Il viaggio del Milite Ignoto verso all'Altare della Patria 2 novembre 1921 |
Festeggiare la Vittoria
di Luigi Sanlorenzo
Chi si trovi a salire la prima rampa
dello scalone marmoreo che porta al piano nobile del Convitto Nazionale di
Palermo, un tempo parte del Collegio Massimo dei Gesuiti, non potrà non notare
una targa bronzea con il testo del noto bollettino firmato Armando Diaz che
annuncia, dopo la disfatta di Caporetto, la tanto sospirata vittoria dell’
Italia il 4 novembre del 1918.
“La guerra contro l'Austria-Ungheria che, sotto
l'alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l'Esercito Italiano, inferiore per
numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace
valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi, è vinta.La gigantesca
battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre ed alla quale prendevano parte
cinquantuno divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco
slovacca ed un reggimento americano, contro settantatré divisioni
austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX Corpo
d'Armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del
Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della VII armata e ad oriente da
quelle della I, VI e IV, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte
avversaria. Dal Brenta al Torre l'irresistibile slancio della XII, della VIII,
della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il
nemico fuggente.
Nella pianura, S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla
testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare sulle posizioni da
essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L'Esercito
Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell'accanita
resistenza dei primi giorni e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime
di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi.
Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri con interi
stati maggiori e non meno di cinquemila cannoni.I resti di quello che fu uno dei
più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli
che avevano discese con orgogliosa sicurezza.” Firmato Diaz.
Quella chiusura fu
per qualche bambino del tempo un destino, visto che, nell’ Italia per lo più
analfabeta del tempo, egli portò per sempre come nome di battesimo “Firmato”;
andò meglio alle bambine chiamate a lungo Vittoria, come la mia prima maestra.
Si chiudeva così la prima delle più sanguinose guerre che l’Umanità ricordi e
che aveva coinvolto tutti i continenti, il primo conflitto globale. Con i colpi
di pistola sparati a Sarajevo, si chiudeva il sipario sull’Europa del Ballo
Excelsior e declinava quella fiducia nel futuro che aveva caratterizzato
l’industrializzazione e il progresso scientifico e sociale.
Tramontava così
definitivamente il lungo XIX secolo e ne iniziava uno breve, come fu definito da
Eric Hobsbawn, che avrebbe avuto nel crollo del Muro di Berlino, la propria
sigla finale. Durante il conflitto era comparsa un’inedita arma di distruzione
di massa l’ iprite, gas venefico dall’odore di mostarda, che prese il nome della
cittadina di Ypres in cui era stato impiegato il 12 luglio del 1917 dall’Impero
austro-ungarico sterminando militari e civili; la cifra complessiva dell’intero
conflitto, sedici milioni di morti (e venti di feriti) non comprendeva soltanto
i combattenti ma anche migliaia di soldati fucilati per aver tentato la
diserzione, stressati più che dalla paura, dalla tensione dell’attesa durata
intere settimane, prima di ricevere l’ordine di uscire dalle trincee e di andare
all’attacco.
Nel corso della guerra scomparvero imperi millenari quali quello
russo e quello ottomano e sorsero nuove nazioni che a loro volta sarebbe poi
state ridisegnate durante e dopo il successivo conflitto mondiale.
Nacque infine
quell’ Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che tanta parte del nuovo
secolo avrebbe condizionato, segnando una delle più grandi rivoluzioni
socio/antropologiche della Storia e generando tutte le possibili forme di
consenso e di contrasto, non ultima la nascita dei fascismi europei. Per la
neonata Italia, tuttavia, la prima guerra mondiale fu il terreno di prova
dell’unità nazionale.
Per la prima volta italiani provenienti dalle regioni più
diverse e nella generalità dei casi abituati ad usare i dialetti, si trovarono
vestiti dello stesso ruvido panno grigio verde e comandati da ufficiali che
parlavano la lingua italiana, da molti compresa a stento. Contadini e pescatori
siciliani e calabresi scoprirono l’esistenza delle Alpi e quanto fosse duro
trascorrervi l’inverno nelle trincee gelate dove, dando la precedenza ai
materiali bellici, giungeva – e non tutti i giorni - un rancio a dorso di mulo.
Valligiani lombardi e piemontesi conobbero per la prima volta quegli scurissimi
meridionali, la cui statura era ancora inferiore alla media italiana, già molto
più bassa rispetto ad oggi, tanto incomprensibili nella discussione quanto
coraggiosi all’attacco e generosi nel cameratismo. Milioni di soldati che ne
sconoscevano l’esistenza scoprirono di combattere per Trento e per Trieste, alla
cui conquista la retorica interventista aveva assegnato il ruolo di
completamento del Risorgimento.
L’Italia dimostrò subito di non essere
all’altezza del compito: troppo ottocentesco il proprio armamento, ancora di
stampo tradizionale le strategie militari, ottusi e felloni molti dei generali
sabaudi che condussero poi alla disfatta di Caporetto, rischiando di distruggere
l’integrità nazionale appena, e con molti enormi problemi, realizzata.
Ci
salvarono il Piave, che fece da barriera al dilagare da est delle truppe
austro-ungariche e la prima applicazione della cosiddetta “difesa elastica”
caratterizzata da pronti ed organizzati contrattacchi del Regio Esercito che
aveva deciso di concedere più autonomia agli ufficiali sul campo, con
conseguente aumento del morale generale. Altro fenomeno che concorse alla
vittoria difensiva va ricercato nel fatto che il Comando Supremo si limitò al
ruolo di "osservatore" riducendo al minimo la sua influenza con circolari e
ordini rivolti alla 4ª Armata, cosicché venne eliminato il disastroso fenomeno
di "burocratizzazione" che era stato una delle cause della sconfitta di
Caporetto. Già in quella occasione si comprese che i problemi del Paese, in pace
come in guerra, erano la burocrazia, la cecità amministrativa e il centralismo.
Purtroppo, a guerra finita, non si ebbero il tempo e la lucidità per fare
abbastanza tesoro di tale esperienza. Quegli anni di guerra coincisero con una
prima fase di liberazione delle donne, chiamate in forza a prendere il posto di
padri, mariti e figli ( nell’ultimo anno era stata chiamata alle armi anche la
classe del 1899, cioè i giovani appena diciottenni) nelle fabbriche, nei servizi
civici, alla guida dei tram. E quando qualcuno pretese di rimandarle tra i
fornelli, quelle stesse donne erano già diventate cittadine, anche se dovettero
poi aspettare la fine del fascismo per rivendicare di non essere solo madri e
mogli, come il regime aveva voluto.
Quando quel 4 novembre la guerra finì,
l’Italia era cambiata profondamente. Si era lasciata alle spalle l’infanzia del
risorgimento ed entrava, ferita e mutilata, nell’età adulta di una nazione, in
cui avrebbe potuto compiere scelte diverse che le avrebbero evitato altre
tragedie. Per una vittoria giudicata dagli alleati come “afferrata per i
capelli” il Paese, pur vittorioso, venne umiliato nelle proprie pretese al
tavolo della pace e dovette contentarsi di Trento e di Trieste, rinunciando
all’Istria e a Fiume. Gli stessi danni di guerra, ottenuti in misura ridotta al
tavolo delle trattative, non bastarono a sollevare le città e le campagne
dall’immensa miseria in cui la guerra le aveva precipitate.
Da quel clima
sociale sarebbe nato il senso della vittoria tradita e sorta presto la chimera
del fascismo che bloccò il Paese e tenne in vita una dinastia da operetta,
mentre in Europa nascevano, con destini e nature diverse, le repubbliche del XX
secolo. E’ trascorso oltre mezzo secolo da quando ogni mattina e per 13 anni,
salendo le scale del Convitto Nazionale, mi trovavo davanti le parole di quel
bollettino che ormai avevo imparato a memoria.
Ma più di tutte mi colpisce
ancora oggi la frase “inferiore per numeri e mezzi” che ancora sembra
rimanere, scolpita nel bronzo, come una sentenza di minorità agli occhi
dell’Europa e dalla quale non riusciamo ad affrancarci a motivo della nostra
incapacità di rinnovare una classe dirigente troppe volte riciclata e
compromessa. Forse un giorno accanto a quella lapide pomposa ne sorgerà un’
altra a ricordo di un’ Italia finalmente adulta e responsabile in grado di
andare a testa alta per aver vinto, stavolta veramente e per sempre, la
battaglia per la propria dignità di cui Maria Bergamas, la madre che un secolo
fa scelse tra centinaia di bare senza nome il feretro del Milite Ignoto e di cui
questa sera la RAI riproporrà il ricordo, resterà per sempre il simbolo più vero
e più umano.
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Questo articolo è dedicato al caro ricordo del
Sergente Giovanni Battista Amodei, Cavaliere di Vittorio Veneto (1888-1974)
nipote del primo eroe del Risorgimento siciliano, padre di un granatiere caduto
nella Campagna di Grecia e nonno amatissimo, i cui racconti di trincea furono
per me bambino l’inizio del grande amore per la Storia dove si muovono le
vicende di donne e uomini di ogni livello e caratura.
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