13 febbraio, 2022

Elezione diretta in Sicilia. Parodia di una corrida.

 


L’elezione diretta è ancora un valore ?

di Luigi Sanlorenzo (*)


Le più importanti rivoluzioni nel governo degli Enti Locali sono state negli anni ‘90 il riconoscimento dell’unicità dei territori con l’introduzione degli statuti locali  e dell’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti di Regione,  per garantire la stabilità degli esecutivi e l’individuazione delle responsabilità e dei risultati da misurare  al termine dei mandati elettivi per un significativo periodo di cinque anni.

Si archiviava definitivamente in quegli anni la lunga stagione che aveva visto per decenni giunte, sindaci e presidenti come “re travicelli” che duravano lo spazio di un mattino perché espressione di partiti che  anteponevano le ragioni dell’appartenenza al perseguimento del Bene Comune.

Per alcuni anni il nuovo modello ha prodotto gli effetti sperati, riconducendo ai primi cittadini la responsabilità di risultati amministrativi, della scelta dei collaboratori, della rotazione dei dirigenti,  degli equilibri di bilancio, disegnando ancora una volta due o tre Italie profondamente diverse.

In molti casi la riforma ha portato nei municipi e nelle regioni anche persone esterne alla politica ma apprezzate a motivo delle proprie storie personali, professionali o di impegno sociale.

 E’ oggi sotto gli occhi di tutti quanto in Sicilia quella riforma mostri già le crepe che ne stanno progressivamente indebolendo il valore, generando un campionario di vari “uomini soli al comando”

Alcune profonde contraddizioni si manifestano ormai con un ritmo inquietante e lasciano i cittadini profondamente delusi sul piano dei risultati e sempre più lontani dalla politica in senso lato.

Con la non lieve differenza che tra quegli stessi cittadini la maggioranza è portatrice di stringenti necessità   primarie  e  paga l’alto prezzo della carenza di servizi essenziali che dovrebbero essere garantiti in base al principio costituzionale della sussidiarietà. Quell’elemento fondante del nostro patto di cittadinanza  che stabilisce che a dare le risposte sia il livello istituzionale più vicino al portatore del bisogno sociale, economico, educativo, sanitario, di sicurezza, di legalità, di fiducia nel futuro.

Ora, come in un ultimo tragico tercio,  in Sicilia la stagione delle autonomie locali sembra ormai tramontata a motivo dell’incapacità di molti primi cittadini di razionalizzare la spesa, a fronte dei minori trasferimenti da parte dello Stato, e di ispirare la propria azione istituzionale ai principi di efficienza, efficacia ed economicità della macchina amministrativa anche attraverso provvedimenti impopolari. 

Principi che già nel 1993 il Decreto Cassese indicava come l’alveo della strada maestra su cui poi avrebbero dovuto camminare le Riforme della Pubblica Amministrazione locale,  chiamata a confrontarsi non più con cittadini sudditi ma con cittadini, che ancor più  che utenti o clienti, oggi hanno la consapevolezza di considerarsi veri e propri azionisti,  con il pieno diritto a rivendicare risultati tangibili e misurabili.

Per tale ragione la riforma concesse a sindaci e a presidenti  margini molto ampi di autonomia decisionale non più soggetta al parere preventivo e vincolante  da parte del Segretario Comunale (a quel tempo funzionario del Ministero dell’interno)  e ai successivi controlli dei Comitato Regionali di Contro (CO.RE.CO), figure e strutture figlie della concezione centralistica dello Stato, definitivamente superata in anni più recenti dalla modifica del Titolo Quinto della Costituzione che ha, piuttosto,  stabilito la pari rilevanza di tutti gli enti, Stato compreso. 

In sintesi si è trattato di una grande investimento fiduciario sulla capacità dei territori di autogovernarsi, assumendo ovviamente la conseguente responsabilità di ciò nei confronti degli amministrati.

Ad oggi in Sicilia tale fiducia appare con tutta evidenza mal riposta. In molte circostanze i primi cittadini hanno preferito guardare al proprio futuro personale e non hanno utilizzato al meglio l’enorme potere di cui dispongono per bonificare da sprechi e da privilegi la rispettive macchine amministrative e la sconfinata e sempre più putrida palude delle Aziende partecipate, moltiplicatesi a dismisura e diventate i buchi neri della finanza locale nonché estremo rifugio di politici trombati o di anziani dirigenti dalla sette vite e dalle generose remunerazioni. 

Salvo poi a stendere, come nel passato,  la mano verso lo Stato  e a gravare con un’imposizione locale mai registrata prima sui redditi di una classe media sempre più impoverita sul piano finanziario e, sovente, della dignità nonchè esclusa da ogni detrazione o beneficio compensativo.

Piuttosto che mettere  mano al disboscamento necessario molti sindaci e presidenti si sono distinti per incrementare la crescita di universi paralleli in cui con molta disinvoltura sono rimasti intatti clientele, disavanzi, criteri di scelta della dirigenza non certo orientata da quei criteri manageriali che la contemporaneità richiede e con cui si risanano le città in ogni parte del mondo.

Nella scelta di Assessori e Consulenti, apparentemente non più imposti dai partiti – elemento che i medesimi non hanno ancora digerito – si assiste ad una vasta gamma di comportamenti che va dalla scelta di persone di area (che riporta la questione alle dinamiche di appartenenza del passato)  a quella, ad effetto,  di individualità più rispondenti a criteri mediatici che ad elementi di effettiva competenza ed esperienza nel ramo, certificata da qualcosa in più che un semplice, talvolta immaginifico, curriculum vitae, corredato ovviamente da immancabili patenti di antimafia militante. Salvo clamorose sviste o imbarazzanti condanne.

 E’ sempre più frequente il caso di eclatanti fallimenti di singoli assessori che, nonostante i danni prodotti non solo sul piano politico ma anche su quello erariale, sono svaniti nel nulla senza che fosse richiamata la responsabilità di chi li aveva, in piena e legittima libertà, scelti e nominati.

E’ il caso di città che hanno visto scomparire nel nulla in un anno un numero rilevante di assessori  evidentemente inadeguati senza che il sindaco ola sindaca   facessero la doverosa autocritica e chiedesse scusa ai cittadini per le proprie scelte errate che addirittura sembra voler reiterare.

Nessuno rimpiange sindaci e presidenti ostaggi dei partiti,  ma sia consentito il ragionevole dubbio che il processo di rinnovamento sia ampiamente rimasto nel guado e che ciò non può essere mistificato dall’attribuzione allo stato centrale, diventato il capro espiatorio di tutte le inefficienze e delle incrostazioni locali, di ogni infame vessazione.

Quanto sta accadendo in queste settimane in merito alle elezioni comunali di maggio a Palermo, connesse in modo inestricabile alle successive regionali in autunno,  è la plastica dimostrazione della conclusione abolizione di fatto di quella stagione in cui si affermava con forza che "il sindaco di Palermo lo scelgono i cittadini e non le segreterie romane." 

Sembra passato un secolo da allora.

Nelle prime schermaglie delle possibili candidature, più che ad elaborare un nuovo progetto di cui la Città ha un'urgenza mai sperimentata, si pensa a scimmiottare alleanze nazionali, governi "Ursula", maggioranze "Draghi" quasi a  fare della consultazione più vicina al sentiment ed ai bisogni di un territorio, un terreno di "prove di forza" di "laboratori politici" tanto cari alla politica siciliana,  quanto fallimentari.

Ci si chiede, allora, dove siano le migliaia di cittadini che durante le scorse consiliature e legislature hanno puntato il dito, hanno criticato aspramente politiche inefficienti ed inefficaci, hanno ululato contro esponenti poco qualificati e, spesso,  del tutto inadeguati.

La risposta potrebbe essere rintracciata nel civismo, se quest'ultimo non avesse dimostrato la propria ambiguità insieme all'inesperienza e all'avventurismo  di molti esponenti, con il successivo dissolvimento della loro autonomia nel corso delle dinamiche trasformistiche delle aule consiliari.  Forse occorre inventarne uno più autentico ed originale.

E' inoltre tramontata anche l'era delle "primarie" che, almeno nel campo delle Sinistra, intendevano ristabilire un rapporto diretto tra i cittadini e il candidato sindaco. Dove esse  sono state celebrate, si sono spesso trasformate in contenziosi di ogni genere e, spesso annullate, dando così ancora una volta ai partiti la facoltà di scelta.

Il voto  torna così ad essere o "ideologico" nel vuoto delle ideologie o  di "appartenenza" adorante nei confronti di questo o di quel leader in sedicesimo o, ancora,  legato ad antiche e moderne logiche clientelari, sovente ereditarie,  di piccolo e grande cabotaggio.

Ne risulta che quanti non appartengono ad alcuna di queste categorie, preferiscono rifugiarsi nell'astensione, un gesto che vuole essere di protesta mentre ricorda invece il curioso e noto  dispetto che un marito volle fare alla sfortunata consorte.

E' possibile riportare queste decine di migliaia di persone  a tornare a votare, mantenendo inalterate le abusate liturgie della politica a cui oggi si aggiunge la moda, perchè tale essa è in assenza di contenuti politici di spessore, di agitare il pannicello rosa di una candidatura al femminile, come gli ultimi  toreri  fanno per eccitare uno svogliato toro, sventolando la rossa muleta nell'errato convincimento che l'animale, notoriamente privo dei coni oculari,  distingua i colori ? 

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Nella corrida il matador ha ai propri ordini una squadra (cuadrilla) di 5 uomini: i peones o banderilleros (toreri a piedi) e i picadores (toreri a cavallo);  nella prima fase i peones e lo stesso matador incitano il toro con la cappa  per insegnargli a caricare in modo ripetitivo, quindi il matador lo conduce all’incontro con il picador, che, in più riprese, infligge nella protuberanza muscolosa situata dietro il collo del toro (morillo) uno o più colpi di pica con una punta in metallo munita di arresto per indebolirlo. 

Nella seconda fase i banderilleros a turno o lo stesso matador vanno incontro al toro conficcandogli sul dorso una banderilla (asticciola di legno coperta di carta colorata, con un rampone sulla punta). 

Infine, il matador esegue una serie di pericolosi passaggi con la muleta  rossa sorretta da un’asta di legno e la spada (estoque); quando ritiene che il toro abbia esaurito le sue forze, fa in modo che questo si disponga a zampe riunite e, con l’ultima carica, la muleta nella mano sinistra, lo uccide, conficcandogli la spada fra le scapole con la mano destra.

Così scriveva Ernest Hemingway nel saggio "Morte nel pomeriggio"pubblicato esattamente 90 anni fa, sulle cerimonie e le tradizioni della tauromachia della Spagna.

«Cruz: la croce. Il punto in cui la linea della cima delle scapole del toro incrocia la spina dorsale. Il punto in cui la spada dovrebbe penetrare se il matador uccide alla perfezione. La 'cruz' è anche l'incrocio del braccio che tiene la spada col braccio che regge la 'muleta' abbassata quando il matador dà il colpo. Si dice che incrocia bene quando la sinistra manovra il panno in modo da muoverlo lentamente e bene, accentuando l'incrocio fatto con l'altro braccio e così liberandosi del toro mentre l'uomo segue la spada. Fernando Gomez, padre dei Gallos, pare sia stato il primo a notare che il torero che non incrocia in questo modo appartiene subito al diavolo. Un altro detto è quello che la prima volta che non si incrocia, significa il primo viaggio in ospedale»

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Parodistiche corride si preparano in questi giorni, più simili in verità a meno epiche batracomiomachie.

In esse il torero appare solo come una stolida comparsa da esibire tra lustrini farlocchi  mentre i veri protagonisti sono i tanti peones, banderilleros  e i picadores che ne manovrano i gesti e le movenze in vista dell'ennesima finzione di una vera lotta che di fatto, nell'ultimo tercio, quello della morte, vede il vero sacrificio non del  toro incolpevole, ma del pubblico che stolidamente applaude un simulacro di eroe vittorioso.

Ciò che resta in Sicilia della rivoluzione incompiuta dell’elezione diretta sembra essere ormai il delirio di onnipotenza dei partiti che contraddistingue quanti in essi forse non hanno compreso quanto il mondo sia cambiato.

A fare la differenza tra i territori non è più la collocazione geografica, né i fenomeni sociali che endemicamente vi allignano nè le risorse, a volte straordinarie ed uniche, di cui dispongono, quanto, invece, la capacità di comprendere che  "a chi molto è dato, molto è richiesto”  soprattutto quando i tempi della storia e della società pongono davanti a problemi inediti che non possono più essere affrontati con ricette che disinvoltamente venivano applicate del secolo scorso.

Costruire il futuro che tutti speriamo diverso e migliore, passa attraverso il sereno ritiro di chi, ancora oggi,  nei partiti si ritiene insostituibile mosca cocchiera e per ciò stesso impedisce a nuove individualità politiche di affermarsi e di esprimere la propria capacità di seppellire definitivamente il passato.

La responsabilità di questo inevitabile processo di rinnovamento deve essere maggiore per quei soggetti politici che più hanno sedimentato nel tempo la cultura di governo. Mancare a questo appuntamento consegnerà la Sicilia, sempre più stretta da emergenza e bisogni di ogni genere, come un toro al macello a forze populiste o dalla dubbia affidabilità democratica che sempre emergono quando la Politica decide di non sottoporre se stessa ad impietosi ma necessari processi di rinnovamento culturale che ne scuotano  le fondamenta e ne atterrino gli stagionati e patetici feticci, prima che giungano le fatidiche "cinque della sera".


Federico Garcia Lorca,  Lamento per Ignazio Sanchez Mejias, 1935


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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA

https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/





3 commenti:

  1. Non comprendo come mai, dopo aver detto di tutto e di più della classe politica locale, hai poi minimizzato il fenomeno dell'astensione come un dispetto nei riguardi della sfortunata consorte. A me, invece, che appartengo alla categoria degli astensionisti, sembra tutto il contrario e anch'io ti propongo una metafora. Se una banda di ladri ti chiede, a fronte di tanti soldi, di fargli da palo per una rapina e tu, che hai dignità ed etica, rinunci a tale incarico, cosa sei? Uno che protesta? Uno che vuole fare dispetto alla moglie ma che in realtà lo fa a se stesso? No. Sei una persona responsabile che non vuole mischiare sia pur minimamente il proprio nome a quella banda di ladri e si rifiuta di condividervi destini, magari economicamente rilevanti, ma olezzanti. Viva l'astensione.

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    1. Sai bene che non concordo. Mi viene impedito dalla mia formazione e dal dovere di tutelare la democrazia e la libertà che se lasciata ai pochi votanti core gravissimi rischi. E, poi, puoi anche astenerti ma prima o poi la cattiva politica, che non hai voluto osteggiare anche con un singolo voto disperato, ti arriva ugualmente fino dentro casa. Buona domenica.

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    2. In genere, se si è a conoscenza di un misfatto, non ci si limita a non voler partecipare, ma a denunciarlo possibilmente con prove e fatti circostanziati

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