04 novembre, 2021

Il centenario che aiuta l'Italia al bivio del proprio destino




Il viaggio del Milite Ignoto verso all'Altare della Patria
 2 novembre 1921


Festeggiare la Vittoria 

di Luigi Sanlorenzo 

Chi si trovi a salire la prima rampa dello scalone marmoreo che porta al piano nobile del Convitto Nazionale di Palermo, un tempo parte del Collegio Massimo dei Gesuiti, non potrà non notare una targa bronzea con il testo del noto bollettino firmato Armando Diaz che annuncia, dopo la disfatta di Caporetto, la tanto sospirata vittoria dell’ Italia il 4 novembre del 1918. 

“La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco slovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. 

Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni.I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.” Firmato Diaz. 

Quella chiusura fu per qualche bambino del tempo un destino, visto che, nell’ Italia per lo più analfabeta del tempo, egli portò per sempre come nome di battesimo “Firmato”; andò meglio alle bambine chiamate a lungo Vittoria, come la mia prima maestra. 

Si chiudeva così la prima delle più sanguinose guerre che l’Umanità ricordi e che aveva coinvolto tutti i continenti, il primo conflitto globale. Con i colpi di pistola sparati a Sarajevo, si chiudeva il sipario sull’Europa del Ballo Excelsior e declinava quella fiducia nel futuro che aveva caratterizzato l’industrializzazione e il progresso scientifico e sociale. 

Tramontava così definitivamente il lungo XIX secolo e ne iniziava uno breve, come fu definito da Eric Hobsbawn, che avrebbe avuto nel crollo del Muro di Berlino, la propria sigla finale. Durante il conflitto era comparsa un’inedita arma di distruzione di massa l’ iprite, gas venefico dall’odore di mostarda, che prese il nome della cittadina di Ypres in cui era stato impiegato il 12 luglio del 1917 dall’Impero austro-ungarico sterminando militari e civili; la cifra complessiva dell’intero conflitto, sedici milioni di morti (e venti di feriti) non comprendeva soltanto i combattenti ma anche migliaia di soldati fucilati per aver tentato la diserzione, stressati più che dalla paura, dalla tensione dell’attesa durata intere settimane, prima di ricevere l’ordine di uscire dalle trincee e di andare all’attacco. 

Nel corso della guerra scomparvero imperi millenari quali quello russo e quello ottomano e sorsero nuove nazioni che a loro volta sarebbe poi state ridisegnate durante e dopo il successivo conflitto mondiale. 

Nacque infine quell’ Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che tanta parte del nuovo secolo avrebbe condizionato, segnando una delle più grandi rivoluzioni socio/antropologiche della Storia e generando tutte le possibili forme di consenso e di contrasto, non ultima la nascita dei fascismi europei. Per la neonata Italia, tuttavia, la prima guerra mondiale fu il terreno di prova dell’unità nazionale. 

Per la prima volta italiani provenienti dalle regioni più diverse e nella generalità dei casi abituati ad usare i dialetti, si trovarono vestiti dello stesso ruvido panno grigio verde e comandati da ufficiali che parlavano la lingua italiana, da molti compresa a stento. Contadini e pescatori siciliani e calabresi scoprirono l’esistenza delle Alpi e quanto fosse duro trascorrervi l’inverno nelle trincee gelate dove, dando la precedenza ai materiali bellici, giungeva – e non tutti i giorni - un rancio a dorso di mulo. 

Valligiani lombardi e piemontesi conobbero per la prima volta quegli scurissimi meridionali, la cui statura era ancora inferiore alla media italiana, già molto più bassa rispetto ad oggi, tanto incomprensibili nella discussione quanto coraggiosi all’attacco e generosi nel cameratismo. Milioni di soldati che ne sconoscevano l’esistenza scoprirono di combattere per Trento e per Trieste, alla cui conquista la retorica interventista aveva assegnato il ruolo di completamento del Risorgimento. 

L’Italia dimostrò subito di non essere all’altezza del compito: troppo ottocentesco il proprio armamento, ancora di stampo tradizionale le strategie militari, ottusi e felloni molti dei generali sabaudi che condussero poi alla disfatta di Caporetto, rischiando di distruggere l’integrità nazionale appena, e con molti enormi problemi, realizzata. 

Ci salvarono il Piave, che fece da barriera al dilagare da est delle truppe austro-ungariche e la prima applicazione della cosiddetta “difesa elastica” caratterizzata da pronti ed organizzati contrattacchi del Regio Esercito che aveva deciso di concedere più autonomia agli ufficiali sul campo, con conseguente aumento del morale generale. Altro fenomeno che concorse alla vittoria difensiva va ricercato nel fatto che il Comando Supremo si limitò al ruolo di "osservatore" riducendo al minimo la sua influenza con circolari e ordini rivolti alla 4ª Armata, cosicché venne eliminato il disastroso fenomeno di "burocratizzazione" che era stato una delle cause della sconfitta di Caporetto. Già in quella occasione si comprese che i problemi del Paese, in pace come in guerra, erano la burocrazia, la cecità amministrativa e il centralismo. Purtroppo, a guerra finita, non si ebbero il tempo e la lucidità per fare abbastanza tesoro di tale esperienza. Quegli anni di guerra coincisero con una prima fase di liberazione delle donne, chiamate in forza a prendere il posto di padri, mariti e figli ( nell’ultimo anno era stata chiamata alle armi anche la classe del 1899, cioè i giovani appena diciottenni) nelle fabbriche, nei servizi civici, alla guida dei tram. E quando qualcuno pretese di rimandarle tra i fornelli, quelle stesse donne erano già diventate cittadine, anche se dovettero poi aspettare la fine del fascismo per rivendicare di non essere solo madri e mogli, come il regime aveva voluto. 

Quando quel 4 novembre la guerra finì, l’Italia era cambiata profondamente. Si era lasciata alle spalle l’infanzia del risorgimento ed entrava, ferita e mutilata, nell’età adulta di una nazione, in cui avrebbe potuto compiere scelte diverse che le avrebbero evitato altre tragedie. Per una vittoria giudicata dagli alleati come “afferrata per i capelli” il Paese, pur vittorioso, venne umiliato nelle proprie pretese al tavolo della pace e dovette contentarsi di Trento e di Trieste, rinunciando all’Istria e a Fiume. Gli stessi danni di guerra, ottenuti in misura ridotta al tavolo delle trattative, non bastarono a sollevare le città e le campagne dall’immensa miseria in cui la guerra le aveva precipitate. 

Da quel clima sociale sarebbe nato il senso della vittoria tradita e sorta presto la chimera del fascismo che bloccò il Paese e tenne in vita una dinastia da operetta, mentre in Europa nascevano, con destini e nature diverse, le repubbliche del XX secolo. E’ trascorso oltre mezzo secolo da quando ogni mattina e per 13 anni, salendo le scale del Convitto Nazionale, mi trovavo davanti le parole di quel bollettino che ormai avevo imparato a memoria. 

Ma più di tutte mi colpisce ancora oggi la frase “inferiore per numeri e mezzi” che ancora sembra rimanere, scolpita nel bronzo, come una sentenza di minorità agli occhi dell’Europa e dalla quale non riusciamo ad affrancarci a motivo della nostra incapacità di rinnovare una classe dirigente troppe volte riciclata e compromessa. Forse un giorno accanto a quella lapide pomposa ne sorgerà un’ altra a ricordo di un’ Italia finalmente adulta e responsabile in grado di andare a testa alta per aver vinto, stavolta veramente e per sempre, la battaglia per la propria dignità di cui Maria Bergamas, la madre che un secolo fa scelse tra centinaia di bare senza nome il feretro del Milite Ignoto e di cui questa sera la RAI riproporrà il ricordo, resterà per sempre il simbolo più vero e più umano.

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Questo articolo è dedicato al caro ricordo del Sergente Giovanni Battista Amodei, Cavaliere di Vittorio Veneto (1888-1974) nipote del primo eroe del Risorgimento siciliano, padre di un granatiere caduto nella Campagna di Grecia e nonno amatissimo, i cui racconti di trincea furono per me bambino l’inizio del grande amore per la Storia dove si muovono le vicende di donne e uomini di ogni livello e caratura.

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