20 dicembre, 2021

Trent' anni fa la fine dell’ Unione Sovietica

 

Immagine dal sito wakeup news



Fu vera gloria ? Trent' anni fa la fine dell’ URSS

 di Luigi Sanlorenzo (*)

 

Il 25 dicembre 1991 la bandiera con la falce e il martello lasciava per sempre il pennone sulla cupola del Cremlino dove aveva sventolato per settant’anni. Si chiudeva per sempre un’era durante la quale il mondo era passato attraverso le più immani tragedie che l’Umanità abbia mai vissuto.

Al simbolo della più grande utopia della Storia dopo il Cristianesimo per decenni avevano guardato con speranza i popoli oppressi in ogni parte del mondo e, con crescente preoccupazione,  i paesi liberali dell’Occidente che pure, grazie al sacrificio di oltre venti milioni di soldati periti durante la seconda guerra mondiale, dovevano a quell’esperimento storico la propria vittoria sui fascismi europei che in Germania come in Italia e in Spagna avevano agitato il fantasma della Rivoluzione bolscevica per guadagnare il consenso dei ceti medi impoveriti e della grande borghesia in ansia per il proprio futuro.

 


Secondo lo storico e accademico britannico Robert Service “Cadeva nell'oblio uno Stato che aveva provocato tremori politici all'estero sin dalla sua creazione negli anni venti. Uno Stato i cui confini erano approssimativamente gli stessi di quelli dell'Impero russo e la cui popolazione abbracciava uno spropositato numero di nazionalità, religioni e concezioni del mondo. Uno Stato che aveva costruito una potente struttura industriale negli anni trenta e che aveva sconfitto la Germania nella seconda guerra mondiale. Uno Stato che diventò una superpotenza in grado di eguagliare gli Stati Uniti quanto a capacità militare alla fine degli anni settanta. Uno Stato il cui ordine politico ed economico aveva incarnato una categoria cruciale nel lessico del pensiero del XX secolo. Dagli inizi del 1992, questo Stato non esisteva più”

Tiziano Terzani scrisse “Mi perdo a pensare quant'è umanamente particolare questo momento storico dell'Unione Sovietica. Il sistema comunista, che per decenni ha determinato la vita di tutti, e spessissimo anche la loro morte, sta crollando. Ma d'un tratto è come se quel sistema fosse stato imposto da qualcuno venuto dallo spazio, come se nessuno quaggiù avesse contribuito a tenerlo in piedi. La corsa all'«io non c'ero e, se c'ero, ero una vittima» è pateticamente incominciata»”

 

Anni dopo, Michail Sergeevič Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica dal 1985 al 1991 e che quest’anno ha compiuto novant’anni,  dichiarò:  

L'occidente preferì trarre vantaggi immediati dalla situazione che si era creata con la fine dell'Unione Sovietica. Forse soltanto adesso in Europa e perfino negli Stati Uniti si comincia a capire che sarebbe stato utile agire in modo più lungimirante. Mi rammarico che un grande Paese con grandi potenzialità e risorse sia scomparso. La mia intenzione è sempre stata quella di riformarlo, non distruggerlo. Noi ci siamo brutalmente staccati dalla nostra storia recente, privando di significato la vita di milioni e milioni di persone, dei nostri nonni, dei nostri genitori, che hanno lavorato con onestà, credendo sinceramente in un felice futuro.

Sotto al tavolo, gli americani si stavano già sfregando le mani soddisfatti. Pensavano di essere i vincitori della Guerra fredda invece di riconoscere il nostro ruolo nel portarla a termine. Pensavano di essere a capo del mondo; non erano sinceramente interessati ad aiutare la Russia a diventare una democrazia stabile e forte. Pensavano a spartirsela. E hanno demolito la fiducia che avevamo costruito.”

 

Tuttavia le parole che scossero il mondo furono quelle profetiche di Giovanni Paolo II, che pure di  quell’evento era stato potente sostenitore,  che il primo maggio di quell’anno, riprendendo nell’ Enciclica Centesimus annus i temi espressi un secolo prima della Rerum Novarum di Leone XIII,  ebbe a scrivere:

“Il marxismo ha criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l'alienazione dell'esistenza umana. Certamente, questo rimprovero è basato su una concezione errata ed inadeguata dell'alienazione, che la fa derivare solo dalla sfera dei rapporti di produzione e di proprietà, cioè assegnandole un fondamento materialistico e, per di più, negando la legittimità e la positività delle relazioni di mercato anche nell'ambito che è loro proprio. Si finisce così con l'affermare che solo in una società di tipo collettivistico potrebbe essere eliminata l'alienazione. Ora, l'esperienza storica dei Paesi socialisti ha tristemente dimostrato che il collettivismo non sopprime l'alienazione, ma piuttosto l'accresce, aggiungendovi la penuria delle cose necessarie e l'inefficienza economica.

L'esperienza storica dell'Occidente, da parte sua, dimostra che, se l'analisi e la fondazione marxista dell'alienazione sono false, tuttavia l'alienazione con la perdita del senso autentico dell'esistenza è un fatto reale anche nelle società occidentali. Essa si verifica nel consumo, quando l'uomo è implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni, anziché essere aiutato a fare l'autentica e concreta esperienza della sua personalità. Essa si verifica anche nel lavoro, quando è organizzato in modo tale da «massimizzare» soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa che il lavoratore, mediante il proprio lavoro, si realizzi di più o di meno come uomo, a seconda che cresca la sua partecipazione in un'autentica comunità solidale, oppure cresca il suo isolamento in un complesso di relazioni di esasperata competitività e di reciproca estraniazione, nel quale egli è considerato solo come un mezzo, e non come un fine.

È necessario ricondurre il concetto di alienazione alla visione cristiana, ravvisando in esso l'inversione tra i mezzi e i fini: quando non riconosce il valore e la grandezza della persona in se stesso e nell'altro, l'uomo di fatto si priva della possibilità di fruire della propria umanità e di entrare in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli altri uomini per cui Dio lo ha creato. È, infatti, mediante il libero dono di sé che l'uomo diventa autenticamente se stesso, e questo dono è reso possibile dall'essenziale «capacità di trascendenza» della persona umana. L'uomo non può donare se stesso ad un progetto solo umano della realtà, ad un ideale astratto o a false utopie.

Egli, in quanto persona, può donare se stesso ad un'altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è l'autore del suo essere ed è l'unico che può pienamente accogliere il suo dono. È alienato l'uomo che rifiuta di trascendere se stesso e di vivere l'esperienza del dono di sé e della formazione di un'autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio. È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana.

Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società? È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile?

La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d'impresa”, o di “economia di mercato”, o semplicemente di “economia libera”. 

Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa.

La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C'è anzi il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all'insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.”

https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_01051991_centesimus-annus.html

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Cosa resta oggi di quel mondo ? Un’istantanea della fase attuale è stata scattata da Mara Morini, docente di  Politics of Eastern Europe e Scienza politica all’Università di Genova che dal 2000 svolge attività di ricerca e pubblica articoli e libri sulle dinamiche politiche interne ed esterne della Russia postcomunista. È stata osservatrice elettorale dell’OSCE-ODIHR alle elezioni parlamentari (2003) e presidenziali (2018) a San Pietroburgo, Murmansk e Kazan; Visiting Professor all’Accademia Diplomatica del Ministero degli Esteri della Federazione russa e alla High School of Economics di Mosca. Il suo ultimo libro è “La Russia di Putin” (Il Mulino, 2020)

Ecco parte del testo pubblicato dalla rivista “Il Mulino” di oggi:

"Nel luglio 2021 dalle pagine della rivista «Russia in Global Affairs», il novantenne Gorbaciov ha definito la Perestrojka una lezione, ancora oggi, per la Russia e per il mondo. In particolare, il protagonista del «nuovo pensiero», declinato nella Perestrojka (ricostruzione), nella glasnost’ (libertà di espressione, trasparenza) e nella uskorenie (accelerazione), afferma che nonostante le «illusioni e gli errori commessi” le riforme erano «una giusta causa», anche se personalmente avrebbe fatto «molte cose differentemente».

Difendendosi dall’accusa di aver tradito il socialismo «per ingenuità e per l’assenza di un chiaro piano di attuazione delle riforme», Gorbaciov accusa gli oppositori per non aver compreso «l’atmosfera psicologica e morale che dominava la società sovietica» alla fine degli anni Ottanta. Il popolo voleva il cambiamento e la giusta direzione era «l’emancipazione dell’essere umano», artefice del proprio destino attraverso «un’energia creativa che il popolo sovietico poteva esprimere con una maggiore libertà».

Gorbaciov, tuttavia, sostiene che i cambiamenti radicali nell’Unione Sovietica potevano avvenire «solamente dalla leadership del Pcus perché la società non era pronta per organizzarsi e produrre leader capaci di assumere responsabilità per il Paese». Una rivoluzione dall’alto, quindi, nella quale Gorbaciov ammette di essersi fidato di alcuni colleghi di partito che si professavano favorevoli alla democrazia, ma, in realtà, erano pronti a tradirlo, «sacrificando la nuova Unione per il desiderio di governare al Cremlino […] indebolendo la posizione del presidente dell’Unione Sovietica» e avviando «la disgregazione dell’Urss». 

Con orgoglio Gorbaciov sottolinea l’importanza delle riforme con un unico rammarico/errore: il ritardo delle riforme economiche, del rinnovamento del partito-Stato e del decentramento. Nella parte conclusiva della sua memoria, Gorbaciov critica poi l’amministrazione presidenziale americana perché ha presentato la fine della Guerra fredda e il crollo dell’Urss come una vittoria dell’Occidente, una questione che tuttora plasma la natura dei rapporti tra gli Stati Uniti di Joe Biden e la Russia di Putin: «Era una vittoria di entrambi, il trionfalismo produce brutti consigli e se non ci fosse stato questo fraintendimento probabilmente sarebbero cambiate anche le fondamenta della nuova politica internazionale».

E così, uno dei grandi eventi epocali che hanno segnato la storia dell’umanità continua ad animare il dibattito politico e accademico. Dall’interpretazione storica degli eventi si è passati all’analisi dell’impatto di questo mutamento politico ed economico nella Russia contemporanea in termini di continuità/discontinuità con il passato. Sino a che punto il passato è capace di plasmare ancora le azioni del presente? Se il passato non passa, ma costituisce ancora un fattore determinante nella lotta e nell’auto perpetuazione del potere, come è stato reinterpretato nelle dinamiche politiche del presente? 

Nella Russia di Putin la cosiddetta politica della memoria è stata una strategia di consenso adottata per rinsaldare il rapporto con l’opinione pubblica, rinvigorire l’orgoglio patriottico e orientare le scelte del futuro. Non è un caso che in questi giorni la Duma abbia approvato in terza lettura la legge contro il revisionismo storico in base alla quale è reato equiparare gli scopi e le azioni dell’Urss a quelle della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale e negare il ruolo decisivo dell’Urss nella sconfitta del nazismo.

Ma,  al di là delle eredità istituzionali del vecchio regime (la verticale del potere, il ruolo di Russia Unita, il rapporto centro e periferia ecc.), quale memoria collettiva di quei drammatici eventi si è formata nella società civile?

In occasione del trentesimo anniversario del golpe del 19 agosto in Unione Sovietica, l'istituto di ricerca indipendente, Levada Center, ha pubblicato i risultati di un’inchiesta sociologica che rileva l’impatto emotivo di quei giorni nel popolo russo.

Come accade spesso in molti sondaggi russi, la «questione generazionale» meglio discrimina la valutazione degli intervistati sul tema. In generale, il 43% del campione giudica tragici gli episodi del 1991 con «conseguenze fatali per il Paese e per il popolo», mentre il 40% sostiene che è stata una mera lotta per il potere. Il 46% tra gli over 40 afferma che il tentativo di golpe è stato «un evento funesto per il Paese», il 42% tra i 25 e i 39 anni crede che si tratti di un conflitto tra le varie fazioni mentre il 20% tra i 18 e 24 anni pensa che rappresenti «la vittoria di una rivoluzione democratica». 

Un altro aspetto interessante di questa ricerca è che ben il 66% degli intervistati non parteggia per nessuno degli attori coinvolti nel golpe: solo il 10% degli intervistati, prevalentemente tra i giovani, è a favore dei democratici eltsiniani, il 13% per i golpisti e l’11% ha difficoltà a rispondere.

La conoscenza degli avvenimenti del 1991 è avvenuta attraverso il cinema e la televisione (38%), la presenza agli eventi (18%), i parenti e i conoscenti (13%), la scuola (11%) e Internet (9%). Rispetto ai sondaggi degli anni precedenti è aumentata la percentuale di coloro che imputano al golpe la distruzione dell’Urss, mentre è più evidente l’orientamento dei giovani verso il concetto di «rivoluzione democratica». 

Complessivamente, il 67% dei rispondenti si rammarica del crollo dell’Unione e il 76% attribuisce caratteristiche positive al periodo sovietico in sintonia con altre rilevazioni che descrivono una nostalgia per il passato sia nella leadership (il 60% dei russi sostiene l’apertura del museo di Stalin) sia nell’assetto politico-economico (il 66% vorrebbe vivere nel socialismo).

L’inchiesta sociologica svolta dall’istituto filo-governativo, VTsiom, agli inizi di dicembre nell’ambito del progetto federale “Trent’anni senza l’Urss”  rileva che l’82% dei rispondenti conosce la sigla Urss ma il 27% non sa nominare alcuna Repubblica dell’Unione. Tra coloro che riescono a citarne qualcuna, il 65% opta per l’Ucraina, seguita dalla Bielorussia al 59 e dall’Uzbekistan al 49%. 

Solo il 6% degli intervistati sa citare tutte le quindici Repubbliche, il 28% tra le dieci e le quattordici, il 12% da una a quattro. Inoltre, alla domanda «Quali sono gli eroi dell’Urss?», il 41% del campione afferma il cosmonauta Jurij Gagarin, il 22% Georgij Žukov e il 20% Josef Stalin. 

I sentimenti più negativi sono espressi nei confronti di Gorbaciov, il padre della Perestrojka, e del braccio destro di Stalin, Lavrentij Berija (20%), l’11% verso Nikita Krusciov e Stalin e il 9 per Boris El’cin. Tra i rispondenti più giovani, il 15% include anche Vladimir Lenin tra gli eroi, mentre l’antipatia/simpatia verso Stalin si attesta al 19%. Infine, l'11% dei giovani non sa il significato della sigla Urss.

 


Alla vigilia dell’anniversario del crollo del sistema sovietico la società russa è ancora divisa tra coloro che hanno subito in prima persona o nell’ambito familiare i nefasti effetti economici della transizione democratica e una giovane generazione che non ha un’approfondita conoscenza di quel periodo. Questa dicotomia tuttora fotografa la realtà sociale contemporanea della Russia: la minaccia di un ritorno a quel periodo traumatico degli anni Novanta che la propaganda del Cremlino continua a diffondere con efficacia per mantenere il consenso verso il presidente Putin tra gli over 50 e la tensione rivoluzionaria delle nuove generazioni «dei social media» che desiderano il cambiamento verso un futuro «libero» che tarda ad arrivare.”

https://www.rivistailmulino.it/a/nella-russia-di-putin-guardando-all-indietro

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Dell’anima russa ho scritto diffusamente nel marzo scorso su "Linkiesta" in occasione del novantesimo compleanno di Michail Gorbačëv 

https://www.linkiesta.it/2021/03/russia-putin-europa-biden/

Ne lascio la lettura alla residua pazienza del lettore. Qui riporterò soltanto le parole con cui volli concludere:

“Mai quanto oggi però, siamo consapevoli di quanto sia essenziale respirare con entrambi i polmoni europei , sforzandoci di curare in ogni modo le patologie che affliggono l’uno o l’altro. 



Un passaggio d’epoca nel corso del quale si possa finalmente prestare attenzione  a  quanto Fiodor Dostojewski nel 1877 scrisse nel “Diario di uno slavofilo”: «Oh se sapeste come è cara a noi sognatori slavofili l’Europa, quella stessa Europa che secondo voi, noi odiamo, quel paese dei sacri prodigi…Temiamo che essa non ci capisca e come prima, come sempre, ci accolga con alterigia e disprezzo e con la sua spada, come barbari selvaggi indegni di parlare davanti a lei».


Una trappola fatale sempre pronta per chi non sa distinguere dietro il volto impassibile e le mani insanguinate degli autocrati di ogni tempo, i popoli che essi opprimono.”



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 (*) Giornalista e saggista. Presidente Associazione PRUA

http://www.luigisanlorenzo.it/

 

 

 

 

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