Wilbur Addison Smith nella sua Africa |
Se fosse stato un faraone dell'antico Egitto, oggi lo seppelliremmo lungo le rive del Nilo, nella piramide segreta della memoria, con accanto gli ushabti della regina Lostris, del fido Taita e del giovane Mamose.
Se avesse comandato un dhow nell'Oceano Indiano, lasceremmo scivolare fuori bordo il suo corpo coperto dalla bandiera britannica che tanto gli fu cara e dalla mezzaluna verde.
Se avesse sorvolato con un biplano di tela i cieli della Prima Guerra mondiale, oggi in suo ricordo ogni aereo avrebbe fatto oscillare le ali.
Se fosse scomparso nel deserto del Kalahari, oggi i piccoli Boscimani canterebbero per lui.
Se il suo ultimo respiro fosse stato lungo le rive del Limpopo, i capi Zulu ne avrebbero seppellito il corpo nelle pianure erbose del bushweld dove si incontrano il Botswana e lo Zimbabwe e generazioni di elefanti e leoni gli avrebbero reso omaggio per l'eternità.
Wilbur Addison Smith non è stato nessuno di loro e tuttavia tutti sono stati lui, forse il più grande Tusitala della letteratura d'avventura del XX secolo, lo Stevenson del '900, l' Hemingway della nostra generazione.
Gli uomini e le donne protagonisti dei suoi quarantanove romanzi tradotti in tutte le lingue del pianeta e letti da oltre centoquaranta milioni di persone, sono stati tutti "gente di prua" spiriti coraggiosi pronti ad affrontare l'ignoto, a costruire dinastie e destini per quanti ne seguivano le impronte.
Ci ha lasciato ieri, in un placido pomeriggio sudafricano nella sua casa di Città del Capo, in Sudafrica, sotto la Montagna della Tavola, dove viveva con la sua quarta moglie, poche ore dopo aver parlato con lei di nuovi sogni e di arditi progetti narrativi.
Era nato a Broken Hill nella Rodhesia del Nord, l'attuale Zambia, il 9 gennaio del 1933 e le sue prime esperienze letterarie non ebbero successo: tutti gli editori sudafricani ed europei, circa una ventina, rifiutarono di pubblicare i suoi scritti, fino a quando Charles Pick - della William Heinemann, fondata a Londra ed oggi di proprietà statunitense, che alla fine del XIX secolo aveva pubblicato H.G.Wells , Robert Luis Stevenson, Rudyard Kipling e Sylvia Plath - decise di contattarlo.
Incoraggiato da tale stimolo, Smith iniziò a scrivere libri incentrati su tutto ciò che meglio conosceva e amava: la foresta, gli animali selvaggi, le montagne impervie, le dolci colline del Natal , l'oceano, la vita degli indigeni, la storia della scoperta dell'Africa meridionale, la lunga e travagliata strada verso l'abbandono dell'apartheid, il ritorno nella comunità internazionale.
Oggi tutti i giornali ne pubblicano la biografia e la bibliografia, ma io non lo farò, potete trovarle sulla rete o leggere la sua autobiografia "Leopard Rock. L'avventura della mia vita" pubblicata da HarperCollins Italia nel 2018.
Vi dirò invece ciò che ha rappresentato per me, fin da quando nella piccola mansarda di Caltanissetta, un bancario riluttante che presto si sarebbe liberato da quel peso per percorrere altre strade, lesse nel 1980 uno dei suoi primi libri di esordio "Come il mare".
Sono trascorsi quarant'anni da allora e i libri di Smith - credo non averne ignorato alcuno - mi hanno accompagnato nella vita e, talvolta aiutato nelle scelte pià difficili, non meno di quanto abbiano fatto i filosofi, gli storici, i politologi e gli altri narratori cui devo la mia formazione e il mio destino.
Il rito dell'attesa del nuovo romanzo, l'accortezza di portarne con me sempre una copia nei viaggi sono oggi una preziosa eredità della memoria poichè in ciascuna opera è indicato l'ex libris personale ed il luogo e la data in cui sono stati letti.
Oggi, in sua memoria, li ordinerò seguendo l'anno di pubblicazione ed i vari cicli narrativi; riaprendone le seconde di copertina troverò la storia delle tappe, geografiche ed interiori, della mia vita.
Mi ha fatto compagnia nei momenti facili e nei più difficili, quando il corpo e la mente urlavano il bisogno insopprimibile di nuove rotte per nuovi porti che solo la fantasia può indicare, dandomi la forza di rendere reali gli uni e gli altri, quando altri preferivano la bonaccia del rassicurante tran tran quotidiano dal quale un giorno ti svegli e scopri di non aver vissuto.
In più occasioni ho scritto di aver imparato più dalla narrativa che dalla saggistica e ho denunciato come la carenza di libri di avventure scrtti da italiani sia all'origine della scarsa creatività di almeno due generazioni così come lo è la sciocca convinzione di considerare libri per ragazzi "Moby Dick" " Le avventure di Tom Sawyer" "L'isola del Tesoro" " Don Chisciotte della Mancia" o i romanzi di Jules Verne.
Una società che non sogna è destinata ad essere preda della disperazione, della paura dell'ignoto e del diverso, rinchiudendosi in quel tremendo bozzolo di solitudine e autoreferenzialità da cui nascono la depressione, l'odio e l'intolleranza.
Una comunità che si nega al viaggio del corpo o della mente è destinata a credersi il centro del mondo, costruendo prigioni chiamate "piccole patrie" dalle cui sbarre il mondo esterno è temuto, escluso e sostituito dall'autocelebrazione dei propri riti provinciali che offuscano la mente.
E quando ciò si diffonde e diventa "politica" quel sonno dell'immaginazione si trasforma in incubo e genera mostri.
Con la scomparsa di Wilbur Smith, che segue quella di Clive Cussler nel febbraio dello scorso anno, si chiude un'epoca, forse l'ultima dei grandi scrittori globali di avventure e mentre i nostri capelli diventano bianchi e gli occhi faticano a seguire il desiderio della mente di nuove e più avvicenti storie da leggere o da raccontare, non possiamo che indicare a chi, ormai adulto può disporre di se stesso, la strada della scritttura come unica via per raggiungere il luogo "dove finisce l'arcobaleno".
Jambo, bwana Wilbur !
Ci rimane ancora Ken Follet. Che il Signore ce lo conservi ancora a lungo.
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