrecciare i capelli sarà un gesto proibito, la pasta da impastare benedetta direttamente dalla Madre di Dio biniritta chidda pasta ca ri venniri s-ampasta. Maria, in cerca del figlio aveva chiesto alle donne di aiutarla. L’aiutò solo una pia donna che stava impastando il pane per la settimana le altre erano troppo impegnate nel farsi belle: malaritta chidda trizza ca lu venniri s’antrizza, biniritta chidda pasta ca lu venniri s’ampasta. 

 E poi lo sguardo del credente si posa sulla Madre di Dio e ne segue il passo: Maria ca passa pi na strata nova trova aperta la porta di un falegname e chiederà a lui notizie del figlio: Va iti sancu sancu e lu truvati. Il destino è compiuto. Maria trova la croce insanguinata e disperata rimprovera il figlio: Tu ronna mi ciamasti mancu mamma mi ricisti mi hai chiamata donna non mamma, non mi hai riconosciuta. E Lui sulla croce: Se mamma ti ciamava ra cruci mi disciuvava, se mamma ti ricia ra cruci mi ni caria. Se ti avessi chiamato mamma avrei preferito la mia umanità, ma ti ho chiamato Domina. Ti ho riconosciuta Signora. Le comunità iblee che festeggiano la Resurrezione di Cristo da Vittoria a Comiso a Modica sanno bene che a benedire il popolo di Dio è la Madonna. Cristo la accompagna ma è lei che benedice. 

A ruminica ri pasqua Gesù Cristu –n cielu acciana. Finalmente la vita riprende il posto della pena e il popolo esulta. Esulta e si lascia andare in un tripudio di Gioia. A Scicli si esulta per tutti gli Iblei. “L’Uomo vivo”. “U Gioia”, trionfa col suo popolo la vittoria della vita sulla morte, della luce sull’oscurità, della Gioia sul lutto. I giri del “Gioia” nella frastuono dei portatori dichiarano al mondo che Cristo è l’axis mundi attorno al quale gira l’umanità intera e sulla quale si posa lo sguardo dell’ “uomo vivo”. 

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 La passione vissuta nelle processioni, la passione vissuta nei racconti, la passione provata nelle rinunce però non è finita. È solo sospesa. Idoli, santi, simulacri, fercoli, inni, cortei, lamenti. Racconti e preghiere sono solo momentaneamente sopiti. Subentra un periodo di tregua, si festeggia San Giorgio, poi maggio è il mese della Madonna, della castità, della purezza, della privazione, dei voti, dei veti: una nuova quaresima. Tutto conduce a giugnu e giugnettu i mesi della passione del corpo del popolo. 

I mesi della passione in terra dell’uomo che lavora fino allo sfinimento. Dalla raccolta che sfamerà l’intera comunità dipenderà l’andamento di tutto l’anno. Il momento più delicato dell’anno lavorativo insomma, in cui non è detto che il raccolto sia buono. Non è un caso che in questo periodo i racconti legati al lavoro nei campi siano gli stessi racconti della passione di Pasqua. Tornano le storie già narrate: sui campi di lavoro si sente il racconto del grande terremoto, la storia di San Giuseppe, a passiu o Signuri. 

La mietitura diventa la passione dell’uomo in terra. E in questa passione rivissuta risuona Il Canto della Messe raccolto da Serafino Amabile Guastella che registra la rivolta dei contadini contro le maestranze: è di nuovo come nelle “parti” del Carnevale. I contadini tornano ad avere facoltà di schernire tutti a cominciare dalle maestranze, lu zappuni nun è fauci, a li mastri pugni e cauci, i nobili, peni ranni ha lu craparu, la mugghieri c’arrubbaru, c’arrubbaru la mugghieri, pugni e cauci ai cavailieri, i prelati, e li tenci hanu li spini, lampi e trona a li parrini, i dottori e i farmacisti nun su tazzi li piccieri lu spizziali mancia e seri, le donne: la vitedda nun è vacca, nun c’è donna senza tacca e infine l’uomo stesso, senza tacca nun c’è donna nun c’è uomu senza corna.

Il canto della Messe si conclude con una grande verità: Turuttutu, turuttutu, quattru scuti -n puorcu fu, -n puorcu fu quattru scuti, poveri e ricchi siemu tutti curnuti.  A farci tutti cornuti, a tradirci tutti, è la vita che finisce con la morte prendendosi gioco di noi e delle nostre speranze, infrangendoci sogni e spezzando le nostre alleanze. Ma la comunità a lavoro raccoglie a piene mani tutta la forza che ha, tutto il coraggio che sa e si ricongiunge ancora una volta in un grido finale, un grido che si alza nel silenzio dell’altopiano: “Viva Maria!” riconoscendo alla Madonna il primato del suo ruolo di Signora che ha conquistato con la fatica del dolore.

Se nun era pi Maria, la gran Signura tutti forrumu muorti ri tannu a – r’ora.  La Madonna interviene a salvare i suoi figli dall’ira del Cristo che con un terremoto li vuole spazzare via in un momento e poi la Madonna protagonista della Pasqua di Resurrezione, Cristo la riconosce Domina, Signora ed è lei a benedire la gente il giorno di Pasqua e poi il grido liberatorio sui campi di lavoro: Viva Maria. Si chiude così il periodo della mietitura. La comunità scivola adesso nel suo lento incedere incontro alla nuova Pasqua passando per quelle festività che sono altre quaresime, la commemorazione dei defunti, e verso altre rinascite, il Natale. 

Una stagione rincorsa dalla successiva ripresentava non solo le stesse incognite ma soprattutto le stesse certezze. Il “tempo” dell’anno poteva iniziare così, da qualunque momento, e in qualsiasi caso ritornavano le stesse dinamiche a dare conferme e speranze: un girotondo di detti, cunta, e canti di lavoro. Non è una minestra riscaldata però. È al contrario la storia della comunità che riconferma ogni Carnevale, ogni San Giuseppe, ogni Pasqua, ogni giugno e giugnettu le sue dinamiche, le sue lotte per la sopravvivenza dell’individuo nella comunità. 

Il suo racconto altro non è che un modo per rinsaldare legami e rinforzare la speranza che, nonostante tutto, tutto torna. E tutto resta uguale a se stesso. Anche la vita, anche le relazioni in uno scorrere dell’esistenza segnato da un fluire che sembrava procedere in direzione circolare assicurando a chi lo viveva la speranza del ritorno, la speranza della vittoria della vita sulla morte, la memoria del tornare ad esistere nascendo, morendo e rinascendo.  


 

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(*) Studiosa di tradizioni popolari. PhD. Socia Prua.

https://www.associazioneprua.it/socia-marcella-burderi/

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