Il progetto di affrancamento dalla schiavitù del lavoro è un’idea potente che, prima ancora della sistematizzazione operata da Karl Marx, ha spinto fin dall’antichità filosofi ed economisti, scienziati e politici, teologi e psicologi ad interrogarsi sulla natura dell’attività umana quando essa è applicata alla produzione di beni materiali e di servizi, originariamente per l’uso diretto o di prossimità e, nel corso dei secoli, per la distribuzione al cosiddetto "mercato" cioè a milioni di persone che il lavoratore, diventato nel frattempo un salariato, non avrebbe mai conosciuto.
Le trasformazioni della natura del lavoro hanno modificato le società di volta in volta contemporanee, hanno creato le città, fatto nascere nuove istituzioni, inedite visioni dell’uomo e della società.
Nel disperato tentativo di liberarsi dalla condanna biblica ad un inesorabile destino di fatica e di sudore, si sono immaginate società utopistiche, elaborate teorie di progressiva liberazione, prodotte macchine che sgravassero dall’onere della sofferenza, applicate sofisticate forme di sostituzione tecnologica, informatica, digitale e robotica.
Si può dunque affermare che l’umanità si è evoluta sul piano pratico,in funzione dell’invenzione di nuovi mezzi sostitutivi della forza fisica e, su quello intellettuale, dell’elaborazione di un pensiero critico animato da concetti relativamente recenti.
La pattuizione contrattuale, il diritto ad una quantità crescente di tempo per sé, retribuito, la liberazione della donna dal secolare ed esclusivo ruolo ancillare, il riconoscimento della tutela dei minori da mansioni uguali a quelle degli adulti, la facoltà di riunirsi in corporazioni, sindacati, associazioni di categoria, partiti politici sono state le tappe di questa evoluzione.
Il lavoro è stato dunque la molla del progresso, animando sovente quei conflitti necessari a prendere atto delle contraddizioni, delle diseguaglianze, delle condizioni di sfruttamento o di novelle schiavitù.
Il fondamento costituzionale della Repubblica italiana è, a ragion veduta, proprio il lavoro nelle molteplici forme, inteso come massima espressione della creatività umana, aspirazione alla ricomposizione dell’equilibrio tra chi lo chiede e chi lo offre, irrinunciabile diritto ad ottenerlo e, al tempo stesso, dovere civile di esercitarlo per concorrere all’esistenza e all’ evoluzione della comunità nazionale.
Lavoro, dunque, come mezzo di sostentamento, realizzazione delle inclinazioni personali e delle vocazioni territoriali, potente fattore di coesione nazionale, ascensore sociale per affrancare i più deboli dalla perenne dipendenza dalle condizioni di nascita, di cultura, di censo.
Non deve pertanto meravigliare l’accostamento tra le parole lavoro, sole e avvenire che, nelle società socialiste, hanno rappresentato l’evocazione di un futuro migliore e più degno, generato non dal caso, dal destino o dalla benevolenza divina, quanto invece dall’attività di uomini e di donne operosi e fieri di ogni mansione svolta, sottratta così ad odiose classifiche o categorie sociologiche che ne degradassero il valore individuale in una retrograda e miope divisione sociale.
Già dall’apologo di Menenio Agrippa, datato 504 a.C. all’enciclica "Centesimus Annus" di Giovanni Paolo II nel 1991, all’indomani del crollo del comunismo internazionale, per giungere alle più aggiornate analisi di Jeremy Rifkin e di Noam Chomsky, alle sempre puntuali ed anticipatrici prospettive delineate da Domenico De Masi o da Luciano Gallino, l’interdipendenza tra capitale e lavoro, la stretta correlazione tra le rispettive funzioni e la dignità di entrambi, legati da una necessaria mutualità, hanno a lungo consolidato il convincimento che esiste una sola definizione di lavoro che provo a sintetizzare, assumendone la relativa responsabilità teoretica: il ruolo delle molteplici intelligenze umane esercitato nell’ambiente naturale per amministrane le risorse ed accrescerne il valore fisico e spirituale da lasciare in eredità a chi verrà dopo.
Intelligenza, ambiente, risorse, valore, eredità.
Cinque key words che cercano nuovi e più ricchi significati nella grande drammaticità di una connessione ideale la cui trama oggi appare lacerata in più punti, ove non del tutto dissolta.
Cinque dita di quella stessa mano che all’alba della civiltà si levò alta a brandire per la prima volta il frammento di un osso, sorpresa del suo stesso gesto e al tempo stesso smarrita nell’atroce incertezza se farne uno strumento per costruire il futuro o un’arma per distruggerlo.
Quell’ "Odissea nello Spazio" prefigurava il 2001 come anno del raggiungimento simbolico di compiute consapevolezze ma ci trova invece ancora una volta naufraghi e smarriti nell’ oceano di certezze frantumate, di speranze infrante, di occasioni sprecate.
Ma a differenza di quanto hanno narrato le grandi opere della letteratura mondiale traendone spunto per storie indimenticabili, il naufragio contemporaneo non ha nulla di epico. Oggi si è fatto deriva, condizione di vita, angoscia e devianza, ricerca perenne ed inquieta di mancati approdi e tutti siamo Robinson, alla ricerca di una mitica Dryland.
Per trovarla dovremo diventare mutanti, dovremo cioè sviluppare inedite branchie che ci permettano di acquisire sentimenti nuovi, di percepire nuovi orizzonti, di muoverci, mobilis in mobile come recitava il motto del Nautilus immaginato da Jules Verne come soggetto in costante mutamento nell' Ambiente in continua trasformazione.
Se non lo faremo, se resteremo aggrappati a navi che affondano, senza il coraggio di andare “per l’alto mare aperto” regaleremo il mondo ai tanti smokers che vorrebbero ammaliarci anche in questi giorni con promesse che sanno già di non mantenere, per strapparci dalle mani e dalla mente la mappa della speranza.
Ancora una volta siamo in cerca di nuovi, seppur momentanei, approdi insperati su cui deporre in una trasparente scatola del tempo gli errori del passato ed erigere i nuovi obelischi di un’Umanità provata che celebrerà nel primo maggio dell’anno zero della nuova era il valore del lavoro umano quale energia fondante di ogni futura, ulteriore, navigazione.
C'è chi sostiene che le vicende belliche di questi mesi stiano proiettando all'indietro, nel fosco "Novecento", la storia dell'Umanità e con essa il sogno di una globalizzazione che, di fatto, ha mancato i propri obiettivi per attestarsi soltanto sulla dimensione comunicazionale e finanziaria piuttosto che su quella della crescita della dignità dell'esistenza di ogni essere vivente.
Frana miseramente l'ultima illusione che la natura umana sia benigna e guidata dalla solidarietà piuttosto che dalla predazione e dall'aggressività di popoli e di singoli individui; istinti atavici belluini e ineliminabili ma che occorre imbrigliare e contenere: un compito che soltanto l'educazione e la buona politica potranno assolvere, prima che nel volgere di pochi anni, sia troppo tardi per distinguere la luce dell'alba nella notte che ci avvolge.
Sia questo allora il messaggio autentico di questo Primo Maggio che meriterebbe il silenzio e la riflessione piuttosto che le rumorose e ben "remunerate" performance musicali - talvolta retoriche e scomposte - in cui sembra esaurirsi e spegnersi il significato originale della celebrazione della più nobile tra le attività umane che ha ispirato a Martin Luther King le parole che seguono:
“Se un uomo viene chiamato a fare lo spazzino, dovrebbe pulire le strade come Michelangelo dipingeva, o come Beethoven componeva, o Shakespeare scriveva poesie. Dovrebbe spazzare così bene che tutti gli ospiti del cielo e della terra si fermerebbero a dire che qui ha vissuto un grande spazzino che faceva bene il suo lavoro.”
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(*) Giornalista e saggista. Presidente PRUA
https://www.associazioneprua.it/socio-luigi-sanlorenzo/
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