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Immagine dal sito web Il cinema ritrovato |
Tra tecnica e filosofia, origine e destino della settima arte
di Luigi Sanlorenzo (*)
Il 28 dicembre 1895 nel Salon Indien del Grand Café del Boulevard des Capucines a Parigi, Louis Lumière, con la collaborazione del fratello Auguste, proiettò una serie di film-documentari della durata di un paio di minuti ciascuno. Iniziava la storia del cinema.
Le Arti erano sei e le loro origini si perdevano nella
notte della tempi. Dopo l’avvento della cinematografia venne
istituita “la settima arte”,
nome scelto semplicemente perché fu l’ultima ad essere inventata tra le forme
artistiche e di spettacolo.
L' invenzione "era già nell'aria". La messa a punto
della celluloide – la materia che per decenni ha costituito il film – era stata realizzata negli Stati Uniti,
dove i due fratelli Hyatt l'avevano inventana nel 1869. Nel 1884 altri due americani,
George Eastman e William H. Walker, mettono in commercio dei fogli di
celluloide emulsionata per apparecchi fotografici. La Eastman Dry Plate and
Film Company diventa la prima azienda leader di questo mercat (ben prima di
collassare nel corso degli anni 2000 in seguito al passaggio al digitale).
Il 9 aprile 1889, Harry Reichenbach, un giovane assistente di Eastman, deposita
un brevetto per la formula pressoché definitiva del supporto filmico flessibile
trasparente. Grazie alle campagne pubblicitarie della Eastman, la parola
“film”, di origine inglese, si impone in Francia all'inizio degli anni Novanta;
indica allora le “pellicole sensibili trasparenti” utilizzate dalla Kodak, il
nuovo apparecchio fotografico lanciato da Eastman che conoscerà un enorme successo
grazie alla sua semplicità d'uso: “You press the button, we do the rest”,
recita la pubblicità.
Il cinematografo nasce dunque nel
suo senso etimologico: “scrittura in movimento”. Effettivamente la Kodak del
1889 attrae l'attenzione di un celebre fisiologo, Étienne Jules Marey, che dal
1882 ha messo a punto a Parigi la cronofotografia (“scrittura del tempo
attraverso la luce”), un metodo per registrare le varie fasi di un movimento.
Fino ad allora Marey aveva utilizzato delle lastre di vetro ma si lamentava del
fatto che la superficie sensibile fosse troppo piccola. Attraverso le pellicole
trasparenti e sensibili della Kodak, che misuravano 70mm di larghezza, era
finalmente possibile registrare un maggior numero di immagini in successione.
Marey costruisce nel 1889 una macchina fotografica a pellicola che gli permette
di realizzare, a fini di osservazione scientifica, i primi film della storia
del cinema. Tuttavia le pellicole dell'epoca erano assai corte, da uno e due
metri. Non sono neppure perforate, ma per Marey sono sufficienti per registrare
più di ottocento film di lì al 1904, anno della sua morte.
Negli Stati Uniti l'inventore e industriale Thomas A. Edison, dopo aver visto
nel 1889 a Parigi gli apparecchi di Marey e di Émile Reynaud (il “teatro
ottico” di quest'ultimo permette di proiettare immagini dipinte a mano su una
lunga striscia di gelatina perforata a intervalli regolari), ritorna nel suo
laboratorio di West Orange e dà disposizioni per la messa a punto di una
macchina da presa con pellicola perforata. Aveva già lavorato su questo in
precedenza, ma le le sue ricerche intorno a un “fonografo ottico” si erano
arenate.
Ora si ritrova una buona soluzione e, grazie a George Eastman, il film
35mm (dalla pellicola Kodak 70mm tagliata a metà) perforato (quattro buchi
rettangolari su ciascun lato dell'immagine) nasce negli Stati Uniti nel 1893, e
sarà utilizzato praticamente tale e quale come standard per i centovent'anni
successivi.
Thomas Edison e il suo geniale assistente, William Kennedy Laurie Dickson,
mettono a punto una macchina da presa – il kinetografo – e un un visore – il
kinetoscopio, che permette di guardare attraverso un oculare un film 35mm lungo
15 metri contenente un piccolo sketch. Sono i primi film di genere, vi si
possono intravedere gli antenati dei western, con già alcune immagini erotiche.
Fra il 1890 e il 1895 centoquarantotto film vengono realizzati nella Black
Maria (il bizzarro teatro di posa bitumato e orientabile costruito a West
Orange). Il kinetoscopio si diffonde nel mondo nel 1894 e rappresenta un
notevole successo finanziario per Edison.
A partire dal quel 28 dicembre 1895, movimento e velocità costituirono anche un tratto peculiare del cinematografo (cioè «immagini in movimento»), il nuovo mezzo che più di
altri rappresentava e riproduceva "la meccanizzazione, la convulsione e l’impeto dei tempi
moderni", come ha scritto lo storico statunitense Stephen Kern.
Il pittore cubista francese
Fernand Léger, nel 1913, identificava nel cinema l’arte dinamica atta a rappresentare la vita
della società moderna, "più frammentata e in movimento più rapido che nei periodi precedenti".
Il cinema ebbe rapidamente diffusione mondiale. Univa tecnologia ottico-meccanica
(macchina da presa, proiettore e macchina da stampa) all’abilità e all’intuizione artistica di
chi riprendeva e montava le immagini. L’effetto fu da subito travolgente.
Il pubblico rimaneva affascinato dalla visione sullo schermo di volti, ambienti, soggetti in movimento, era
rapito dalla forza di una proiezione che sembrava annullare il confine tra raffigurazione o
finzione e realtà, come nei casi celebri dello spavento suscitato in spettatori sprovveduti
dall’ingrandirsi sullo schermo di una locomotiva in arrivo.
Nel 1899 i film dei fratelli Lumière
erano visti a Istanbul, Damasco, Gerusalemme, il Cairo, Bombay, Città del Messico, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Shanghai, Pechino, Tokyo e nelle città australiane. Ai primi documentari
si aggiunsero presto i film prodotti sulla base di invenzioni narrative. Il cinema si faceva teatro, spettacolo. Dai cortometraggi si passava ai lungometraggi.
Nel 1927 l’innovazione tecnologica avrebbe permesso anche la produzione di film con il sonoro.
Il cinema non era solo arte, ma anche un’impresa industriale. Gli alti costi della produzione
cinematografica richiedevano una complessa sinergia di innovazioni tecnologiche, politiche
di finanziamento, organizzazione del lavoro, dinamiche di mercato.
Dal 1896 si costituirono
le prime grandi case di produzione, dapprima in Francia e negli Stati Uniti e poi negli altri paesi. Dopo la prima guerra mondiale si affermò il predominio dell’industria cinematografica
statunitense sia nella produzione che nella distribuzione. Si formarono grandi case di produzione come la Paramount, la Fox, l’Universal e la United Artists. Hollywood, la sconosciuta cittadina
vicino a Los Angeles, divenne il centro mondiale degli studi cinematografici. Iniziava la stagione del divismo.
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Fino a non molti anni fa, gli incontri tra cinema e
filosofia erano infrequenti e occasionali, non solo in Italia. I filosofi
sfioravano il cinema per caso, imbarazzati; mentre sull'altro versante, la
teoria del cinema preferiva legittimarsi come disciplina attraverso il lessico
della semiologia.
Da un po' di tempo, tra i due ambiti sembra invece in corso
una vera storia d'amore. I filosofi si confrontano col cinema, li usano
volentieri come raccolte di exempla, e talvolta offrono analisi di notevole
pertinenza (la lettura di "The Tree of life" fatta da Emanuele Severino
sul "Corriere della Sera" di cui dirò più avanti) mentre citare i filosofi è diventata per gli
studiosi di cinema quasi una moda.
Certo oggi sorridiamo ricordando quando, nell'Italia dominata dalla cultura
crociana, ci si chiedeva timorosi se il cinema fosse o no un'arte. C'è piuttosto il rischio che il cinema non sia più, per la filosofia, un problema: in
nessun senso.
Un pericolo, ad esempio, è di considerare soprattutto i film come
storie che permettono di illustrare problemi filosofici, senza che il cinema
stesso diventi davvero oggetto di riflessione. In questa direzione andavano ad
esempio "Da Aristotele a Spielberg" di Julio Cabrera o i libri di Umberto Curi.
Troppo spesso insomma rimane inevasa la domanda che Stanley Cavell ha posto
come titolo di un proprio saggio: «Cosa succede alle cose in un film?» – che
implica poi un'altra domanda: «Cosa succede a chi guarda un film?». Per dar
conto dell'intreccio di ansie collettive, creazione individuale, sistema della
comunicazione può apparire salutare allora l'approccio "selvaggio" di
un pensatore come Slavoj Zizek, che non esita davanti alle implicazioni estreme
e oscene del visibile (la violenza, la pornografia).
Nel corso del Novecento, quelle immagini in movimento, a dispetto
dell'immediata analogia con le ombre ingannevoli della caverna di Platone,
hanno spesso funzionato come un richiamo al difficile rapporto tra la conoscenza
e gli oggetti, e più ancora al sensibile, al peso della singolarità.
Filosofi
provenienti da tradizioni culturali diverse e con percorsi lontanissimi, per un
attimo sembrano sfiorarsi nella sala cinematografica, cercando forse cose non
troppo diverse. Maurice Merleau-Ponty, alla fine degli anni Quaranta, si
interessava al cinema mentre cerca di recuperare il corpo, grande rimosso della
filosofia a partire dall' "io penso" di Cartesio. Siegfried Kracauer
mostrava che il cuore del cinema è la "redenzione della realtà fisica", e
dunque l'anima vera del film va cercata nel documentario.
Decenni dopo, Gilles
Deleuze leggerà i registi come se fossero filosofi, cercando il pensiero che
sta dietro i loro stili, e anche a lui il cinema offre spunti alla teoria della
conoscenza: l'inquadratura e il suo contenuto, ad esempio, il movimento di
macchina e l'oggetto ripreso, sono per lui un tutt'uno, per questa via egli
ripensava il rapporto tra singolo e totalità, oltre la dialettica. Sull'altra
sponda dell'oceano, Cavell usa il cinema come luogo di confronto con ciò che ci
è prossimo: una «filosofia delle immagini comuni», potremmo dire, sulla scia
della "filosofia del linguaggio comune" del suo maestro J. L. Austin.
Oggi il cinema, in crisi storica e di identità, può essere più che mai un
elemento problematico, un oggetto di riflessione. E per gli studiosi di cinema,
uno dei vantaggi della filosofia sarebbe quello di considerare i film non come
"testi", ma come parti di un'"esperienza" (conoscitiva,
emotiva, sociale) che contribuisce a creare gli schemi in cui il mondo viene
conosciuto e sentito. Il cinema rimane un banco di prova per il pensiero, per
il nostro rapporto con il "reale": il numero 46 della
«Rivista di estetica», curato da Domenico Spinosa e dedicato all'«Ontologia del
cinema», parte proprio dalla necessità di pensare il cinema nel momento della
sua morte (o reincarnazione), nel tempo delle immagini digitali.
E non è un
caso che tornino di moda oggi i primi teorici del cinema (da Munsterberg a Balasz),
che un secolo fa si trovarono davanti le immagini in movimento su uno schermo,
affascinati e sgomenti come il Serafino Gubbio di Pirandello.
Così Umberto Eco in una celebre "Bustina di Minerva" del 1989
"Alberto Moravia, nella sua rubrica di cinema ha scritto che "L'orso" di Jean Jacques
Annaud «oscilla tra il film d’autore e il prodotto di successo», mentre tutti
ne avevano parlato solo come di un film che cerca di far leva sui buoni sentimenti,
e sulla nostra ingenua propensione a vedere gli animali come esseri umani,
capaci di fare ciao ciao con la manina.
E, sempre sull' "Espresso", Giorgio Celli
argomentava che forse gli orsi si comportano anche così, ma che non è la realtà
etologica che conta, bensì l'intento ecologico.
In ogni caso nessuno può mettere in dubbio che il film giochi su uno
straordinario effetto di realtà. Vi ho ceduto anch'io: mi sono goduto il film
di Annaud intenerendomi nei momenti giusti. E tuttavia seguivo la vicenda preso
da un sospetto crescente: che il film non mi parlasse affatto di orsi. Avrebbe
potuto ottenere lo stesso effetto se avesse raccontato una storia di lucertole.
Infatti "L'orso" non ha per protagonista un orso, bensì il cinema in persona.
E' un esercizio, una scommessa, una dimostrazione teorica - ma anche una
dichiarazione d'amore - sulle possibilità del cinema e sul fatto che il cinema
non è arte imitativa e realistica. Il cinema è un alto artificio che mira a
costruire realtà alternative a spese di quella fattuale, che gli provvede solo
il materiale grezzo. Il film di Annaud è un inno all'effetto Kulesov.
Lev Vladimirovic Kulesov è stato un grande cineasta e teorico del film di cui
Pudovkin diceva: «Noi facciamo film, lui ha fatto il cinema». E aveva non solo
teorizzato, ma realizzato in pellicole e in esperimenti di laboratorio tutte le
magie del montaggio. Kulesov riprendeva il "grande" Muzuchin mentre
guardava fisso davanti a sé, non importa con quale espressione. Poi in fase di
montaggio mostrava in controcampo un piatto di minestra.
Lo spettatore era
convinto che l'attore esprimesse intensamente una ardente brama di cibo. Poi
Kulesov cambiava il montaggio, e mostrava al posto della minestra un cadavere.
Muzuchin esprimeva, per chi guardava, orrore, tristezza e sgomento. La faccia
era sempre la stessa, ma il montaggio l’aveva caricata di sentimenti, ovvero
aveva indotto lo spettatore a proiettare nella pellicola i sentimenti che si
attendeva di veder espressi.
Un'altra volta Kulesov aveva mostrato una donna che si truccava davanti a uno
specchio, sollevava da terra una sigaretta, si infilava le scarpe: ma la donna
non esisteva, il regista aveva usato volta a volta la faccia, gli occhi, le
mani, i piedi e la schiena, rispettivamente, di cinque donne diverse. Scriveva:
«Si può mostrare che con il montaggio l'attore può anche non conoscere
assolutamente le cause che lo costringono a esprimere dolore, gioia eccetera, e
che nel cinematografo ogni espressione di sentimento da parte dell'attore non
dipende dalle cause materiali di questi sentimenti».
Il pubblico di Annaud segue la tenera storia di un orsacchiotto senza rendersi
conto che gli orsacchiotti usati sono più di uno e di colore diverso (ma si
pensa che la differenza sia dovuta alla luce). Rivedendo i vari fotogrammi del
film, ci si renderebbe conto che questi orsacchiotti hanno sempre la stessa
espressione, o comunque una gamma assai limitata di espressioni ferme, per
nulla simili a quelle umane. Ma il sonoro da un lato (che commenta le
espressioni e i gesti con gemiti e mugolii teneramente antropofonici) e il
gioco del montaggio inducono lo spettatore a pensare che quegli orsi patiscano
quelle emozioni che noi patiremmo nelle stesse circostanze.
Il film di Annaud ci dimostra che con il montaggio si può dire tutto,
specialmente quello che non c'è. Incontrando Annaud gli ho detto brutalmente
che a lui degli orsi non importava nulla e che voleva fare un film sul cinema
come bella menzogna, ovvero come arte. Mi ha risposto che era felice che
qualcuno finalmente glielo dicesse. Gli ho chiesto perché non lo diceva lui. Mi
ha risposto che ha tentato, ma la gente non gli crede. Gli chiedono notizie
dell'orsetto.
Annaud ha dunque vinto la sua scommessa, e forse troppo? Per rispondere bisognerebbe
decidere quale era la scommessa. Se era quella che dico io, ha forse ridotto
troppo quei segnali impercettibili attraverso i quali avverte lo spettatore che
egli sta facendo un gioco sulla fune, tra l'arte sull'arte e la poesia ingenua
e sentimentale."
Si racconta - ma è poco meno che una barzelletta - che il filosofo Benedetto Croce, incuriosito dal crescente successo del cinematografo, chiese ad un suo discepolo di fargli una relazione sul fenomeno, invitandolo naturalmente a visionare un certo di numero di pellicole in programmazione. Avendo avuto un parere del tutto negativo sulla presunta valenza estetica delle immagini in movimento, se ne disinteressò totalmente, come d'altronde fecero molti altri intellettuali e non solo i filosofi.
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L'autore con Emanuele Severino e Enzo Rullani Salò (BS) 2005 |
Cent'anni dopo, più o meno, il filosofo Emanuele Severino, maestro che tanto ci manca, scrisse per il "Corriere della sera", un lungo articolo su "The tree of life", il film del regista Terence Malick, con Brad Pitt, Sean Penne e Jessica Chastain. premiato con la Palma d'oro a Cannes nel 2011. Il film, pur essendo tra i maggiori incassi di quella fine stagione (quarto posto in Italia), divise critica e pubblico in maniera trasversale.
Ovvero, non è solo il semplice piacere della visione a stabilire un confine tra l'accettazione e il rifiuto delle oltre due ore di proiezione, ma anche l'interpretazione tematica e formale.
C'è chi si è sentito quasi oppresso dallo squilibrio tra il gigantismo spettacolare e l'intimismo della vicenda; altri che si sono fatti trascinare dentro quell'universo panteista; altri ancora hanno letto, in trasparenza, un pessimismo assoluto, leopardiano - per usare le parole di Severino - nel rapporto tra l'uomo e il cosmo; e infine, buoni ultimi, non sappiamo se in maggioranza o in minoranza, tanti spettatori hanno pensato ad un tentativo di integrare natura e cultura, materia e spirito, ricercando l'essenza dell'uomo contemporaneo nella spiritualità metafisica.
Poiché Severino contesta proprio questa lettura, è facile inchinarsi alla sua sapienza ed essere soddisfatti che un grande filosofo si degni di analizzare in profondità un testo filmico, che evidentemente merita le sue riflessioni, magari sollecitate dalla circostanza che Terence Malick, uomo dai mille mestieri e dalla scarsissima autopromozione, è stato interprete e traduttore di Heidegger per l'editoria statunitense.
La questione in gioco, sotterranea ma avvertibile in tutto lo scritto del filosofo, è però un'altra, persino più interessante dell'analisi specifica del film. Dalla barzelletta su Croce e il cinema, difatti, è passato molto tempo, e, soprattutto nel dopoguerra, non sono stati pochi i saggi che hanno letto i film (spesso in maniera banalmente tematica) da un punto di vista filosofico.
Soprattutto alcuni autori (per tutti Antonioni, Bergman, Tarkowski, ma anche il Kubrick di "2001, Odissea nello spazio" molto citato da Malick, hanno costruito autentiche filosofie del presente a partire dal linguaggio audiovisivo. Ne ho scritto nel giugno scorso su https://www.lospessore.com/20/06/2021/tra-condizionamento-e-libero-arbitrio-il-mondo-inquietante-di-stanley-kubrick/
Ora, Emanuele Severino non si limita ad interpretare "The tree of life", ma dichiara, più o meno, che il film è importante perché, alla pari dei miti greci e di tutte le grandi opere d'arte, trasfigura la paura (e la certezza) della morte attraverso il teatro, o anche, trattandosi di cinema americano, attraverso una festa salvifica, basamento di ogni civiltà che, in ogni tempo e in ogni luogo, cerca di sublimare l'inevitabile destino umano.
Potremmo benissimo collegare questa considerazione ad una molto più prosaica di Borges: «il cinema americano ha salvato dall'estinzione la mitologia». Domanda: si può estendere la considerazione di Severino, che, appunto considera la mitologia come fonte filosofica, a tutto il cinema americano, a cui dopotutto appartiene pienamente e formalmente Malick?
Se la risposta è sì, dobbiamo pur dire che Adorno e Horkheimer, quando, negli anni Quaranta, in "Dialettica dell'illuminismo" attaccarono duramente e senza alcuna possibilità di salvezza, l'industria culturale statunitense, principio e fine di ogni omologazione dei cittadini ad un pensiero unico, sbagliarono clamorosamente.
Come in un immenso imbuto dove confluiscono e si scaricano le azioni, i sentimenti e le angosce umane, individuali e collettive, il cinema rimane il grande repertorio esistenziale di un'epoca che va ora a concludersi.
Giunto alla fine
della propria parabola, nella forma in cui lo abbiamo inteso, prodotto e fruito per oltre un secolo, esso sta per lasciare il posto a nuove e più ardite teconologie e suscita inquietudini simili a quelle che provocò
al suo primo apparire e dalle quali ci salva come sempre la sublime ironia di Woody Allen:
"Allora tutto il film della mia vita mi è passato davanti agli occhi in un istante. E io non ero nel cast! "
Buon compleanno caro cinema, vero ed unico paradiso concesso in vita a noi umani !
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(*) Giornalista e saggista. Presidente Associazione PRUA
http://www.luigisanlorenzo.it/index.html